La falce e il martello

di Sergio Mambrini

Ermelinda era rimasta mingherlina, ma non gracile. Aveva passato l’adolescenza a zappare nel grande orto del padre e nel lungo periodo della mietitura si prodigava per tutti quanti avessero bisogno delle sue braccia. Fu in una di queste occasioni fuori dalla giurisdizione paterna che conobbe l’amore fisico. Aveva parlato spesso con Teresa degli aspetti tecnici della sessualità,

 

ma la sorella maggiore preferiva di più farle conoscere i momenti emozionanti del rapporto a due e quelli più impegnativi della procreazione, perché già nell’ottantasette aveva partorito una femminuccia niente male. Il ragazzo che le piaceva aveva qualche anno più di lei, ma si faceva vedere impacciato come un catechista. Nelle prove virili che praticava esprimeva una certa imbarazzante ritrosia. Così fu sempre lei a prendere l’iniziativa. Entrambi bruciati dal sole dei campi, nei rari momenti di quiete lavorativa si appartavano sotto la vigna. Quando tornavano a mietere il grano erano guardati dagli occhi indulgenti delle amiche e degli amici, in una complice omertà divertente, piena di battute sulle reciproche appaganti ricreazioni. Reodando – incredibile nome per un giovane contadino – la sposò che la ragazza aveva appena compiuto diciotto anni, nella primavera del 1893, prima del raccolto estivo. Così Ermelinda si trasferì nel villaggio di Casoni di Luzzara, distante pochi chilometri dalla natia Palidano. A stento aveva scavalcato un fosso per costruirsi una nuova esistenza.

Antenore è un ciuccione. Diventerà forte come l’acciaio. Avevamo bisogno di un robusto aiuto nella nostra casa.

Smettila una buona volta di pensare solo ai tuoi campi. Controlla piuttosto se cresce bene, altrimenti dovremo trovargli una balia.

Che zuccona che sei, piccola! Non vedi che gli stai dando un latte che lo fa crescere a vista d’occhio, robusto come un toro?

…… Dici?

E’ la prima volta che vedo nascere e crescere un bambino……ma di vitelli mene intendo.

Ha, ha …… non farmi ridere mentre lo allatto. Non ti rendi conto che Antenore non è un vitello ma tuo figlio?

Finita la poppata, Ermelinda sentì il cigolio della bicicletta di Teresa. Era trascorsa una settimana dalla nascita del piccolo Antenore e la sorella stava portandole il proprio indispensabile conforto. Le avrebbe dato proprio i consigli più giusti, perché ormai era esperta di gravidanze e nascite.

«Teresa ha già due femmine, altroché i vitelli……!» pensò.

Reodando si fece prudentemente da parte, avviandosi alla stalla. Incrociò lo sguardo severo della cognata che lo indagava come uno scolaretto. Si salutarono senza slancio ma con cortese consuetudine. Però Teresa non seppe trattenersi e sibilò.

Quando torni in casa, togliti quelle sgàlmare merdose……hai capito, bifolco?

Il ragazzo restò folgorato dal rimprovero. Sgobbava nella stalla la maggior parte del suo tempo. Le sue vacche davano un latte di prima qualità e lui era uno specialista nel mungerle. Era tutto merito suo se campavano col latte della stalla. Che cosa poteva capire quella femmina cittadina della cognata?

…… e ricordati che il tuo piccolo non è una bestiola e la tua abitazione non deve diventare un porcile. Tuo figlio deve crescere in una casa sana e pulita. Ermelinda adesso non può esserti d’aiuto. Sei tu che devi assisterla, zuccone.

In fondo al suo cuore sapeva d’essere ignorante. Teresa lo rimproverava a giusta ragione. Come aveva fatto a non pensarci che gli stivali fossero luridi? Forse perché camminare tutto il giorno nella merda lo aveva abituato a pestarla, come fosse un comportamento normale? Certo, d’ora in avanti avrebbe tolto gli stivali e anche la casacca che usava durante il lavoro. Era rozzo e privo di cultura ma non voleva passare anche per stupido. Fece un mezzo sorriso d’intesa a Teresa, impugnò il forcone a testa bassa e tornò al lavoro senza reagire alla lavata di capo.

