La didattica per competenze: una…
… “pedagogia capitalista” per addestrare a flessibilità e precarietà?
di Anna Angelucci (*)
La ‘didattica per competenze’ non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente. Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà” non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi e mortiferi. Possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che, soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?
Sono un’insegnante di lingua e letteratura, dunque permettetemi di partire con una citazione letteraria, tratta dal romanzo di Lewis Carroll “Alice attraverso lo specchio”:
“Non capisco che cosa lei voglia dire con ‘gloria’” disse Alice. Coccobello sorrise sprezzante:
“Naturale che non puoi capirlo finché non te lo spiego. Volevo dire: ‘ecco un argomento che taglia la testa al toro’”
“Ma ‘gloria’ non significa ‘un argomento che taglia la testa al toro’” fece osservare Alice
“Quando io mi servo di una parola” rispose con tono piuttosto sprezzante Coccobello “quella parola significa quello che pare e piace a me, né più né meno”
“Il problema è” insisté Alice “ se lei può dare alla parola dei significati così differenti”
“Il problema è” tagliò corto Coccobello “chi è il PADRONE? Ecco tutto.”
Mi pare che questo dialogo fotografi piuttosto bene una situazione storicamente ricorrente: i rapporti di potere che si instaurano tra chi possiede – gestendola – e chi utilizza – spesso subendola – la lingua e i suoi significati così come essi si radicano e si diffondono nel senso comune. Tra chi esercita l’egemonia linguistica (coniando nuove parole d’ordine, manomettendo significati consolidati dei termini, trasferendo lemmi da ambiti diversi con valori semantici nuovi) e chi ne è fruitore passivo, perché inconsapevole, perché distratto, perché manipolato dall’informazione o, non di rado, da una ricerca scientifica e da un’accademia condizionate da interessi economici o omologate da spinte culturali, dunque politiche, acriticamente accettate.
Questo, a mio avviso, è esattamente ciò che è accaduto e sta ancora accadendo con la diffusione nel mondo della scuola, sotto il profilo della riflessione teorica ma anche della gestione, del governo delle pratiche didattiche, del termine ‘competenze’ e della ‘didattica per competenze’: ovvero, la risemantizzazione in chiave pedagogica (e vedremo nel prosieguo del mio ragionamento di quale pedagogia si tratti) di una parola d’importazione, fatta oggetto di una risignificazione eteronoma rispetto al suo significato originale e pervasivamente imposta a milioni tra insegnanti e studenti con una finalità del tutto estranea alla tradizionale dimensione formativa educativa che in Occidente si attribuisce ai processi di insegnamento/apprendimento secondo i modelli dell’eredità classica configurati dal principio socratico e dalla paideia.
Un cambio di paradigma epocale, dunque, che, voglio dirlo subito, si fonda non solo su un processo top down di progressiva modifica dall’alto delle condizioni e delle prestazioni del nostro lavoro in classe (attraverso le leggi di riforma, le loro norme applicative, le circolari ministeriali, le pressioni dei dirigenti scolastici e dei responsabili dei dipartimenti, finanche dei colleghi più solerti, con l’introduzione coatta dei test di misurazione e dei certificati di valutazione delle competenze, fino all’ultima modifica degli esami di Stato al termine del primo e del secondo ciclo della scuola secondaria che va radicalmente in questa direzione) ma anche e soprattutto attraverso un processo bottom up di capillare e pervasiva diffusione dal basso del termine ‘competenze’ e delle pratiche didattiche, psicologiche e pedagogiche ad esso collegate, teso a indurre una vera e propria autoregolazione delle condotte, degli insegnanti e degli studenti. Un processo di colonizzazione biopolitica che mira ad una spontanea conformazione acritica delle condotte dei comportamenti verso le forme, le pratiche previste dal sistema e dai nuovi paradigmi pedagogici cui, purtroppo, quotidianamente assistiamo in tante, troppe scuole.
