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La Bottega del Barbieri

La centrale a carbone che avvelena Tuzla e…

… e frena la transizione energetica.

di Marina Forti (*)

Scuola elementare di Bukinje, Bosnia ed Erzegovina, ottobre 2021. Dietro al campo da basket, le ciminiere della centrale di Tuzla (Carlo Dojmi di Delupis – ReCommon)

Sul pendio di una collina, Bukinje sembrerebbe un tranquillo quartiere residenziale alle porte di Tuzla, città della Bosnia ed Erzegovina. Villette unifamiliari costruite con il lavoro di diverse generazioni, piccoli orti, un campetto di pallavolo davanti alla scuola elementare. Eppure il quartiere si sta spopolando. “Chi può scappa”, dice Goran Stojak, che abita in una di quelle villette ed è il rappresentante eletto della circoscrizione presso il consiglio municipale.

Il motivo è che Bukinje non respira più. È assediato. Da un lato, dietro alla scuola elementare spuntano le gigantesche torri di raffreddamento del più grande impianto termoelettrico della Bosnia, la centrale di Tuzla Elektroprivreda Bosna i Hercegovina (EpBih), l’azienda pubblica per l’energia elettrica. Sul lato opposto il quartiere è stretto tra due discariche dei residui della medesima centrale, alimentata a carbone. Le ceneri riempiono bacini artificiali; quando seccano la polvere vola ovunque, disperdendo metalli pesanti e altre sostanze tossiche. “Qui tutti sono ammalati”, riassume Stojak. “La luce elettrica la paghiamo con la vita. Per questo chi può va via: per salvarsi, o almeno salvare la salute dei propri figli”.

L’impianto termoelettrico di Tuzla da qualche tempo fa notizia in Bosnia. Ma non per la salute degli abitanti di questa periferia urbana; del resto, nessuno ha chiesto il loro parere. A far discutere invece è il progetto di aggiungere un altro pezzo alla vecchia centrale, una nuova unità termoelettrica, sempre a carbone, da 450 megawatt di capacità. Chiamata Tuzla 7, dovrebbe sostituire le unità 3, 4 e 5, oggi attive ma obsolete. Un nuovo impianto a carbone nei Balcani occidentali, proprio mentre tutti i piani europei per combattere il cambiamento del clima prevedono di abbandonare questo combustibile, di gran lunga il più nocivo. Nei primi mesi del 2020 la Elektroprivreda aveva avviato i lavori preliminari. Oggi però il progetto è circondato da grande incertezza. Ed è ormai un problema di portata internazionale che chiama in causa la Cina, l’Europa, e in particolare l’Italia.

Gigantismo industriale
Riassumiamo. Nel 2014 la Elektroprivreda Bih ha concluso un accordo con un consorzio guidato da due imprese cinesi (China Gezhouba e Guangdong electric power design, entrambe sussidiarie della China energy engineering corporation) per costruire la nuova unità Tuzla 7. Nel 2017 la China Exim bank, l’istituto cinese di credito per le esportazioni, ha concesso un finanziamento per coprire buona parte del costo dell’opera, stimato in 720 milioni di euro. Una parte minore (circa il 15 per cento) è finanziata da un consorzio di banche tra cui la russa Sberbank e l’italiana Banca Intesa Sanpaolo. Anche per questo, oltre che per prossimità geografica, l’impresa bosniaca ci riguarda.

Oggi il progetto Tuzla 7 è fermo. Nel settembre 2020 la General electric, impresa multinazionale statunitense, ha deciso di uscire dal progetto rinunciando a fornire caldaie, turbine e generatori elettrici. I partner cinesi hanno proposto al governo bosniaco di trovare altri fornitori in Cina, ma questo implicherebbe modificare il progetto e rivedere i contratti. Per il momento non è stata trovata un’alternativa, anche se il direttore generale della Elektroprivreda, Admir Andelija, continua a dichiarare ai mezzi d’informazione locali che la Bosnia ha assoluto bisogno del nuovo impianto (la direzione generale della EpBih non ha mai risposto alla nostra richiesta di commenti).

