La donna sul muro
Una storia di fratellanza tra le macerie delle Officine
di Annalisa Govi (*)
E’ domenica 14 settembre. Istoreco (cioè l’Istituto di storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Reggio Emilia) ha deciso di concludere la 21° edizione dei «Sentieri Partigiani» in città con la testimonianza di Fernando Cavazzini alle Officine Metalmeccaniche Reggiane. 150 persone si muovono all’interno di un paesaggio surreale. I ruderi, l’abbandono e il silenzio accompagnano il corteo mentre si avvicina al cancello dove Cavazzini racconterà gli eventi del 28 luglio1943. Il ricordo delle raffiche del mitragliatore sugli operai fa piangere Cavazzini oggi come allora. Cavazzini ha cominciato dopo quegli spari la sua vita di ribelle, il suo Rifiuto. Durante il racconto è come se vedesse, tra i ruderi abbandonati della fabbrica, le 9 persone uccise dai Bersaglieri dell’esercito italiano.
Non è facile per noi ora immaginare migliaia di operai sotto il sole che si avvicinano ai cancelli e chiedono di uscire per manifestare la loro voglia di vivere, insieme al desiderio che la guerra e la fame finiscano. «Non vogliamo lavorare per la guerra!» urlavano durante la manifestazione, opponendosi con coraggio alla produzione di morte della propria stessa fabbrica. Otto anni dopo, il trattore R60 darà una risposta a quelle urla, uscendo trionfante dalle Officine Reggiane.
Mi guardo attorno e provo ad immaginare le “Schiere d’eroi umili ed offesi” che cantano il più lungo esperimento di autogestione operaia in Italia.
Nella canzone delle reggiane “R60” – scritta nel 1951; testo di Rivetti e musica di Isernia – il nuovo modello di trattore è una «bandiera di pace e di libertà», mentre si celebra la «grande e gloriosa» classe operaia che «alle Reggiane lotta con valor».
Nel silenzio di oggi osservo stupita le finestre sfondate, le bocche aperte e affamate degli enormi capannoni e penso alla catena solidale fra i cittadini e gli operai, allo slancio politico e alla vita culturale nati in quei 18 mesi proprio qui.
Il gigante maestoso delle Officine Reggiane oggi è irriconoscibile: lasciato a marcire nel degrado, mentre nuove forme di umanità si nascondono tra i capannoni insieme ai fantasmi di una grande storia. Una fila di panni stesi, una pentola appoggiata su un cumulo di sassi, qualche faccia che si sporge per un momento a vedere cosa ci fa lì tanta gente “perbene”.
Non è il sole dell’avvenire a dipingere la sua luce qui oggi, ma le ombre silenziose di un passato dimenticato e di un presente “indesiderato”.
Ogni 28 luglio fino a qualche anno fa, si veniva proprio dove siamo ora, vicino al cancello che dà su via Agosti, per ricordare gli operai uccisi dall’esercito nel 1943. Le autorità cittadine e un prete parlavano a fianco della lapide scritta in memoria dell’eccidio.
Ora tutto è stato rimosso. Un patrimonio di memorie lentamente distorto, spostato e abbandonato per dare spazio alla civiltà chiassosa delle notti rosa. Le uniche impronte di vitalità che infestano ancora il sonno di queste macerie sono i graffiti. Non si tratta solo di figure irriverenti e colorate appostate tra i muri, ma di vere e proprie sfide all’oblio, segni di nuove obiezioni.
Un’enorme e dolcissima Domenica Secchi vestita di bianco guarda dall’alto di un muro un orizzonte lontano, e sorride a un futuro a cui io do le spalle. L’ha dipinta uno di questi giovani ribelli urbani, un graffitista che una volta abbiamo incontrato e che ci ha raccontato una bella storia.
Il giovane artista, colpito dagli eventi del 28 luglio 1943, decide mesi fa di ritrarre Domenica Secchi sul muro della costruzione ora abbandonata in cui la donna aveva tentato di ripararsi per sfuggire agli spari dei Bersaglieri.
Il ragazzo conosce la storia di questa giovane operaia uccisa all’ottavo mese di gravidanza. Decide così di rimettere il viso di questa donna dove il suo ricordo è stato cancellato, cioè nel luogo autentico della strage.
Al centro del muro c’è una nicchia con una piccola Madonna, che il ragazzo lascia all’altezza del ventre della figura dipinta, come per rappresentare il bambino che Domenica Secchi stava aspettando.
Mentre il graffitista dipinge il mural, si accorge che qualcuno lo sta osservando a distanza. Si volta e vede un uomo dalla pelle e dagli occhi scuri fermo dietro di lui. Il graffitista gli parla, racconta al nuovo venuto la storia di Domenica Secchi. Gli dice della sua idea che quella donna fosse una specie di santa. L’uomo è attento e sembra incuriosito da questa forma di arte così democratica da essere lì anche per lui. Dice di essere musulmano. Il graffitista gli chiede se nella sua religione esistano i santi. Gli dice che secondo lui, quando si prega, si dovrebbero ringraziare persone come Domenica Secchi. Poi i due si salutano e si separano.
Qualche tempo dopo, il graffitista intravede una figura che gli si avvicina tra le macerie delle Officine. Non ricorda bene… forse si sono già incontrati? L’uomo ha qualcosa di familiare e gli rivolge la parola:
«L’ho fatto, sai?» dice con serietà.
«Come? Scusa?…». Il graffitista comincia lentamente a mettere a fuoco i ricordi.
«Ho pregato per quella donna che mi hai detto. Venerdì scorso sono andato alla Moschea e ho detto la preghiera per lei».
Ora anch’io guardo e ringrazio la donna mora che sorride là in alto sul muro.
Non so come si siano salutati l’uomo e il graffitista. Non so dove siano andati, benché mi piaccia considerarli come eredi del popolo storico delle Reggiane. La felicità più grande è tuttavia quella di sapere che si siano spartiti un piccolo pezzo della nostra flebile memoria e che la storia di Fernando Cavazzini sia ora in così buone mani.
(*) Riprendo questo testo dal numero 231 della rivista «Pollicino Gnus» (sommario e info su www.pollicinognus.it).