La crisi economica a Varese
di Gian Marco Martignoni
Ispirata da una chiave di lettura dei fenomeni economico-sociali di scuola dichiaratamente keynesiana – una eterodossia rispetto all’ideologia neoliberale dominante nel mondo universitario – la ricerca «Crisi economica ed economia varesina» di Andrea Kalajzic (Insubria University Press: pagg. 338, € 10) ha il pregio di analizzare le ricadute della “seconda contrazione” dell’economia globale, dopo quella del 1929, sul multidistretto produttivo della provincia di Varese, oltre che di delineare i possibili percorsi di riqualificazione del modello di sviluppo locale.
Se si considera che la provincia di Varese già a metà degli anni ’20 occupava il sesto posto nelle statistiche nazionali a proposito di addetti nell’industria e il primo posto nel rapporto fra addetti dell’industria e popolazione residente, con una elevata diversificazione dei settori di specializzazione produttiva, si possono comprendere le ragioni per cui la ricerca travalica abbondantemente i confini territoriali. Anche perché Kalajzic ha opportunamente dedicato il capitolo introduttivo a un meticoloso approfondimento delle cause che hanno generato la crisi globale, a partire dallo scoppio della bolla immobiliare negli Usa e la stretta creditizia che ha investito le aziende europee, con il conseguente impatto sulla declinante economia italiana.
Non solo fra l’ottobre 2008 e il marzo 2009 il commercio internazionale si è ridotto di quasi un sesto ma in coincidenza con questo calo si sono persi 20 milioni di posti di lavoro fra economie avanzate, emergenti e in via di sviluppo, mentre la diminuzione della ricchezza delle famiglie negli Stati Uniti ha toccato gli 11000 miliardi di dollari, con una impressionante ripercussione sulla struttura dei consumi.
Questa somma di fattori ha comportato un crollo delle esportazioni italiane, poiché fra il 2008 e il 2009 il Pil ha subito una riduzione pari a 6,5 punti in percentuale, interessando nella nostra provincia in particolare i comparti dei prodotti in metallo, dell’elettromeccanica, della meccanica strumentale e della gomma-plastica, nonché un settore già in sofferenza, il tessile-abbigliamento che aveva già registrato fra il 1991 e il 2007 una perdita di 22.500 posti di lavoro (con la chiusura di più di 2.100 unità produttive).
Mentre il comparto aereonautico è stato il solo – in netta controtendenza anche sul piano della tenuta occupazionale – ad aver incrementato le esportazioni, a conferma della crescita costante rilevata statisticamente a partire dal 2002.
L’accurata serie di tabelle e figure che arricchiscono il secondo capitolo, attraverso la comparazione dei dati provinciali con quelli nazionali e del nord-ovest, sono invece assai utili per comprendere le dinamiche che negativamente hanno interessato il mondo del lavoro nel quadriennio 2007-2010.
Innanzitutto la contrazione delle imprese attive (da 0,64 del 2007 si passa allo 0,58 del 2010 ogni 100 abitanti) incrina il mito che vorrebbe ognuno imprenditore di se stesso, mentre il calo del tasso di attività ha generato un’impennata della disoccupazione (6,3 nel 2009), che normalmente è considerata nella nostra provincia di tipo “frizionale”, cioè attestata attorno alla soglia “ineliminabile” del 2%.
Inoltre le cessazioni hanno superato gli avviamenti, così come si è verificata l’esplosione della Cig in deroga, mentre la cassa integrazione in tutte le sue forme ha raggiunto un quinto delle ore autorizzate in regione Lombardia.
Infine la crescita della forza lavoro collocata in mobilità (5.379 persone nel 2010) ha visto i maschi superare percentualmente il dato delle femmine, allo stesso modo dei lavoratori e delle lavoratrici licenziati dalle piccole imprese (legge 236) rispetto a quelli licenziati dalle medie e grandi imprese (legge 223).
Il capitolo conclusivo, il terzo, è invece dedicato a focalizzare come la vocazione industriale del territorio varesino, pur in presenza di un «ridimensionamento più quantitativo che qualitativo del settore manifatturiero», può affrontare quella selezione fra sistemi economici nazionali, intesi nella loro articolazione territoriale, che la competizione internazionale tende ad accentuare esponenzialmente.
Nell’evidenziare i limiti intrinseci all’individualismo tipico del capitalismo familiare che caratterizza anche l’imprenditoria varesina, Kalajzic individua, sulla base di una serie di contributi provenienti dall’ateneo insubrico (G. Bertocco, L. De Michelis, G. Garofoli, A. Luraschi), la necessità che i sistemi produttivi locali vengano coordinati e sostenuti da una politica istituzionale finalizzata strategicamente alla produzione di beni pubblici ( istruzione, formazione, ricerca, ecc.) e a una più elevata qualificazione della forza lavoro.
D’altronde, a sostegno di questa tesi, Andrea Luraschi nella postfazione al libro ribadisce che i “fallimenti del mercato” sono proprio da ricercarsi nella difficoltà delle Pmi (piccole e medie imprese) a rapportarsi con gli ambiti dell’innovazione, dell’internazionalizzazione e della qualificazione professionale.
Contemporaneamente, essendo il manifatturiero un settore maturo, per forza di cose lo sguardo progettuale dovrà rivolgersi in direzione dei settori delle biotecnologie, della domotica e delle energie rinnovabili, per superare la logica perdente della via bassa allo sviluppo e collocarsi all’altezza delle sfide che una diversa qualità dello sviluppo inevitabilmente impone.