Amedeo nacque che Antenore muoveva i primi passi. Di lì a un anno arrivò anche Gina, la prima bambina della famiglia. Reodando stravedeva per lei. Era convinto che fosse quella che gli assomigliava di più, soprattutto nei lineamenti del volto e nel carattere. I piccoli selvaggi, come Teresa aveva battezzato i due maschietti, nella bella stagione stavano quasi nudi tutto il giorno nella natura che circondava la casa, correndo o arrampicandosi su ogni sporgenza utile. Gustavano una libertà senza confini. Crescevano robusti come le farnie della boschina. Del resto, Reodando non li mandava nemmeno a scuola. Preferiva che imparassero a guadagnarsi il pane. Associava l’istruzione obbligatoria all’imposizione fiscale. Nessuno riusciva a controllarlo e sanzionarlo per questa scelta emozionalmente ottusa. In questo era alleato con il prete, che inveiva dal pulpito contro l’istruzione laica, responsabile, a suo dire, della diffusione del socialismo. In effetti, per gli amministratori locali, la scuola primaria era una voce economica passiva. Oltre ai tagli all’edilizia scolastica, erano i maestri che subivano queste politiche di risparmio sui propri salari. La loro povertà era diventata ordinaria e questo fatto contribuì sicuramente alla diffusione del socialismo.

Gina, invece, pur essendo graziosa e vivace, mostrava alcuni segni misteriosi di stanchezza e febbriciattole inspiegabili. I genitori le impedivano d’affaticarsi, anche quando più grande lei avrebbe voluto aiutare la madre nell’orto. Il padre le consentiva solo di accudire alla casa, ma senza fare il bucato. Per tenerla lontana dagli sforzi fisici la mandò a scuola, sperando che l’ambiente di studio lo aiutasse nella propria debole condizione. Quando terminò la sua formazione culturale, la giovane si mise a frequentare la Casa del Popolo, cercando di rendersi utile nelle attività di assistenza ai compagni. La ragazzina sfoderava una bella immagine. Si può dire che avesse preso alla lettera il proprio compito di dare al popolo il pane, il libro, la coscienza politica e l’igiene. Teneva costantemente i locali puliti. Cucinava pasti caldi. Leggeva i giornali a tutti quelli che non capivano la scrittura. Per loro, più tardi, organizzò anche dei corsi di alfabetizzazione. In breve tempo si fece apprezzare e voler bene da tutti. Strinse amicizia soprattutto con un giovane bracciante che sapeva scrivere i volantini politici. Lei lo aiutava con disinvoltura nella stesura dei comunicati, tanto che Gina era diventata un riferimento per molti, anche per il buonumore, con il quale contagiava i più sventurati. I tempi erano ancora politicamente difficili per lei, come donna. Il suffragio universale riguardava solo i maschi superiori ai trent’anni che avessero svolto il servizio militare. Le donne come lei non avevano altro modo di far sentire la propria voce se non contribuendo in prima persona alla liberazione dai soprusi e dalle violenze, che gli uomini sventurati e le donne indifese subivano senza alcuna pietà.

Ormai sprizzava salute e gioia da ogni poro, fatto che gratificava ogni giorno suo padre. Per tradizione femminile contadina, ma anche per un sano concetto di risparmio, Gina non aveva mai portato le mutande e le scarpe. Era stata una sua scelta autonoma ma anche una necessità, appunto. Con la bella stagione metteva le scarpe solo per andare a trovare la zia Teresa in città, ma che fatica! D’inverno s’infilava le sgàlmare che gli aveva fatto suo padre, coprendosi i piedi e le caviglie con dei calzettoni variopinti, ricavati con gli scarti delle vecchie lane. Chiappe nude e piedi nudi, per lei restavano sinonimo di libertà.