Se è vero, come notava Gramsci, che ogni questione della lingua pone un più ampio problema politico, ovvero un problema di egemonia e dominio sociale, dobbiamo comprendere fino in fondo perché e come il termine ‘competenze’ non sia affatto neutro e non ideologico, da quali ambiti disciplinari extrascolastici giunga, da chi e perché sia stato importato nel mondo della scuola e imposto con una tenacia, un’insistenza e, oserei dire, con una violenza pari, nella nostra storia, solo alle imposizioni culturali e politiche, alle leggi messe in atto nella società e nella scuola dal regime fascista nel ventennio tra le due guerre. Arrivando, e qui mi spingo ancora oltre nella mia provocazione, a intaccare gli anticorpi democratici della nostra Costituzione, che, non a caso, dichiara con forza all’articolo 33 che ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’. Sottolineo, ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’.
Ma è ancora così? Siamo ancora liberi di insegnare quelli che Franco Fortini, in una straordinaria antologia per il biennio degli istituti tecnici del 1969, chiamava ‘gli argomenti umani’? Siamo ancora liberi di procedere, lentamente e gradualmente, con i necessari tempi lunghi, insieme ai nostri studenti, in percorsi di conoscenza condivisi, significativi, formativi sul piano della riflessione, del ragionamento e dell’analisi di noi stessi e del mondo? Siamo ancora liberi di pensare in modo ‘disinteressato’, senza il giogo dell’utilitarismo, della spendibilità, della trasferibilità, del ricatto di un mercato del lavoro che inganna i nostri studenti due volte: quando impone a scuola una formazione al lavoro che spesso è fasulla e che però sempre li depriva del diritto allo studio, e quando nasconde che la repentinità dei suoi cambiamenti richiederebbe, esattamente al contrario di quanto accade, una formazione assai più astratta e speculativa, assai più tarata su quei saperi logici e filosofico-critici che proprio la dimensione teorica delle discipline – letterarie, artistiche e scientifiche – permette di attivare e stimolare.
Conoscenze ampie, non competenze minimalistiche. Dimensione simbolica, non concretismo. Percorsi di astrazione, non compiti di realtà, dove poi la realtà nel cui recinto si pretende di chiudere i nostri studenti è sempre quella economica, produttivistica e consumistica: è quella che ci vuole tutti ‘soggetti di prestazione’, attraverso le forme di un disciplinamento in cui ciascuno di noi sfrutta sé stesso perché chiamato ad essere imprenditore di sé stesso, trasformandosi in soggetto d’obbedienza.
Siamo ancora liberi di immaginare una scuola umanistica, nel senso etimologico del termine e quindi senza distinzione tra le due culture, in cui il profitto, in termini culturali e economici, non abbia diritto di cittadinanza, in cui non ci siano contabilità di debiti e crediti, in cui gli studenti prima ancora che come lavoratori, prima ancora che come cittadini, siano considerati persone, una scuola in cui si possa insegnare e imparare a vivere, come diceva Spinoza, “una vita propriamente umana”?
Perché dico questo? Perché, a mio avviso, lo spostamento forzoso del baricentro delle attività didattiche verso il concetto di ‘competenza’ sta mettendo profondamente in discussione una certa idea di scuola, una buona idea di scuola, ancorché antica o forse proprio perché antica, cancellandola per sempre. E con conseguenze, a mio avviso, devastanti, per ciascuno di noi. Perché la scuola non è un’agenzia educativa, non è un servizio messo a disposizione dalla comunità, è un’istituzione dello Stato e tutti noi, 60 milioni di italiani, ne siamo, ma non come si intende oggi nella neolingua economicistica che domina il discorso pubblico, portatori d’interesse
Vorrei innanzi tutto sgombrare il campo da una serie di equivoci con cui, volutamente, i fautori delle competenze e della neopedagogia cui alludevo all’inizio del mio ragionamento (e cioè, burocrati, legislatori, pedagogisti, accademici, intellettuali, esperti e varia umanità, addetti istituzionali nazionali e sovranazionali) legittimano le loro posizioni innovative: a scuola si fa una didattica trasmissiva, tutta incentrata sul docente e non sul discente, basata su presupposti superati, quali l’ora di lezione, la lezione frontale, la classe, l’aula. A questo, considerato vecchiume da rottamare (e teniamo presente che la migliore tradizione della rottamazione viene, in Italia, da sinistra ma si sovrappone perfettamente alle finalità anticulturali della destra) contrappongono una serie di misure moderne, spacciate come più efficaci (badate bene, spacciate come più efficaci, altra mistificazione culturale e basterebbe leggere l’ultimo libro di Susan Greenfield “Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli” per assumere un altro punto di vista, questo sì scientificamente fondato): la flipped classroom, il CLIL, la scomposizione del gruppo classe, il DADA, la Lim, lo smartphone e in generale le nuove tecnologie informatiche, il libro digitale autoprodotto, la didattica laboratoriale, il debate, l’insegnante come mediatore, accompagnatore, animatore digitale, attivatore di competenze attraverso appunto esperienze e compiti di realtà che nulla abbiano a che fare con la tradizione culturale, con la memoria storica e col libro.
