La deportazione “politica” al femminile

di Primarosa Pia

La «Giornata della memoria» si occupa di un tipo di violenza che è già stata definita in molti modi fino a usare,

in determinate circostanze, il termine perentorio di assoluta. Purtroppo ogni violenza è di per sé assoluta per chi la subisce, e questo è il primo concetto che dobbiamo tenere presente sempre.

Voglio parlarvi comunque di un momento particolare della storia delle donne. Un mutamento che, pur non essendo una storica, mi sento di sottoporre alla vostra attenzione ed eventualmente alle vostre osservazioni: la deportazione nazista delle donne verso i campi di concentramento e di sterminio, almeno per quanto riguarda l’Italia, muta in un certo senso il loro ruolo rispetto le guerre: le donne “nemiche” non sono più anonima manodopera da sfruttare in patria, o casuali vittime civili, o “bottino” risarcitorio per i soldati che hanno vinto la guerra, ma soggetti che hanno compiuto scelte, hanno preso parte alla Resistenza partigiana, o nelle fabbriche in cui lavoravano hanno scioperato e per questo loro personalmente sono state ricercate, rastrellate, deportate e sfruttate nell’economia bellica nemica in suolo nemico esattamente al pari degli uomini, e spesso addirittura peggio degli uomini catturati in quanto soldati, gli Imi (cioè Italienische Militär-Internierte – Internati Militari Italiani).

Consentitemi, sottolineando questo aspetto, di attribuirgli il senso di una ulteriore legittimazione dignitosa che le donne si sono conquistate attraverso le estreme condizioni di vita cui sono state sottoposte nei lager. Nei regolamenti dei lager, compresi quelli riguardanti il lavoro, come la Circolare Pohl del 30 aprile ’42, non esistono specificità di genere. Gli «Internati Militari» sono necessariamente maschi e soggetti a regole diverse ma fra i deportati politici civili i ruoli uomo-donna sono perfettamente intercambiabili.

Nel Campo KZ i prigionieri, donne e uomini, sono “oggetti” allo stesso modo per i nazisti ma la profonda spersonalizzazione cui sono sottoposti li rende soggetti artefici unici della loro sopravvivenza, di una resistenza condivisa al massimo con una piccolissima sfera di relazioni precarie e instabili, perché limitate da un’infinità di variabili, dunque essenzialmente individuale, e non c’è dubbio che le risorse messe in atto dalle donne siano state notevoli, in condizioni oggettivamente spesso molto problematiche per la loro stessa essenza femminile, tenuto conto della riservatezza assoluta, di quanto riguardasse l’intimità, del periodo che si trovavano a vivere.

Anna Cerchi, partigiana piemontese deportata a Ravensbrück a vent’anni, matricola 44.145 scrive: «Dopo i preliminari nei quali fummo spogliate di tutto, quel giorno stesso la Carletti, per prima, fu rapata a zero: a prima vista, una donna priva dei suoi capelli può far semplicemente ridere, ma per noi il significato era ben diverso. Era la prima e più profonda umiliazione: anche se si era ancora ignare del seguito, già si intuiva odore di bruciato: visite varie ed intime, disprezzi beffardi, ci rendemmo subito conto che il mondo intorno a noi era cambiato». [Anna Cherchi «LA PAROLA LIBERTA’» a cura di Lucio Monaco, 2004, Edizioni dell’Orso Alessandria].

Esiste infatti il Campo di Ravensbrück – Campo femminile – così come anche a Birkenau esisteva un grande Campo femminile, ma le regole sono le stesse di quelli essenzialmente maschili: estrema promiscuità, sovraffollamento, mancanza di igiene, denutrizione e orari di lavoro massacranti in condizioni disumane, con il sovrappeso di punizioni o imposizioni criminali di ogni tipo.

Donne catturate come soggetti in quanto resistenti o operaie scioperanti per scelta consapevole, per quanto è possibile restano soggetti nella deportazione, nonostante le angherie più atroci non siano loro risparmiate.

Anche tenendo conto del fatto che le donne coinvolte erano donne più informate e impegnate della media, erano certo meno abituate dei maschi alla vita promiscua, ed anche allo scambio di informazioni per quanto riguardava la vita al di fuori delle consuete occupazioni considerate loro prerogativa. Da qui una maggiore incapacità di cogliere la globalità del contesto in cui vengono coinvolte ma allo stesso tempo una maggiore iniziativa nell’affrontare le difficoltà contingenti della vita quotidiana del lager.

