La Convenzione sulla diversità biologica (CBD) è un trattato internazionale giuridicamente vincolante che ha avuto origine al Vertice sulla Terra, tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992. Ha formalmente tre principali obiettivi che riguardano la conservazione della biodiversità, il suo uso sostenibile e l’utilizzo delle risorse genetiche.
Ad oggi al trattato hanno aderito 196 parti, esclusi gli USA che l’hanno firmato ma non ratificato.
Il 19 dicembre si è chiusa a Montreal la 15a Conferenza delle parti (COP) della Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, che ha partorito un accordo per proteggere il 30% di tutta la terra e l’acqua sul pianeta.
Segno che il restante 70% è ritenuto sacrificabile, disponibile per l’urbanizzazione, l’agricoltura industriale, le grandi opere ed altre devastazioni, mentre il 30% “protetto” rimarrà a disposizione degli inquinatori per i crediti di carbonio, o come riserva di materiale genetico per le multinazionali delle biotecnologie.
Il tutto a detrimento delle popolazioni che abitano l’una e l’altra parte.
Sugli esiti della COP proponiamo di seguito l’analisi di Bram Büscher* e Rosaleen Duffy**, tratta da The Conversation.
Traduzione di Ecor.Network.
Qui l’originale in inglese.
* Bram Büscher è docente di Geografia, Management Ambientale e Studi Energetici presso la University of Johannesburg, nonché ricercatore associato alla Stellenbosch University, e docente di Sociologia dello Sviluppo e del cambiamento alla Wageningen University.
** Rosaleen Duffy è docente di Politiche Internazionali alla University of Sheffield.
Trattato sulla biodiversità: l’accordo delle Nazioni Unite non affronta le cause profonde della distruzione della natura
di Bram Büscher e Rosaleen Duffy.
Si è conclusa recentemente a Montreal, in Canada, la grande conferenza sulla biodiversità, annunciata come l’evento che avrebbe dovuto decidere il “destino dell’intero mondo vivente”.
Tutto bene allora che l’incontro si sia chiuso con quella che è stata salutata come una svolta “storica“: un accordo per proteggere il 30% di tutta la terra e l’acqua sul pianeta Terra entro il 2030.
Ma quanto è davvero storico questo accordo?
A giudicare dai risultati delle aree protette e dei grandi incontri ambientali degli ultimi decenni, non dovremmo nutrire speranze.
Nei fatti, questo accordo potrebbe costringerci a riconsiderare del tutto l’utilità di tali incontri.
Se c’è qualcosa che descrive la storia della tendenza dominante della conservazione è il costante aumento delle aree protette, che nel 1960 coprivano circa il 2% del globo ed oggi [coprono] circa il 17%.
Questo sviluppo è stato incredibilmente difficile e ha comunque creato molti inutili “parchi di carta” in cui le specie sono state protette dalla caccia e da altre minacce solo di nome.
Peggio ancora, ha generato violazioni dei diritti umani e violenze poiché le persone sono state escluse dalla terra dichiarata off-limits.
Se ha impiegato 60 anni per arrivare al 17%, quanto è realistico [che riesca] quasi a raddoppiare le aree protette della Terra nei prossimi otto anni?
E come farà, nonostante la retorica dell’accordo collochi i popoli indigeni al centro della conservazione, a garantire che la violenza del passato non si ripeta?
Tutto questo è demandato all’attuazione da parte degli oltre 190 paesi del trattato.
Dato il peso della crisi dell’estinzione e la crescente militarizzazione della conservazione, abbiamo poca fiducia che la storia ora improvvisamente cominci a funzionare diversamente.
Il vero problema non è negoziabile.
Anche se il 30% della Terra fosse protetto, quanto efficacemente si arresterebbe la perdita di biodiversità?
La proliferazione delle aree protette è avvenuta contemporaneamente all’intensificarsi della crisi dell’estinzione.
Forse, senza questi sforzi, le cose sarebbero potute andare pure peggio per la natura.
Ma sarebbe un argomento altrettanto valido [il fatto] che la conservazione basata sulla superficie ha accecato molti sulle cause della diminuzione della biodiversità sulla Terra: un sistema economico in espansione che comprime gli ecosistemi trasformando sempre più habitat in espansione urbana o terreni agricoli, inquinando l’aria e l’acqua con sempre più tossine e riscaldando l’atmosfera con sempre più gas serra.
