La fantascienza fra letteratura e industria editoriale
di Antonio Caronia (*)
«Variazioni Cosmiche». Catalogo dell’omonima rassegna svoltasi a Vimercate e Mezzago (Milano) dal 14 al 30 ottobre 1988. Edizioni Nord (in collaborazione con i Comuni di Vimercate e Mezzago).
Diversi anni fa lo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon (recentemente scomparso) fece un’osservazione che ebbe fortuna, almeno tra gli appassionati, tanto da essere citata in seguito come “legge di Sturgeon”. Rispondendo alle critiche ricorrenti verso questo tipo di narrativa, Sturgeon diceva: concordo con voi, una gran parte di quello che va sotto il nome di “fantascienza” è spazzatura, diciamo pure il 95%; ma non c’è da scandalizzarsi, visto che il 95% di tutto quanto si produce oggi è spazzatura. Era un modo di staccare la fantascienza dal ghetto nel quale spesso la rinchiudono i pregiudizi dei profani e gli entusiasmi indiscriminati dei fans, per ricollegarla alla tradizione della normale letteratura, farne una provincia della narrativa tout court.
Nel 1975 un’altra scrittrice di fantascienza, Ursula Le Guin, si trovava a Melbourne, in Australia, per partecipare al convegno mondiale di fantascienza, un genere di incontri che essa non è solita frequentare. In quella occasione essa citò la legge di Sturgeon, lamentando che fosse stata usata per troppo tempo come scusa, in modo troppo difensivo. «Io proporrei – disse – di aspettare di citarla per un po’, per lo meno quando la usiamo in modo cinico e rassegnato. Vorrei che non fossimo rassegnati, ma ribelli; non cinici, ma critici, intransigenti e idealisti. Vorrei che dicessimo: il 95% della fantascienza è porcheria, bene, liberiamoci di quella roba! Apriamo la finestra e liberiamoci di questa immondizia! Abbiamo la fantascienza, la forma più flessibile, più adattabile, strampalata, la più ricca di immagini e di possibilità che la narrativa abbia mai conseguito, e lasceremo che la usino per costruire pistole a raggi di plastica che si rompono quando qualcuno ci gioca, e pranzi da consumare davanti alla TV, preimpacchettati, precucinati, predigeriti, indigeribili, insipidi, ed enormi palloni di gomma gonfi, che non contengono altro che aria calda? Ah, no, diamine, dico io. Dobbiamo smetterla di rintanarci a giocare da soli, come ragazzini continuamente rimbrottati. Quando si recensisce un romanzo di fantascienza, su una fanzine o su una rivista letteraria, si dovrebbe paragonarlo al resto della letteratura contemporanea come qualunque altro libro, e disporlo tra gli altri in base ai suoi meriti particolari. (…) Quando scrive un libro di fantascienza, lo scrittore dovrebbe essere veramente consapevole di trovarsi in una posizione invidiabile e straordinaria: di essere l’erede della più duttile, libera e giovane di tutte le tradizioni letterarie». (1)
Ursula Le Guin è una scrittrice un po’ particolare e non può essere forse presa come rappresentante tipica della comunità degli scrittori di fantascienza: d’altra parte può essere che la particolare occasione le abbia preso la mano, caricando un po’ i toni del suo discorso. In tutti i casi il problema che sollevava in quella circostanza era e rimane fondamentale: come dobbiamo giudicare la letteratura di fantascienza, con quali criteri? Con l’occhio distratto e l’atteggiamento di sufficienza che si riserva al racconto letto frettolosamente su una rivista, alla narrativa “di consumo”? Oppure con l’attenzione che merita “la più duttile, libera e giovane di tutte le tradizioni letterarie”?