Donne schiave spesso nelle mani di donne aguzzine, incapaci di ribellarsi, anzi forse più determinate a eseguire gli ordini degli stessi maschi, forse anche lì spinte dalla necessità di doversi “guadagnare” la fiducia e il ruolo, se pur nell’abiezione e nel tradimento del patto di genere che tra donne dovrebbe sempre prevalere. Così dice Liliana Martini [Mauthausen 18974]: «Il lavoro era duro perché dovevo sempre stare in piedi per tutte le dodici ore: si faceva una settimana il turno di giorno una settimana il turno di notte. Il lavoro ho fatto abbastanza presto a impararlo, perché si dovevano muovere delle manovelle in sostanza, ma bisognava stare attenti comunque che i pezzi riuscissero bene. Il mio lavoro consisteva nell’infilare nel mandrino un gran tubo vuoto; questo dopo veniva fuori a pezzetti lunghi circa 10 cm., formando quattro piedini, quattro da una parte, quattro dall’altra, che servivano per dei motori, mi han detto. Mia sorella, alla fresa faceva altri pezzi, ad ogni modo era tutta produzione bellica questa, naturalmente. Lavoravamo a cottimo, naturalmente non retribuito, dovevamo produrre un numero predefinito di pezzi al giorno, ed era una grandissima soddisfazione poter rovinare un pezzo perché pensavamo fosse un pezzo di meno per far funzionare la produzione degli armamenti bellici tedeschi. Certo che sapevamo che sabotare era a nostro rischio e pericolo e se ci avessero scoperte ci avrebbero uccise. Io personalmente non sono mai stata scoperta, mia sorella è riuscita benissimo a mettere fuori uso la sua macchina. Così quella non ha funzionato per molto tempo. Avevamo una Lagerführerin che era tremenda. Dico sempre che le donne quando son cattive son più cattive degli uomini, perché tutte le cattiverie che poteva farci ce le faceva: umiliazioni, veramente ignobili, ecco, non ricordo il suo nome e non lo so dopo dove sia andata a finire. [ricavato da: intervista Federal Ministry of the Interior / Mauthausen Memorial Archives].

Le donne sono certo più vulnerabili dal punto di vista sessuale, basti pensare alle maternità, orribilmente private del frutto appena nato e subito soppresso con ferocia, o alle scelte probabilmente obbligate verso la sottomissione sessuale nelle cosiddette “case di bambola”, ma non si creda che solo esse, nei lager, abbiano dovuto sottostare a simili violenze. Meno indagate ma altrettanto tragiche sono le vicende di certi giovani uomini, diventati oggetti di attenzioni morbose da parte di sorveglianti o soldati.

Ecco un brano tratto dalla testimonianza di Reno Bonfiglioli [Mauthausen 109320]: «E noi entriamo tutti “silenzio! [..]” [tutti seduti separati, lì fermi (?)] quando si alza uno, di quelli là, un Italiano, in Italiano: – c’è qualche Italiano fra voi?- era la/ un omosessuale, ed era l’”amico” del Kapoblocco. [–] si chiamava B. M., di Genova.

Si faceva chiamare Giorgia, povero ragazzo, che dio l’abbia in gloria se è vivo ancora! E io dissi:- io sono Italiano- E lui venne lì tutto [..] si capiva/ e ce n’era un altro che era omosessuale, F. Linda, L. si chiamava, [ride] F., si faceva chiamare [tono effeminato] Linda, ed era la compagna del blockschreiber, dello scrivano del blocco. E invece Giorgio, Giorgia [..] [tono effeminato]- ah sei Italiano? hai mangiato? – io, in mezzo a tutti affamati quale [ride] – hai fame? – beh ma che domanda fai? – gli ho detto io. [ride] mi sorprese mi diede un pezzo di pane così. [..] prese un pezzo di pane, traversò me lo diede, io lo avrei abbracciato in quel momento. Mi diede quel pezzo di pane, io lo mangiai [intervista Federal Ministry of the Interior / Mauthausen Memorial Archives].

E la digntà del ritorno, i silenzi, le ritrosie, i veri e propri blocchi mentali, il corpo e la mente da ricostruire, quasi sempre in ombra, spesso sole.

Donne e uomini, schiacciati dallo stesso giogo, donne e uomini che reagiscono, resistono con tutte le loro forze, sabotano il lavoro, trasgrediscono rischiando la vita, sono giovani: le vittime sono milioni ma il disegno tragico del nazismo non prevale, anzi si infrange, si frantuma, le vittime sopravvissute diventano così testimoni dell’incredibile, che si svela agli occhi del mondo, che grida ai figli di non dimenticare, e ai nipoti di vigilare.

Lala Lubelska [Auschwitz]: «lì si lavorava, sempre, chi si ammalava veniva eliminato immediatamente, chi aveva la febbre veniva eliminato, ma io ho avuto un momento rosa in questo ambiente nero, in questi momenti neri della mia vita: in questo Campo di Freubek dove ero alloggiata c’erano dei prigionieri italiani, prigionieri di guerra italiani. Hanno cercato di aiutarci più che potevano, in maniera incredibile, anche se loro avevano assai poco, e credo si possa dire assai poco, avevano poco, però non so, bombardavano e loro ci aiutavano, magari con un cavallo che era morto sotto i bombardamenti, cucinavano questo cavallo, o con una mela, un panino, magari con una parola perché anche una parola allora per noi era una cosa eccezionale eh? Era proprio come un’iniezione di vita, sapere che c’è qualcuno che ci consola dicendo che fra poco la guerra sarà finita. Tra questo gruppo di italiani c’era anche il mio odierno marito, insomma, ho trovato anche mio marito, dopo tante vicissitudini, finita la guerra, ci siamo ritrovati. Lui quando io ero ammalata, mi procurava, tramite una donna tedesca, tutte le medicine necessarie e quello che mi occorreva. Lui aveva una particolare simpatia per me e quando andavo nelle cucine a prendere le zuppe o il caffè, in recipienti pesanti, lui mi aspettava là, mi aiutava, rischiando la propria morte, veramente, perché a loro era proibito aiutarci, parlarci. Loro rischiavano la propria vita pur di aiutarci. [ricavato da: intervista Federal Ministry of the Interior / Mauthausen Memorial Archives].

 

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