La fantascienza è delle donne
Panel a «Stranimondi 2016»
di Giulia Abbate
«La fantascienza è delle donne» ha avuto luogo domenica 16 ottobre 2016 alle 11, nell’ambito della convention Stranimondi, a Milano.
Le relatrici: Giulia Iannuzzi (critica), Chiara Reali (traduttrice di) Tricia Sullivan (autrice), Emanuela Valentini (autrice), Nicoletta Vallorani (autrice, docente, moderatrice).
Quella che segue è né più né meno che la relazione dell’incontro, un resoconto: X ha detto A, Y ha detto B. Mi propongo di restituire in modo più fedele possibile a chi non c’era una serie di contenuti, tanti, buoni, così come sono stati espressi, sperando di non aver dimenticato troppo. Sono arrivata quando l’incontro era già in corso da un paio di minuti, quindi i miei appunti hanno un bello spazio bianco dove dovrebbero esserci saluti & premesse.
La sala comunque era bella piena, solo posti in piedi. Cominciamo.
Tricia Sullivan, interpellata da Nicoletta Vallorani, parla del suo esordio e dei suoi primi anni: tra le difficoltà da lei incontrate in veste di autrice donna, ne evidenzia una in particolare: la mancanza di mentoresse (o mentori donne), di figure di autrici più anziane che potessero guidarla, tenerla sotto un’ala protettrice, anche solo confrontarsi con lei in questo ambito.
Sei molto, molto sola.
Non che le autrici donne non ci siano, ma hanno già parecchi problemi per conto loro: da ogni punto di vista e in quanto donne autrici. A nessuna, nonostante meriti e titoli, è mai davvero concesso di sentirsi arrivata, di sentirsi figura di riferimento. In questo ambiente alle donne non è dato emergere veramente.
Sullivan cita due esempi significativi. Pat Cadigan è un’autrice che l’ha aiutata e che le è stata vicina; ma è stata marginalizzata lei stessa e nonostante la produzione di tutto rispetto non è mai arrivata a essere considerata pari di suoi contemporanei uomini come Bruce Sterling.
Un altro esempio è stato quello di Gwyneth Jones, che a oggi non pubblica più fantascienza dopo avere praticamente stracciato il suo contratto di pubblicazione. Le “grandi” insomma non arrivano a essere davvero “big”, anche perché durano poco.
Il terzo esempio portato da Sullivan è il proprio: lei stessa, con buoni titoli al suo attivo e con un premio importante, ha pensato di essere in un brillante inizio.
I thought: it’s just the beginning!
Invece no. Alle premesse non sono seguiti sviluppi degni, inoltre ha avuto figli e quindi si è ritrovata di fronte a un inizio nel vero senso della parola: a dover ricominciare daccapo.
You have to start over.
Il problema principale espresso da Sullivan, ripetuto anche in chiusura del suo intervento, è stato quello della sensazione di isolamento e solitudine: un vero e proprio “non avere donne intorno”. Oltre alla gioia di vedere le copertine dei propri titoli dominate da figure femminili scollacciate e/o nude.
Tricia Sullivan
Anche Nicoletta Vallorani ricorda con “affetto” la donna svestita in copertina del suo «Il cuore finto di DR», Premio Urania nel 1993 (unico assegnato a una donna dalla sua fondazione). Ha poi menzionato un tentativo di fantascienza femminile con Club City, e la fanzine «Un’ala», che uscì dall’84 all’87 in quattro numeri e poi si disgregò.
Un’ala 1 – maggio 1984
Un’ala 2 – settembre 1984
Un’ala 3 – marzo 1985
Un’ala 4 – maggio 1987
Il microfono passa a Emanuela Valentini, finalista Urania 2016, che ha parlato a sua volta della propria esperienza e del proprio vissuto personale.