Questi problemi strutturali sono menzionati, ma non affrontati nelle riunioni ambientali globali.
Tali incontri sono diventati affari organizzati con entusiasmo dagli Stati ospitanti per raccogliere introiti turistici e favori diplomatici.
L’idea è che le conferenze consentano ai paesi di negoziare quadri globali per affrontare crisi multiple e sovrapposte. Chiaramente, la scala planetaria del cambiamento ambientale richiede cooperazione a tutti i livelli.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il multilateralismo basato sulla cooperazione tra gli Stati si è sviluppato [a partire] da un senso di speranza e ha portato a convenzioni globali per affrontare le sfide comuni in molti settori, tra cui l’ambiente.
Il protocollo di Montreal del 1987 ha contribuito a chiudere il buco nello strato di ozono.
La messa al bando dell’avorio [attraverso la] Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora (CITES) ha contribuito ad alleviare la pressione sugli elefanti africani dal 1989.
Ma quell’epoca è finita.
I vertici delle Nazioni Unite sono diventati poco più che circhi itineranti pieni di speranze disperate, ma senza alcuna influenza sul mondo reale.
I loro incontri, annunci e accordi consistono in giochi linguistici sempre più banali, promesse vuote e non/decisioni – molte sul funzionamento della convenzione stessa.
Dopo ogni vertice, piccole e talvolta grandi vittorie vengono celebrate come la svolta che il mondo stava aspettando.
Ma cosa hanno effettivamente fatto per i problemi che si suppone avrebbero dovuto affrontare?
I recenti vertici sui cambiamenti climatici hanno fatto ben poco per arrestare la crescita delle emissioni di CO₂. E la Convenzione sulla diversità biologica, che ha condotto quest’ultimo incontro a Montreal, è stata ostacolata fin dalla sua origine a Rio de Janeiro, in Brasile, nel 1992.
Qui si è deciso di dividere il cambiamento climatico e la biodiversità in due convenzioni collocandole fondamentalmente su due binari diversi, quando gli scienziati sostengono che devono essere affrontate insieme.
È stato anche deciso di trasformare la biodiversità, in particolare i geni che potrebbero essere preziosi per industrie come quella farmaceutica, in “capitale naturale” che potrebbe essere scambiato a livello internazionale.
Questo ha consacrato la modalità capitalistica di comprendere l’ambiente fin dall’inizio di questo processo e ha radicato una logica di trasformazione della natura in merce.
In breve, la logica del problema – la promozione di un’economia in continua espansione – è diventata la logica della soluzione.
E così, si può argomentare che i trattati internazionali in realtà approfondiscono la distruzione ambientale facendo sembrare il problema risolvibile senza cambiare un sistema economico globale profondamente insostenibile. Si promuovono compensazioni di carbonio, crediti di biodiversità, nessuna perdita netta (l’idea che le conseguenze negative e positive per la biodiversità possano essere bilanciate come se fossero su un foglio contabile) e altre non soluzioni. Fondamentalmente manca un piano per un’economia che accetti i limiti ecologici alla crescita.
Mentre aree più protette possono alleviare i danni per alcuni ecosistemi e specie nei prossimi anni, il loro fallimento storico nel prevenire l’accelerazione delle estinzioni non è incoraggiante.
Possiamo ancora festeggiare il raggiungimento di un accordo da parte della comunità internazionale.
Ma le grandi aspettative, le grandi promesse e i risultati trascurabili sono diventati il segno distintivo dei meeting ambientali delle Nazioni Unite.
Dobbiamo quindi chiederci: sono diventati vuoti strascichi istituzionali di uno status quo persistente che deve essere abbandonato? O vale la pena aggrapparsi ai brandelli sfilacciati del multilateralismo, anche se stanno diventando poco più che stravaganti testimoni del disastro in corso?
Immagini:
Flamenco, by Agustín Povedano. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0.
Koala, by Mathias Appel. Pubblico dominio.
Sea turtle, by lud_wing. Licenza CC BY-NC-SA 2.0.
Gorilla animal, by @Doug88888. Licenza CC BY-NC-SA 2.0.