E’ qui che si incardina, a mio avviso, l’operazione di mistificazione lessicale, concettuale, culturale e politica che sta minando la scuola italiana fin dalle fondamenta. A dispetto di un mondo che sempre più privilegia istintività, immediatezza, disintermediazione, spontaneità acritica, superficialità (e che ha trovato nei social network la perfetta espressione di questa nuova, pervasiva, dimensione dell’esistenza) la scuola italiana ha mantenuto nel tempo e con tenacia il valore della conoscenza, della cultura, del pensiero, della ricerca, dell’indagine, della speculazione e dell’esplorazione della complessità. Ma in un mondo sempre più piegato alle logiche del mercato e del profitto, di un capitalismo ferocemente estrattivo che dopo aver depredato la natura e le sue risorse attraverso lo sfruttamento della forza lavoro dei corpi umani oggi trova nelle nostre menti, nei nostri sentimenti, nelle nostre attitudini trasformate in big data nuovi pascoli da desertificare, ecco in un mondo così configurato oggi anche la scuola deve piegarsi alle logiche economiche che permeano scelte politiche scellerate. Non è, a onor del vero, una novità assoluta: la scuola ha sempre anche riprodotto l’ordine sociale vigente (basta leggere Bourdieu e Passeron o, in Italia, le ricerche degli anni Settanta sulle vestali della classe media) ma con un margine fondamentale che oggi sembra essere scomparso dall’orizzonte del nostro sguardo: l’accesso ai saperi implicava anche la critica dei saperi, la messa in discussione dell’esistente, la possibilità della scelta ideologica, che è sempre una scelta di campo, per i docenti e per gli studenti. E’ancora praticabile oggi questa scelta di campo? E’ ancora possibile oggi scegliere un proprio metodo tra i tanti? Quali sono i nostri margini? E quali le condizioni, le implicazioni, le limitazioni? Quali spazi di autonomia ci lascia a scuola il giogo delle competenze, impostoci in questi termini e con tale, diffusa, penetrante, insistenza?
La “lunga marcia delle competenze”[1] nella politica scolastica italiana parte da molto lontano, nello spazio, metaforico e geografico, e nel tempo. Il processo di colonizzazione di questo dispositivo normativo parte nel mondo anglosassone dal campo dell’organizzazione del lavoro. In Italia, il costrutto emerge “a partire dagli anni ’70 del secolo scorso soprattutto in due sfere della società – il lavoro e la formazione – e in tre campi scientifici: le scienze del lavoro, dell’organizzazione e del management; le scienze dell’educazione e dell’apprendimento; le scienze linguistiche”.[2] In un volume del 2002, Annamaria Ajello, attuale presidente dell’Invalsi, presentava il concetto di ‘competenza’ “come un cambiamento di prospettiva culturale, con il passaggio del primato delle conoscenze e della dimensione trasmissiva dell’insegnamento, delle mansioni e dei compiti predefiniti (in senso fordista e taylorista) a regimi teorici e d’azione in cui il primato è della sfera del sapere pratico in situazione e dei processi di apprendimento sociale”.[3]