La centrale termoelettrica è l’immagine del gigantismo industriale. Si vede bene da una collinetta alle porte di Tuzla, in località Husino, con un belvedere dominato dalla statua in bronzo di un minatore che leva un fucile con gesto vittorioso. Il monumento commemora una rivolta avvenuta nel 1920 nelle vicine miniere di carbone: la Husinska Buna è rimasta famosa e il minatore armato era divenuto un’icona della vecchia Jugoslavia.

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Il belvedere affaccia sull’impianto di Elektroprivreda, imponente, con le sue tre torri di raffreddamento e una selva di ciminiere in gran parte attive, e i quartieri abitati sullo sfondo. Anche le fondamenta della nuova unità sono ben visibili, una grande spianata di cemento su cui però cominciano a crescere le erbacce.
“E dire che sono già stati spesi milioni di marchi bosniaci”, esclama Zvjezdan Karadžin, ministro per l’ambiente e la pianificazione del territorio del cantone di Tuzla (due marchi bosniaci valgono circa un euro). Mi riceve nel suo ufficio, nella zona nuova della città. Ingegnere minerario di formazione, con diversi diplomi in pianificazione ambientale, Karadžin spiega che il piano nazionale per il clima della Bosnia ed Erzegovina prevede di rinunciare definitivamente al carbone entro il 2050, e che il nuovo impianto Tuzla 7 “era pensato proprio per permettere la transizione. La defezione della General electric ci ha lasciato nel limbo. Per la Bosnia è un bel problema: dieci anni fa sarebbe stato più facile, oggi non so se abbiamo alternative”.

Non sono tanto le alternative energetiche a preoccupare il ministro cantonale. Parla di energia solare e di un impianto per bruciare “cdr”, o “combustibile da rifiuti”, ovvero un inceneritore che produca energia. Elenca programmi per l’efficienza energetica e il progetto finanziato dall’Onu per sostituire le vecchie caldaie domestiche a carbone con le biomasse. Ha progetti per risistemare il territorio. “Per l’energia abbiamo qualche opzione, anche se richiederà tempi lunghi”, dice Karadžin.

Una regione di crateri minerari
Il fatto è che la centrale termoelettrica brucia carbone estratto nelle vicinanze, e produce circa il 40 per cento dell’energia elettrica di tutta la Federazione, che in parte viene esportata. Da questo dipende buona parte del prodotto interno lordo del cantone di Tuzla, sottolinea Karadžin: “Abbiamo quasi seimila minatori e duemila addetti alla centrale termoelettrica. Moltiplicate per quattro con le loro famiglie, aggiungete centinaia di aziende dell’indotto. Che alternativa daremo a questi lavoratori?”.

Già: da almeno un secolo il carbone plasma il cantone di Tuzla. “Guardate le mappe satellitari”, insiste il ministro. Ecco Tuzla e la vicina cittadina di Lukavac in un ampio fondovalle, mentre tra le montagne a sud e ovest si notano grandi crateri. Sono le miniere: enormi scavi a cielo aperto che hanno scoperchiato montagne, spostato colline, cambiato la morfologia del territorio e la geografia umana. Un secolo fa arrivarono ingegneri minerari dall’Austria, ricordano qui. Poco a poco, con le miniere sono nate piccole città per accomodare i lavoratori. Come Banovići, a una ventina di chilometri dal capoluogo, 23mila abitanti che dipendono direttamente o indirettamente da tre miniere a cielo aperto e una sotterranea. Un altro gruppo di miniere prende il nome da Kreka, sobborgo a ovest di Tuzla. Altri crateri sulla mappa sono di vecchie miniere dismesse. Il carbone, che qui è per lo più lignite, è stato un elemento chiave dell’economia della vecchia Jugoslavia e poi della Bosnia ed Erzegovina; ha permesso di sviluppare industrie, riscaldare le case, alimentare treni. E di produrre energia elettrica.