Oggi che il suo percorso di pubblicazione ha già qualche titolo in attivo e ha avuto riconoscimenti, afferma di sentirsi più sola di prima, di avvertire incomprensione e mancanza di seria considerazione, ad esempio nelle occasioni in cui si trova a eventi o interventi, insieme a colleghi maschi. Ha poi espresso una sua visione di narrativa fantascientifica femminile: che ha molto più chiaro il concetto di “dolore”, e affronta la narrazione con questa diversa cognizione di causa rispetto ai colleghi uomini.
Emanuela Valentini
Una frase di Valentini, relativa alla maggiore difficoltà delle donne anche in relazione al fare figli, porta Vallorani a un’aggiunta interessante, cioè che al suo primo figlio è corrisposta la sua prima pubblicazione, quindi a volte dal punto di vista personale e creativo i due percorsi possono affiancarsi, si potenziano anche [1].
Secondo Vallorani un altro problema con il quale si scontrano sia donne che uomini che scrivono fantascienza è l’obiettiva marginalità letteraria.
“Non trattiamo questo genere” le ha risposto un grande editore (simpaticamente: per sms). La fantascienza è un genere evitato dalle grandi case editrici, è marginalizzata: se hai già un nome, se sei già autrice/autore affermat*, allora ti è forse possibile uscire con una pubblicazione big che sia allo stesso tempo di fantascienza (“e fare flop!” aggiunge Vallorani). Ma se ci provi da zero non riesci nemmeno a farti leggere.
Nicoletta Vallorani
Essendo messa ai margini, la fantascienza si trasforma in una cricca: e in questa cricca dire di essere femminista è oggi assolutamente impopolare… ti salvi solo se ci aggiungi qualcosa: “neo femminista”, “cyber femminista”, “femminista seconda ondata”. Incomprensione e ulteriori pretesti di isolamento sono comunque garantiti.
Interviene poi Giulia Iannuzzi, critica letteraria specializzata nel genere fantascientifico. “Se noi siamo isolate” la introduce Vallorani “lei è un panda!”
Dopo una serie di sconfortanti dati statistici, indicanti la scarsissima presenza femminile in premi letterari di ogni tipo, fantascientifici in testa, Iannuzzi fa qualche esempio di un fenomeno significativo: alcuni dei più importanti titoli di fantascientiste anglosassoni femministe, pubblicati negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, sono usciti in Italia non solo con una ventina di anni di ritardo, ma anche con editori NON di fantascienza.
Qui parte una parentesi storica interessante: Iannuzzi cita la collana della Tartaruga Blu come esempio e Vallorani ne riassume la storia: la Tartaruga blu fu un esperimento di Oriana Palusci e di Carlo Pagetti, i primi accademici che hanno parlato di SF in Italia. Fu un esperimento presto accantonato, e più unico che raro: secondo Vallorani non c’è mai stata la pazienza di provare un’operazione culturale.
Abbiamo poi un intervento a sorpresa anche di Giuseppe Lippi, presente in uditorio. Lippi ricorda che «Memorie di un’astronauta donna» di Naomi Mitchinson, contrariamente a quanto detto da Iannuzzi, fu pubblicato da Urania quasi in contemporanea, e poi solo ripreso dalla Tartaruga Blu. Colpo di scena!
Iannuzzi completa il quadro ribadendo che l’etichetta fantascientifica in Italia è considerata dai gruppi e dagli editori come troppo selettiva, specifica, di fatto penalizzante, e che spesso gli editori di varia la omettono, anche quando pubblicano fantascienza!
In Italia c’è comunque uno scenario particolare: a giudicare dai nomi sui titoli la presenza femminile nella SF c’è, le autrici esistono. Ma se andiamo ad analizzare quei titoli e quelle pubblicazioni, ci accorgiamo che la forte presenza delle donne è per lo più nel fandom di Star Trek, un blocco influente [2] che di fatto traina l’intero settore, a scapito della fantascienza speculativa letteraria slegata dal marchio e dai fandom.
E il gap di genere è un riflesso di una voragine presente anche a livello educativo. La fantascienza di fatto è a cavallo tra due mondi: la “fanta”, letteraria e fantastica, e la “scienza”, la cultura scientifico-tecnologica che presenta a sua volta nette disparità a sfavore delle donne.