Liquidato immediatamente l’unico ambito in cui ha senso parlare di competenza, quello linguistico, che è quello che tutti noi a scuola condividiamo e su cui ha senso ragionare anche nelle pratiche didattiche, accanto all’esplorazione delle competenze in ambito psicologico se ne diffonde contemporaneamente lo studio nell’ambito dei sistemi organizzativi e manageriali, investendo potentemente la sfera del lavoro, della sua organizzazione e della sua governance, anche in virtù delle nuove esigenze di figure professionali flessibili, trasferibili e non rigidamente specializzate del mondo globalizzato del terzo millennio. Dall’impresa e dal mondo produttivo è partita dunque la richiesta al mondo dell’istruzione e della formazione di un profondo adeguamento culturale e politico e la gran parte dell’accademia e della ricerca scientifica insieme a tutte le istituzioni nazionali e sovranazionali non si è sottratta (anzi vi ha trovato spazi, progetti di ricerca, rivendicazioni, ruoli, cattedre, ambiti di potere) La prima fondando su presupposti sociocostruttivisti e attivisti questo nuovo filone di ricerca teorica e empirica, peraltro oggi ampiamente superati in molti ambiti delle neuroscienze, le seconde trovando una cornice di riferimento normativo nelle raccomandazioni dell’Unione Europea e nelle indagini OCSE, di cui non è peregrino ricordare il mandato esclusivamente economico (Ocse è l’acronimo di Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Insomma, che il re è nudo è sotto gli occhi di tutti. Il capitalismo contemporaneo, alle soglie di quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale o industria 4.0, prima ha chiesto e ottenuto che la scuola diventasse una fetta di mercato come le altre (e, in Italia, questo è stato reso possibile dall’autonomia scolastica che ha trasformato la scuola in un’azienda e il preside nel suo amministratore delegato) poi ha preteso che la scuola concorresse alla realizzazione di un unico sistema sociale, fortemente modellizzato a livello globale attraverso tassonomie prescrittive (cfr. Competenze chiave di cittadinanza europee, 2006; Global Competence Model, 2006; Documento sulle competenze di cittadinanza planetaria dell’Unesco, 2016); insomma che la smettesse di perdere tempo con la cultura, con la filosofia, con la letteratura, con la scienza o con l’arte, e promuovesse competenze (per definizione trasversali e generiche) come “asset competitivi per le organizzazioni e per gli stessi individui nel passaggio attuale all’economia dell’immateriale, del digitale, dell’informazione”.[4]
Eccoci a noi: la ‘didattica per competenze’ così come la intendono Confindustria, Fondazione Agnelli, tanta università e ricerca, Invalsi e Anp non è altro che questo. Non è il ‘saper fare’ coerente con lo specifico orizzonte disciplinare che ciascuno di noi persegue quotidianamente con i propri studenti. Non è il sapere procedurale che accompagna nelle nostre attività didattiche l’approccio teorico e speculativo, fondamento induttivo o deduttivo di ogni esperienza culturale, laboratoriale e non, cognitiva e metacognitiva. E’, piuttosto, il ‘saper essere’ esecutori acritici, lavoratori addestrati a competenze basiche elementari (quali sono esattamente le 8 competenze chiave di cittadinanza prescritte dall’UE), flessibili e manipolabili, disponibili alla riconversione continua in una condizione estrema di precarietà (questo, e non altro, è il life long learning, una giostra impazzita che obbliga i giovani al business della riqualificazione continua ), lesti in un ‘problem solving’ che esclude la possibilità di rappresentare autonomamente qualunque possibile problematicità e complessità delle situazioni di vita e di lavoro, quello che Rossella Latempa mi ha insegnato a chiamare il ‘problem setting’, il ‘farsi domande’, l’unica cosa significativa e davvero interdisciplinare che possiamo insegnare ai nostri studenti per la vita.