Bukinje, ottobre 2021. Goran Stojak, rappresentante dei cittadini dell’area presso il consiglio municipale. - Carlo Dojmi di Delupis, ReCommon

Bukinje, ottobre 2021. Goran Stojak, rappresentante dei cittadini dell’area presso il consiglio municipale. (Carlo Dojmi di Delupis, ReCommon)

Anche in Bosnia però la parabola del carbone è in declino. “Dovevamo ristrutturare le miniere almeno vent’anni fa”, continua il ministro Karadžin, e cita uno studio da lui diretto nel 2000 sul riassetto dell’industria carbonifera, che resta di proprietà pubblica. “Ristrutturare” in questo caso significa modernizzare i macchinari e tagliare sulla mano d’opera, insiste: “Dopo la guerra (di Bosnia, ndr) era il momento di farlo. Invece le miniere non sono state toccate: gli investimenti sono mancati, non c’è stata innovazione, la gestione è stata incompetente. Oggi il prezzo del carbone non basta a coprire i costi dell’estrazione, la domanda cala, le miniere sono indebitate”. E però “nessun dirigente politico ha il coraggio di metterci mano, perché vorrebbe dire lasciare centinaia di persone senza lavoro e trovarsi contro un movimento di minatori”. Senza la centrale Elektroprivreda, anche le miniere sarebbero definitivamente condannate.

La traccia del carbone
Intanto la centrale termoelettrica lascia una traccia pesante. Per rendersene conto bisogna superare le ciminiere, oltrepassare una vecchia fabbrica chimica chiusa con l’ondata di privatizzazioni seguita alla guerra di Bosnia, e imboccare una strada secondaria che va in collina, tra il quartiere di Bukinje e il villaggio di Plane. La strada diventa sterrata e corre accanto a grandi tubature fino a un crinale, sul bordo di uno strano lago di fango azzurro e grigiastro chiuso da un terrapieno artificiale. Si chiama Jezero Dva (lago due), e contiene i reflui della centrale Elektroprivreda. Tonnellate di ceneri diluite in acqua sono scaricate qui, con grandi getti, attraverso quelle grandi tubature. “I dirigenti della centrale termoelettrica sostengono di smaltire le scorie secondo le migliori tecniche disponibili: ma non è vero”, osserva Denis Žiško, attivista del Centro per l’ecologia e l’energia (Centar za ekologiju i energiju), organizzazione ambientalista di Tuzla, che ci ha guidato fin qui. L’invaso artificiale non è stato impermeabilizzato, spiega, così i fanghi tossici possono penetrare nel terreno e infiltrarsi nella falda acquifera. Inoltre nulla impedisce alle polveri di volare, come sanno bene gli abitanti dei dintorni.

Sulle colline intorno all’impianto dell’Elektroprivreda ci sono sei laghi artificiali simili a questo, spiega Žiško: “Jezero Dva è l’unico attivo al momento; gli altri sono ormai saturi”. Come quello che si vede sull’altro lato del crinale, un terreno piatto, coperto di erbacce e stoppie secche: “È stato dismesso una decina d’anni fa. L’azienda elettrica lo ha fatto ricoprire con un piccolo strato di terra poi l’ha donato alla municipalità di Tuzla”. Un regalo avvelenato, in senso letterale: “Avevano cominciato a coltivarci il mais, ma quando abbiamo analizzato quelle piante abbiamo scoperto che contenevano metalli pesanti assorbiti dal terreno”. Mentre parliamo, camion con rimorchi carichi di detriti e terriccio si arrampicano lentamente fino al crinale, svoltano verso il lago disseccato, e rovesciano il loro carico. “La municipalità ha invitato chiunque abbia detriti inerti a buttarli qui, per coprire meglio la vecchia discarica. Anche se nessuno controlla cosa ci sia davvero in quei detriti”.

