La cultura contro l’mpero di Azad
Una nuova voce della «Enciclopedia aliena intergalattica» di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia
I rapporti internazionali non sono cosa facile. Lo sa bene la Società della Cultura, un mondo molto progredito e illuminato, i cui membri vivono nella giustizia sociale e politica, dediti alla rincorsa di ogni tipo di piacere, fino all’edonismo puro.
Uno di loro, tale Chark Gavant-sha Gernow Morat Gurgi Dam Hazeze meglio noto come Gurgeh ha una particolarità in più: è considerato il più grande campione di giochi del pianeta, un genio in grado di padroneggiare e primeggiare in qualunque gioco da tavolo, anche in quelli nuovi, sconfiggendo colpo su colpo qualsiasi tipo di avversario, non importa quanto intelligente o pieno d’esperienza possa essere.
La Società della Cultura ha una sezione governativa chiamata Contatto, la quale attua il programma di portare pace, civiltà e modalità edonistiche ad altri mondi molto meno progrediti.
Uno di questi è l’impero interstellare di Azad, la cui posizione e mole rivestono importanza strategica fondamentale nello scacchiere diplomatico.
La sezione del Contatto ha trovato il sistema per infiltrarsi, tale modo è minare la base stessa della coesione della popolazione di Azad: il gioco.
Tale mondo infatti è organizzato in base alla passione degli abitanti per il “Gioco di Azad”, una sorta di gioco da tavolo su vasta scala, la cui importanza è testimoniata dal fatto che l’impero stesso prende addirittura il suo nome da esso. Tale importanza deriva dal fatto che, per gli abitanti, Azad non è un semplice gioco. Essi infatti credono che la sua incredibile complessità sia allo stesso livello della realtà stessa: quindi il gioco viene usato come strumento di selezione per ogni carica pubblica dell’impero, maggiore è l’abilità del giocatore, maggiore è la carica a cui può aspirare. Persino la carica d’imperatore è assegnata al più abile giocatore dell’impero.
L’impero di Azad, pur essendo una civiltà interstellare e quindi tecnologicamente avanzata, è decisamente arretrata dal punto di vista sociale. Le rigide divisioni sociali e le differenze fra i sessi (gli abitanti di Azad ne hanno tre: maschi, femmine e apici, genere neutro) hanno prodotto una società profondamente ingiusta.
Inoltre una generale scarsa considerazione per il valore della vita e per i diritti dell’individuo portano spesso a casi di efferata violenza che a volte assumono, specialmente per le classi superiori, i tratti di un vero e proprio divertimento.
Gurgeh, in virtù della sua abilità nel gioco, viene mandato (molto riluttante) come semplice ospite a partecipare al gigantesco torneo di Azad, dove vince una gara dietro l’altra.
Purtroppo, nonostante le vittorie, l’animo di Gurgeh rimane profondamente sconvolto, fino allo scontro finale, dove arriverà a sconfiggere l’imperatore uscente in persona, creando così una forte destabilizzazione nell’impero di Azad.
Decisamente la Società della Cultura non ne esce molto bene, pur se essa si ritiene l’apice del progresso e dell’illuminismo, unica depositaria della Verità. Una sorta di duello Sparta contro Atene, solo su scala interplanetaria.
Tale modo di fare può essere dovuto al suo tipo di linguaggio: il Marain. «Il Marain era un linguaggio artificiale, progettato per essere foneticamente e filosoficamente tanto espressivo quanto lo consentivano l’apparato vocale e il cervello pan-umani. Flere-Imsaho sospettava che fosse sopravvalutato, ma erano state menti più in gamba di lui a escogitarlo e dopo dieci millenni anche le più rarefatte e superiori Menti avevano ancora un alto concetto del Marain, quindi il robot supponeva di doversi inchinare alla loro intelligenza» (da «L’impero di Azad», pag. 281, di Iain Banks).
La maggior parte dei simboli dell’alfabeto Marain sono basati su un modulo quadrato formato da una griglia di nove punti disposti su una base 3×3. Sono rappresentazioni diagrammatiche di un numero binario composto da nove cifre, un byte. Fin dall’inizio, infatti, sono stati ideati in questo modo affinché fosse possibile rendere la lingua sotto forma di codice binario con il maggior risparmio informazionale possibile.
La lettera “g” visibile nell’immagine che trovate qui sotto
può essere rappresentata dal codice binario 010011110, cioè 158 in base 10. Questo significa che vi è un totale di 512 valori (o simboli) possibili, da 0 a 511.
Ogni simbolo è stato progettato in maniera tale da poter essere ruotato e specchiato senza che per questo venga confuso con altri simboli alfabetici primari. Le versioni ruotate vengono utilizzate in genere per rappresentare fonemi simili all’originale ma con una differente vocalizzazione. Questa flessibilità permette all’alfabeto Marain di riprodurre accuratamente i suoni di qualunque lingua parlata dagli umanoidi.