La ‘didattica per competenze’ ministeriale e burocratica, che traduce in praxis l’ideologia neoliberista – che oggi ha bisogno dello Stato per garantire al mercato la sua libera concorrenza, la sua competitività, il suo irrefrenabile sviluppo – e non prevede quella che con Gramsci chiamiamo “la dura fatica del concetto” da cui, lentamente, nascono i saperi e la critica dei saperi, a partire dai banchi di scuola dove, in primis, quei saperi si formano, si custodiscono e si tramandano. La ‘didattica per competenze’ risponde a un’“economia pedagogica di guerra”[5], come ha recentemente affermato lo psichiatra Michel Benasayag proprio parlando di questi temi, che prevede bambini e adolescenti attrezzati con le ‘competenze’ utili per ‘competere’ in un mondo in cui ognuno è solo e la concorrenza è spietata. Bambini e adolescenti non più ‘educati’ alla convivenza, alla coabitazione, alla condivisione, attraverso percorsi di conoscenza di ampio respiro, bensì individualmente ‘armati’ per compiti specifici: le competenze servono “to perform a specific task”[6] come si conviene ai soldati di una guerra globale, centrata sulla sfida, sull’azione, sulla performance, sul risultato, sul controllo, sul traguardo, sul dominio, sull’affermazione attiva di sé sull’altro. Alla centralità del pensare, viene sostituita la centralità dell’agire. Le competenze sono comportamenti da apprendersi a scuola, sono un insieme di esecuzioni, di prestazioni, sono pratiche, individuali e sociali, tutte orientate al lavoro e all’occupabilità, intesi come finalità fondamentali dell’istruzione. “Le competenze sono disposizioni nell’agire delle persone”.[7] Dunque sono un modo di essere, che deve corrispondere all’individuo del terzo millennio: flessibile, disponibile, fungibile, trasferibile, dematerializzabile (ricordiamo che legge che ha istituito il registro elettronico a scuola si chiama “Dematerializzazione dei rapporti scuola-famiglia”). I riferimenti pedagogici all’attivismo, al cognitivismo, al sociocostruttivismo cui alludevo precedentemente sono totalmente ingannevoli, funzionali a garantire un’accettabile patina di copertura ad un inaccettabile progetto di manipolazione culturale e sociale.
E’ interessante, a questo punto e per comprendere le ulteriori implicazioni di questo processo di trasformazione epistemologica, leggere quanto sostiene l’ANP, a proposito dei nuovi esami di Stato, appena riformati come previsto dalla legge 107: “Si tratta di un cambiamento radicale che presuppone un diverso approccio didattico e culturale da parte delle scuole e che ANP considera ormai ineludibile. Apprezziamo la nuova visione, volta a superare la rigida e ormai antiquata impostazione delle discipline scolastiche, auspicando che si tratti di un effettivo preludio al complessivo rinnovamento della scuola tradizionale. Il nuovo esame rappresenta l’occasione per misurarsi con quella didattica per competenze verso la quale lo scenario educativo internazionale si orienta da molto tempo, utile ad affrontare un contesto sociale sempre più complesso”. [8]
La dichiarazione si configura come una professione di fede, l’accettazione di un dogma: nella letteratura internazionale (neurobiologica, psicologica e pedagogica) non esiste alcuna dimostrazione scientifica della necessità di conferire alle “competenze una posizione logicamente sovraordinata rispetto a conoscenze, abilità e atteggiamenti” come chiede la Fondazione Agnelli.[9] E infatti, nella stessa pagina, poche righe dopo, si ammette che “all’assenza di un robusto impianto teorico sopperisce evidentemente l’autorevolezza dell’istituzione”.
La didattica per competenze non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente. Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”[10] non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi e mortiferi.
Concludo ponendo due domande, che vorrei fossero due interrogative retoriche ma che purtroppo non lo sono: possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che, soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?
Anna Angelucci
Intervento al convegno nazionale “A scuola di competenze: verso un nuovo modello didattico. Quale?”
Gilda degli insegnanti di Vicenza e associazione docenti Articolo 33
Vicenza, 18 marzo 2019
[1] Prendo in prestito il titolo di un capitolo del libro “Le competenze. Una mappa per orientarsi” della Fondazione Agnelli, a cura di L. Benadusi e S. Molina, pubblicato da Il Mulino nel 2018
[2] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 11
[3] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 14
[4] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 31
[5] la Repubblica, 21 gennaio 2019
[6] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 38
[7] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 44
[8] https://www.anp.it/il-miur-pubblica-le-materie-della-seconda-prova-per-lesame-di-stato/
[9] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 18
[10] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia nella società industriale avanzata, Einaudi, 1968, p. 21
(*) tratto da www.roars.it