Il lago artificiale Jezero Dva, che contiene le acque reflue di scarto della centrale a carbone Elektroprivreda, ottobre 2021. - Carlo Dojmi di Delupis, ReCommon

Il lago artificiale Jezero Dva, che contiene le acque reflue di scarto della centrale a carbone Elektroprivreda, ottobre 2021. (Carlo Dojmi di Delupis, ReCommon)

È stata la piccola organizzazione ambientalista di Tuzla ad analizzare quei terreni, continua polemico Denis Žiško, “perché non esiste un adeguato sistema pubblico di monitoraggio dell’inquinamento del suolo e dell’acqua sotterranea intorno a questi depositi di ceneri: e questo è assurdo”. Cita lo studio coordinato da Abdel Đozić, professore di ingegneria dell’università di Tuzla, e pubblicato dal Centro per l’ecologia e l’energia con il sostegno della rete europea Bankwatch network. Tra il 1 marzo e il 31 agosto del 2020 ha analizzato campioni di acqua e terreno prelevati intorno ai cinque depositi di ceneri dismessi e della discarica attiva a Jezero Dva: sono stati trovati metalli pesanti come cadmio, piombo, nickel e cromo in quantità parecchie volte superiori ai limiti di legge. Una conclusione è che in quei siti bisogna bandire l’agricoltura per il consumo umano o animale, e pensare invece a coltivazioni che aiutino a rigenerare il terreno. “Obiettano che il nostro studio è limitato”, continua l’attivista: “Bene, siamo una piccola organizzazione con mezzi limitati: perché le istituzioni pubbliche non intervengono con monitoraggi più sistematici?”.

Nessuna ammissione
Non solo. La centrale termoelettrica e le sue discariche si trovano vicino a zone abitate. Divkovići, Plane, Bukinje, Šićki Brod sono villaggi o quartieri suburbani dove l’esperienza comune non lascia dubbi: bronchiti croniche, asma, malattie respiratorie, tumori. “Quando un vicino ha un tumore, è fatalità. Ma quando tutti i tuoi vicini si ammalano e muoiono della stessa cosa non è più un caso”, dice Goran Stojak, il rappresentante di Bukinje, seduto davanti a casa. I suoi due figli, cinque e sette anni, hanno continuo bisogno di aerosol e antibiotici: “Ci hanno detto di non lasciarli giocare all’aperto” , spiega. “I medici qui sanno benissimo l’origine di queste malattie, a noi lo dicono. Ma non lo dicono in pubblico”.

In effetti non è facile trovare dati sullo stato di salute di queste zone esposte ai fumi e alle ceneri tossiche dell’impianto a carbone. L’ufficio di sanità pubblica della Federazione di Bosnia ed Erzegovina ci risponde che non ha mezzi per monitorare l’impatto dell’inquinamento industriale. Analoga risposta arriva dall’Istituto di sanità del cantone di Tuzla: non ci sono dati perché mancano le strutture per un monitoraggio sistematico.

“Le persone qui stanno morendo per gli effetti dell’inquinamento ambientale, ma un ambiente sano con tutta evidenza non è tra le priorità”, commenta Nurka Pranjic, docente alla facoltà di medicina dell’università di Tuzla, esperta in salute pubblica e consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nel 2013 Pranjic ha condotto un primo studio a campione tra gli abitanti dei sobborghi di Tuzla, raccogliendo dati sulla mortalità e l’incidenza di alcune malattie riconducibili all’inquinamento atmosferico. Per fare un confronto tra il 2016 e il 2017 ha ripetuto lo studio, questa volta su un campione (coorte) di 502 persone nei quattro centri abitati vicino all’impianto termoelettrico (Bukinje e Šićki Brod) e alle discariche di ceneri (Plane e Divkovići), e di un villaggio più distante e non esposto a inquinamento.

“Nei programmi di specializzazione della facoltà di medicina non ci sono studi su questi aspetti della salute pubblica”

“La mortalità e l’incidenza di malattie in coloro che vivono stabilmente vicino all’impianto e alle discariche è molto alta”, spiega Pranjic, che ha accettato di rispondere alle mie domande per posta elettronica. L’inquinamento atmosferico e l’esposizione a metalli pesanti sono il rischio maggiore. “La mortalità per tumore in questi agglomerati è significativamente più alta”, continua. Un abitante di Bukinje per esempio ha il 53 per cento di probabilità di morire di tumore contro il 15 per cento di chi vive nella zona non esposta. I tumori più frequenti sono a polmoni, colon, seno e utero. A Bukinje e Plane si nota anche un numero abnorme di casi di carcinoma nei bambini. Pranjic afferma di aver trovato una situazione peggiore rispetto all’indagine fatta anni prima; del resto “la fonte primaria di energia resta il carbone”.