Vallorani riprende poi la parentesi storica, evidenziando come dagli anni ’70 si afferma un tipo di fantascienza nuovo rispetto al passato: si abbassa la percentuale di tecnologia e si alza quella di utopia, e più in generale dell’attenzione rispetto al presente e alla società già in essere, per criticarla o sviluppare la speculazione in merito. Questo può essere visto come un terreno più femminile? Cosa ne pensa Tricia Sullivan?
Chiara Reali e Tricia Sullivan, da gerundiopresente
Sullivan commenta che trova molto triste il fatto che le donne siano messe in condizione di dover parlare solo del proprio genere e dei problemi a esso connessi, per poter scrivere SF. I fatti ci dicono che le donne fanno tutto come gli uomini, possono eccellere negli stessi ambiti, in modi differenti/simili/identici/X. Ma la gente vuole che la donna scriva di donne, allo stesso modo in cui ad esempio un nero debba scrivere solo di razzismo o di altri neri.
È davvero stancante… perché vorresti essere semplicemente una persona, non un genere!
Le premesse della nascita della SF comunque vanno in questo senso e Sullivan ce lo spiega con un excursus breve ma davvero efficace.
La fantascienza inizialmente è degli uomini: parte con uno standard definito da maschi anglosassoni bianchi. E se dopo arrivi tu, diverso in qualsiasi aspetto da quello standard, non sei nel club, sei un diverso rispetto al paradigma ristretto e parziale che trovi già definito e codificato.
Oggi sappiamo tutti che la fantascienza è la letteratura del porsi domande, ogni genere di domanda, è una “letteratura interrogante ed esplorativa”, può essere realistica, o meno scientifica, essendo sempre e comunque fantascienza a pieno titolo.
La realtà non è così: quando arriva un “diverso” deve crearsi da solo un nuovo spazio e dato che c’è una differenza oggettiva di potere (fra chi c’è già e chi arriva, oltre che fra uomo e donna) c’è una resistenza incredibile nel dare spazio al nuovo e c’è il rischio concreto che il nuovo diventi di seconda classe.
Ma il problema sta comunque nel fatto che la fantascienza è partita ai suoi inizi con una definizione sbagliata, parziale e superata, e che ora deve fare definitivamente posto a molti più elementi (come quello speculativo, illustrato da Vallorani) rispetto ai suoi inizi.
Vallorani completa poi il quadro affermando che il far coincidere la tecnologia con istanze solo “maschili” è tendenzioso: inoltre la tecnologia è in larga parte immaginazione, salto, possibilità, prerogative proprie dell’umano e non di un genere.
Le etichette vanno bene quando servono a leggere la realtà. Se non la leggono più vanno cambiate.
Valentini riporta nuovamente la sua esperienza di scrittrice: si definisce un’autrice cyberpunk, ma che nei suoi scritti non si limita alla tecnologia, inserendo “anima, vita, poesia” e una grande componente personale.
Parlando poi da lettrice, individua quelle che secondo lei sono componenti tipiche della letteratura femminile nella fantascienza, che legge in Clelia Farris e in molte sue colleghe italiane ed estere: ad esempio uno studio non sulla tecnologia, ma sull’umano; un’ottica di percorso, di formazione, di crescita; un’attenzione al viaggio interiore che è un valore aggiunto presente nella letteratura femminile di SF.
E anche il personale viene messo più in gioco: Valentini riferisce di critiche ricevute dai suoi lettori per scrivere sempre “di donne”, utilizzando personaggi e protagoniste femminili. Ma non vede questo aspetto come un problema a cui porre rimedio: è piuttosto una scelta naturale, quasi obbligata e spontanea del suo percorso letterario.
Anche Vallorani trova naturale che nel momento in cui si scrivono storie di persone si tenga presente e si passi attraverso l’esperienza personale che si è fatta e si incarna nella vita. Aggiunge che quando è invitata a parlare di fantascienza, l’invito è sempre concernente la fantascienza femminile.