Tale linguaggio, nella sua struttura, ritiene dunque fondata l’ipotesi di Saphir-Whorf, detta anche della relatività linguistica. «Noi dissezioniamo la natura lungo linee tracciate dalle nostre lingue madri. Le categorie e le tipologie che isoliamo dal mondo dei fenomeni non le troviamo lì in quanto esse guardano dritto in faccia ogni osservatore; al contrario, il mondo viene presentato in un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti; vale a dire, in gran parte dai sistemi linguistici presenti nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo vi attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che si mantiene in tutta la nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua… tutti gli osservatori non sono guidati dalle stesse prove fisiche verso la stessa immagine dell’universo, a meno che i loro bagagli linguistici siano simili, o possano essere in qualche modo calibrati»: così Benjamin Whorf in «Language, Thought and Reality» (NOTA 1).
La formulazione di Whorf di questo «principio di relatività linguistica» viene spesso stereotipato come visione «prigione» della lingua, in cui il proprio pensiero e comportamento vengono completamente e interamente formati dalla propria lingua. Whorf cercò semplicemente di sostenere che il pensiero e l’azione erano linguisticamente e socialmente mediate. In questo modo si opponeva a ciò che chiamava una posizione «logica naturale», poiché egli sosteneva: «si suppone che parlare, o l’uso della lingua, “esprimano” solo ciò che è essenzialmente già formulato dal punto di vista non linguistico» (così in «Language, Thought and Reality», pag 207). Su questa base, argomentava, «il pensiero non dipende dalla grammatica ma dalle leggi della logica o della ragione che si suppone siano le stesse per tutti gli osservatori dell’universo» (pag 208).
L’accurata analisi condotta da Whorf sulle differenze fra l’inglese e la lingua hopi, in un esempio ormai diventato famoso, alzò gli standard per l’analisi della relazione fra lingua, pensiero e realtà, basandosi su un’analisi accurata della struttura grammaticale piuttosto che su un resoconto più impressionistico delle differenze tra – a esempio – i morfemi in una lingua.
Per esempio, lo «Standard Average European» (SAE – Europeo Standard Medio, cioè le lingue occidentali in genere) tende ad analizzare la realtà come oggetti nello spazio: il presente e il futuro vengono considerati «luoghi», il tempo è un sentiero che li collega.
Una frase come «tre giorni» è grammaticalmente equivalente a «tre mele» o a «tre chilometri». Altre lingue, fra le quali molte lingue dei nativi americani, sono invece orientate al processo.
Per parlanti monoglotti di tali lingue, le metafore concrete/spaziali della grammatica SAE possono avere ben poco senso.
Lo stesso Whorf sosteneva che il suo lavoro sull’ipotesi di Sapir-Whorf fu ispirato dall’intuizione che un parlante Hopi troverebbe la fisica relativistica fondamentalmente più semplice da capire rispetto a un parlante europeo.
La base di tutto questo è nientemeno che la filosofia di Immanuel Kant. Infatti, la realtà sensibile viene interpretata, dopo essere stata percepita dai sensi, attraverso le categorie dell’intelletto, senza per questo modificare la sostanza di ciò che si percepisce.
In altre termini, l’ “Io Penso” attivo dell’essere umano costruisce la realtà per i sensi, ma la parte sommersa, l’essenza stessa, rimane intoccabile e sconosciuta.
Tale è per il linguaggio Marain, di cui la Cultura condivide tutto l’implanto filosofico citato sopra, la lingua: dunque influenza la società da cui è parlata.
Il Marain infatti solitamente non distingue i generi in base al sesso e nella maggior parte dei casi si limita a utilizzare un solo pronome personale, applicabile sia ai maschi che alle femmine, ai neutri, agli indecisi, ai robot, alle Menti e alle altre macchine senzienti.
Naturalmente questo non vuol dire che in Marain non vi siano modi per esprimere il sesso di una persona, solo che non vengono usati nella lingua di tutti i giorni.
Coloro che usano il Marain la considerano una lingua foneticamente piacevole e bella dal punto di vista funzionale.
Talmente bella da essere ritenuta totalizzante, creando dunque una Società per la quale è normale ritenersi la migliore ipotizzabile.
NOTA 1 – cito il libro in inglese, in quanto è quello che ho studiato: esiste la traduzione italiana ma è andata fuori catalogo e non è più reperibile nemmeno nelle biblioteche specialistiche; Vincenzo Rota era un grande traduttore presso Adelphi.
Per chi volesse approfondire, ecco una succinta bibliografia.
- Iain Banks, «L’ impero di Azad», traduzione di Anna Feruglio Dal Dan, collana Cosmo Argento (n° 212) Editrice Nord, 1990.
- «Language, Thought, and Reality: Selected Writings of Benjamin Lee Whorf» di Benjamin Whorf, edited by John Carroll. MIT Press.
- «Selected Writings of Edward Sapir in Language, Culture, and Personality» di Edward Sapir, edito da David G. Mandelbaum. University of California Press.
- «Language Diversity and Thought: A Reformulation of the Linguistic Relativity Hypothesis» di John A. Lucy, Cambridge University Press.
- «Grammatical Categories and Cognition: A Case Study of the Linguistic Relativity Hypothesis» di John A. Lucy, Cambridge University Press.
- «Rethinking Linguistic Relativity», edito da John Gumperz, Cambridge University Press.
- «The Language Instinct: How the Mind Creates Language» di Steven Pinker, Ed. Perennial.