Anche questo studio è stato pubblicato da un’organizzazione della società civile, lo stesso Centro per l’ecologia e l’energia che aveva promosso il monitoraggio sull’inquinamento. E l’università? “Nei programmi di specializzazione della facoltà di medicina non ci sono studi su questi aspetti della salute pubblica, né sulla stima del rischio e le misure di prevenzione”, constata la ricercatrice.

Non sorprende che un paio d’anni fa, quando l’azienda elettrica bosniaca cercava un sito per una nuova discarica di ceneri, abbia incontrato per la prima volta l’opposizione di cittadini esasperati, e ormai anche di alcuni amministratori locali. La Elektroprivreda chiedeva di mettere una nuova discarica per le ceneri del futuro impianto Tuzla 7 in una zona oggi considerata “ricreativa” alle spalle di Šićki Brod, uno degli insediamenti urbani vicini alla centrale studiato da Nurka Pranjic. Ma ormai tutti sanno cosa è accaduto a chi vive accanto a quelle ceneri: “Chi non è morto di tumore è scappato”, sintetizza Goran Stojak. Resta chi non ha alternative, spiega: chi ha investito tutto in quelle casette costruite poco a poco, che ora nessuno vorrebbe ricomprare.

“La nostra gente merita di meglio”, ammette il ministro Zvjezdan Karadžin. Riconosce che la situazione ambientale è grave, e che il sistema di smaltimento delle ceneri è inadeguato: “Chi sostiene che le polveri non sono nocive, o che non superano i limiti di guardia, dice il falso”. Come responsabile dell’ambiente nel cantone di Tuzla, il ministro si dice preoccupato dall’unità 6 dell’impianto termoelettrico perché brucia brown coal, una lignite con contenuto di zolfo particolarmente alto, che però qui è abbondante perché estratta a Banovići. E l’impianto di desolforazione di cui si parla da anni? “Le procedure sono in corso, chiamo ogni giorno il governo federale per sollecitare”, risponde il ministro.

Per rispettare il suo piano nazionale per il clima, la Bosnia ed Erzegovina dovrà ridurre in modo drastico le emissioni di anidride carbonica, quindi l’uso di combustibili fossili, conclude Karadžin. “In definitiva dobbiamo chiudere al più presto le unità più vecchie della centrale termoelettrica di Tuzla, non si discute”. E torna al punto di partenza: la nuova unità 7 “avrebbe permesso la transizione”.

La favola del carbone
Come mai ne parla al passato? Ufficialmente il progetto è sempre sul tavolo, bloccato solo dalla ricerca di nuovi fornitori. Ma i lavori nella centrale termoelettrica sono fermi e nessuno fa previsioni. Il presidente cinese Xi Jinping ha gelato i dirigenti bosniaci, quando ha dichiarato che la Cina non costruirà più impianti a carbone all’estero: salterà anche Tuzla 7? Sul sito web dell’azienda pubblica, Elektroprivreda Bih, si legge che il progetto di Tuzla “è in costruzione”. Il sindacato dei minatori, legato al governo, paventa il disastro: dal futuro della centrale termoelettrica dipende anche quello delle miniere. Sui mezzi d’informazione bosniaci emergono segni di uno scontro politico tra i dirigenti del paese. Mentre il finanziamento cinese suscita malumori europei e indagini sugli aiuti di stato.