Perché non invitate anche un uomo che parli di fantascienza al maschile? [3]
Parla Giulia Iannuzzi, che in questo panorama di panda spezza una lancia a favore dell’Italia: il nostro Paese ha un’ottima tradizione critica, abituata a individuare, valorizzare, trattare i diversi temi specifici di genere: in questo caso, parliamo di genere sessuale nel genere letterario, “gender nel genra”.
Un titolo importante uscito da poco è «Quando la fantascienza è donna» di Eleonora Federici, da Carocci. Che, tanto per dire, porta in copertina un’avvenente bionda a testa in giù e gonna su.
[Eccole: “tutte in fila, sorridete, care.” ç_ç]
Nel libro, sono indicati temi che sono stati affrontati di più e meglio dalle autrici: il tema del corpo, ad esempio, che si porta dietro gli elementi della riproduzione, della mutazione, del difforme. O anche la tematica della lingua, affrontata attraverso la sua decostruzione o lo straniamento linguistico. Questi sono tropi importanti individuabili nella letteratura SF scritta da donne.
Certo, conclude Iannuzzi, sarebbe bello che non ci fosse più bisogno della tematizzazione della minorità sessuale. Ma ahimé finché la minorità esiste nei fatti, c’è un grande bisogno che la tematizzazione esista.
Sullivan interviene con una nota di ottimismo: i nuovi Young Adult, che stanno avendo grande successo fra i lettori e che riflettono fra i più giovani un grande bisogno di storie, hanno quasi tutti per protagoniste delle ragazze [4]. Il “problema femminile” quindi non si pone nella comunità di autori e autrici per ragazzi, né forse nel pubblico di giovani e adolescenti che di fatto è il pubblico più importante per il mercato librario di oggi.
Lo stesso problema però c’è e si ripropone quando i giovani lettori crescono, e cercano storie e problemi nella letteratura per adulti. Allora trovano un contesto ben diverso, quello del quale discutiamo oggi, dove il femminile è un ghetto nel ghetto e non ci sono panorami aperti e attuali simili a quelli della letteratura per ragazzi.
Vallorani commenta che il successo dei romanzi YA è un fattore positivo ma ha luogo negli Stati Uniti. In Italia siamo in grande ritardo rispetto a questo panorama in rinnovamento: Vallorani cita l’esempio dei suoi allievi, studenti universitari che sono venuti a conoscenza dell’esistenza di libri come «Hunger Games» solo dopo aver visto il film.
L’incontro versa alla conclusione, senza davvero poter tirare conclusioni. Vallorani usa gli ultimissimi secondi per riferire un aneddoto significativo.
A due scrittori, un uomo e una donna, una persona fa la stessa domanda:
X: Che lavoro fai?
Scrittore: Faccio lo scrittore.
X: Ok. E tu che lavoro fai?
Scrittrice: Faccio la scrittrice.
X: No, dico, che lavoro fai?
La strada, tutte e tutti d’accordo, è ancora bella lunga.
E quindi uscimmo a riveder le stelle. A voi dodo, redazione!
NOTE
[1] Secondo molte, me compresa, la maternità è un momento incredibilmente intenso dal punto di vista creativo, e molto arricchente; se però non ci trovassimo in una società e in un modello familiare che riconosce pochissimo la maternità, le offre zero supporto e una carica di oneri e (dis)onori pesante. Tale da mettere a dura prova la sopportazione, la forza, la resistenza, la salute delle donne che vogliono essere madri E persone riconosciute socialmente, al di là del confetto rosa nel quale vengono segregate.
[2] Come sa qualsiasi amante della telenovela scrittori-contro-trekkers che ogni anno ha una nuova puntata a Bellaria.
[3] Che è poi quello che ci auguravamo, insieme al bravo Daniele Barbieri… gli amici di Maschile Plurale, o qualche altro movimento come il loro, raccoglieranno l’invito?
[4] Questo dato non mi pare nuovo, anche in passato si sono verificate situazioni del genere a livello di fruizione; quando però parliamo di produzione di contenuti le cose cambiano meno, la presenza femminile è minoritaria.