Allo scoppio delle ostilità con l’Austria, Amedeo fu arruolato come assaltatore. Qualche settimana dopo la sua partenza per il fronte in guerra, Gina si trapassò un piede con la punta di un lungo chiodo ricurvo e arrugginito. Lo estrasse da sola e si lavò la ferita con l’acqua del fossato. Poi si fasciò il piede con un pezzo della sottoveste di cotone, che aveva prontamente strappato. La domenica successiva, solo tre giorni dopo l’incidente, mentre si stava preparando per andare alla Casa del Popolo, la muscolatura del suo volto si contrasse e mostrò il sorriso sardonico e grottesco, tipico del tetano. In rapida progressione non riuscì più a mangiare, anche per i forti dolori addominali dovuti alla contrazione muscolare del ventre. Stava coricata con il corpo rannicchiato su se stesso. Sudava come fosse in pieno sole e un febbrone da cavallo non la faceva nemmeno dormire. Morì ad appena diciannove anni, lasciando un vuoto disperato tra i suoi cari.

Anche Amedeo, appena giunto nella zona di combattimento fu ucciso al suo primo assalto. Il suo corpo non fu mai restituito alla famiglia.

Il dolore si era insinuato nelle viscere di Reodando. Sembrava diventato incapace di svolgere ogni semplice mansione. Ermelinda prese lei la decisione. Restò di nuovo incinta e a quarantun’anni partorì un altro maschio, che volle chiamare Beniamino, proprio perché l’ultimo nato era diventato il prediletto. Reodando, invece, non si riprese più. Antenore, ormai adulto, lo sostituì in tutte le mansioni.

Nell’inverno del 1919, il padre cadde nelle acque gelide del Po mentre cercava di recuperare una lenza. Non affogò, ma l’acqua ghiacciata gli causò una grave polmonite e in poche settimane fu accompagnato al cimitero.

Al funerale di Reodando erano venuti dalla città anche Teresa e suo marito Probo. Li accompagnava Rosa, la loro figlia più giovane, ormai prossima al matrimonio con Berto. Possedevano un’unica bicicletta, insufficiente per tutti e tre. Probo se l’era procurata dal corpo militare, modificandola poi per l’uso civile e adattandola per la moglie e le figlie. Più che una bici era un vecchio catorcio, però sempre ben oliato. Le gomme piene delle ruote si erano gravemente consumate e le strade sterrate rendevano faticosa ogni pedalata. Per questi motivi erano partiti da Mantova a piedi, prima dell’alba. Riusciva un viaggio più sicuro e meno faticoso. Vestivano a lutto. Era un inverno gelido ma arido e ventoso. Man mano che si avvicinavano ai Casoni di Luzzara, la polvere della strada si attaccava alle loro stoffe come l’inchiostro sulla carta assorbente, così i loro abiti erano sfumati verso il bianco. Arrivati che furono alla casa d’Ermelinda, impiegarono giusto mezz’ora a spazzolarsi i vestiti. Terminata la cerimonia funebre, Teresa si appartò con Ermelinda nel tepore della stalla. Sedettero vicine, spalla a spalla.

Ermelinda, cerca di capire……non puoi stare qui sola con Beniamino di nemmeno tre anni.

C’è Antenore con me……

Lascialo qui a lavorare, senza il pensiero che debba aiutarti. E’ giovane e forte. Lui ce la farà. Tu vieni a Mantova con me, almeno fin che torna la bella stagione. Ti porti Beniamino e poche altre cose. In città mi aiuterai e il piccolo si farà tanti amici. Qui siete troppo isolati. Non farlo diventare triste. Fagli conoscere il mondo.

Ermelinda teneva la testa piegata di lato, verso la spalla della sorella. Restava con gli occhi bassi e appoggiava le braccia in grembo, abbandonate, mentre Teresa le cingeva le spalle. Sembrava non reagire agli stimoli verbali. Beniamino stava allattando il vitello nato da poco. Giocava a fare Antenore, diceva.

Quando Ermelinda alzò la testa, aveva preso la decisione.

Vado a prepararmi e a spiegare ad Antenore che si deve arrangiare. Del resto sono già diversi anni che lo fa. Stasera dormite qua. Domattina partirò con voi.

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