E la Banca Intesa Sanpaolo? Nei primi mesi del 2020, poco dopo aver firmato l’impegno per il progetto di Tuzla 7, l’istituto torinese si è impegnato a non finanziare più il settore del carbone. Oggi si limita a notare che il progetto è bloccato, ma non chiarisce le sue intenzioni. “C’è da chiedersi quale sia la due diligence di Intesa nella concessione dei prestiti”, commenta Simone Ogno, di ReCommon, organizzazione che analizza le attività finanziarie in relazione alla giustizia ambientale: “Non solo Tuzla 7 è un progetto dannoso per il clima, l’ambiente e le persone, ma rischia pure di saltare, in un contesto di equilibri politici e sociali molto delicati”. In un recente dossier, ReCommon accusa la Banca Intesa Sanpaolo di eludere i suoi stessi impegni circa il carbone.

“Meglio essere chiari”, dice Karadžin: “Il nuovo impianto a Tuzla aveva senso una decina d’anni fa, quando è stato pensato. Oggi è fuori tempo massimo, Tuzla 7 non rientra nell’orizzonte della decarbonizzazione”. Secondo lui il nuovo impianto non si farà. Ma torna la domanda: “Potremo permetterci di mandare in pensione tutti i minatori?”.

“I nostri dirigenti politici continuano a raccontare che il carbone ha un futuro, ma è una favola”, dice Denis Žiško. L’attivista ambientale è convinto che tra quindici o vent’anni l’industria carbonifera sarà finita. “Costruire un nuovo impianto a carbone adesso è un controsenso”, insiste. “L’unità 6 della centrale di Tuzla, con il desolforatore che aspettiamo da dieci anni, basterà per la transizione. Invece, dobbiamo cominciare subito a investire in fonti di energia rinnovabili”. Cita studi sulle alternative fattibili, un futuro di sistemi solari e pompe di calore.

A metà strada tra Tuzla e Banovići, in piena contrada mineraria, la cittadina di Živinice va controcorrente e ha deciso di approfittare della “decarbonizzazione”. Il sindaco, Samir Kamenjašević, dice che il carbone ha lasciato un territorio devastato e svuotato molte piccole comunità. “Ma le aziende minerarie sono tenute a ripristinare il territorio, anche se finora l’hanno fatto raramente. E su questo territorio svilupperemo nuove attività economiche”. Il sindaco ha il tono pratico dell’uomo d’affari. Elenca riserve naturali e progetti per la biodiversità. Soprattutto, punta su una discarica intercomunale in costruzione, e un impianto per “generare energia dal trattamento secondario dei rifiuti”. “Tutti i rifiuti del cantone confluiranno qui”, dice soddisfatto. Cosa ne pensano i cittadini? Il sindaco sembra stupito: ammette che non c’è un dibattito pubblico.

Lasciata Živinice imbocchiamo una valle laterale, oltre un villaggio di casette tutte uguali costruite nel momento peggiore della guerra di Bosnia per ospitare gli sfollati di Srebrenica. Le miniere e il carbone sembrano lontani, ci sono un torrente, boschi, radure per il picnic e ristorantini folkloristici. “Il turismo è un’altra risorsa da sviluppare”, dice Žiško, e insiste: le alternative al carbone vanno costruite subito.

Intanto gli abitanti di Bukinje hanno presentato alcune richieste al municipio di Tuzla. Ricoltivare le discariche di ceneri dismesse per bonificarle, potenziare i servizi medici locali, studiare barriere per ridurre la diffusione delle polveri. E poi, installare gli impianti per desolforizzare gli scarichi della centrale termoelettrica. E abbandonare l’idea del nuovo impianto. Cose ragionevoli: “Ma restano un sogno”. commenta Goran Stojak. “Le autorità non ci danno ascolto. Ci sono altri interessi, vale la legge del più forte”.

(*) ripreso da /www.internazionale.it

Redazione
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Un commento

  • Giuseppe Tadolini

    Le testimonianze e le documentazioni di Marina Forti sono sempre preziose. Credo sia giusto che ognuno le utilizzi come materiale di lavoro e di studio, facendole girare il più possibile. Il concetto di fondo, a mio avvso, è che la fuoriuscita dal fossile sia la priorità assoluta adesso e nei prossimi anni.

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