Tradizione letteraria o industria editoriale. La questione è stata tranciata, con un’accetta forse non molto affilata ma vibrata con mano sicura, da Oreste del Buono nell’introduzione a un’opera di Darko Suvin, «Le metamorfosi della fantascienza».(2)
Suvin nell’opera in questione propone una vera e propria interessante teoria della fantascienza come letteratura dalle potenzialità “cognitive” (capace cioè, attraverso l’emozione, di modificare o strutturare la nostra conoscenza, la nostra visione del mondo): e milita naturalmente a favore della tesi della tradizione letteraria, sostenendo che la fantascienza è un genere abbastanza antico, che comprende al suo interno anche i romanzi utopici. Del Buono commenta: «Suvin sta per un’origine nobile della fantascienza. Ma, dispiace dirlo, la fantascienza, come tutti i sottogeneri a larga diffusione partoriti dall’industria editoriale, ha un’origine, se non ignobile, rozza».(3) Sul terreno dei fatti, per esempio l’origine del nome “fantascienza”, Del Buono viaggia sicuro. Non c’è dubbio che i termini inglesi scienti-fiction prima e science fiction poi (quest’ultimo prevalse) furono coniati da Hugo Gernsback, lussemburghese trapiantato in America, radiotecnico, inventore e appassionato lettore di Poe, Verne e Wells, fondatore nel 1926 della prima rivista popolare completamente dedicata alla fantascienza, «Amazing Stories». Prima di Gernsback, la “fantascienza” (che allora non aveva ancora un nome) compariva, mescolata ai racconti cosiddetti “gotici” del soprannaturale, dell’orrore, del fantastico in genere, su altre riviste di narrativa popolare: «Argosy», «Werd Tales». Anche Gernsback pubblicava sulla sua rivista di divulgazione «Science and Invention» racconti di narrativa scientifica, cioè, come lui stesso li definiva, «affascinanti avventure mescolate a fatti scientifici e a visioni profetiche». L’importanza di questo personaggio fu proprio quella di aver compreso che l’interesse del pubblico popolare verso questo nuovo genere di narrativa richiedeva progetti editoriali dedicati specificatamente e completamente ad esso. Cercheremo invano in questa “fantascienza delle origini” delle qualità letterarie intese in senso tradizionale. Da questo punto di vista del Buono (e con lui altri critici) ha ragione da vendere. Il lettore di queste storie di scienza fantastica, narrativa pseudo-scientifica o “super-scienza” (erano alcune delle altre etichette che circolavano sulle riviste che fra gli anni Venti e Trenta si aggiunsero a «Amazing Stories») era in genere circondato dal discredito generale. Isaac Asimov ha lasciato una interessante e non sospetta testimonianza di questo fatto: «Alle scuole superiori mi sentii ancora più solo come lettore di fantascienza. Continuavo a non trovare alcun compagno che condividesse i miei interessi, naturalmente, ma almeno alla media inferiore avevo suscitato una certa attenzione raccontando agli altri le storie che leggevo. Ma questo non pareva più possibile nell’atmosfera più adulta e dignitosa di una scuola superiore (…). Non era solo dovuto al fatto che la gente non leggeva fantascienza. Una persona poteva non leggere i gialli o i western, non per questo si metteva a ridere di coloro che li leggevano. Se uno invece leggeva fantascienza, gli altri si mettevano a ridere. ‘Leggi davvero quelle storie insensate?’ era la domanda di rito. La fantascienza era letteratura di evasione. Era la quintessenza in fatto di evasione, più di qualsiasi altro genere di narrativa popolare perché ti faceva evadere addirittura da questo mondo. E pareva che l’evasione fosse una cosa molto spregevole».(4)
I critici accademici come Suvin sono molto severi verso questo tipo di fantascienza dei pulp magazines (così erano chiamate le riviste popolari degli anni Venti e Trenta, a causa della carta scadente che impiegavano): eppure, a ben guardare, la questione della tradizione letteraria si pone anche per questo tipo di produzione. Quando Gernsback, presentando la nuova rivista «Amazing Stories», invoca come numi tutelari Poe, Verne e Wells, non barava di certo: a prescindere dalla valutazione delle singole opere, la fantascienza delle origini nelle sue varie sfumature (quella avventurosa di «Argosy», quella orrorifica/soprannaturale di «Weird Tales», quella scientifico/tecnologica di Gernsback) riprende tendenze e filoni già presenti nella letteratura “alta”, ufficiale, dell’Ottocento. Per quanto riguarda la cultura americana, critici come Bruce Franklin, Ketterer, la stessa Le Guin e in Italia Carlo Pagetti hanno studiato il legame tra la fantascienza e la tradizione culturale americana del conflitto tra macchina e natura; sia i paesaggi utopici e antiutopici che gli alieni e i mostri della fantascienza affondano le loro radici in altrettanti temi e immagini presenti fin dalle origini nella cultura americana. Resta certo da spiegare, per dirla con Pagetti, «la divaricazione della narrativa fantascientifica rispetto alla linea maggiore del romanzo americano nel passaggio dal vecchio al nuovo secolo».(5) Le osservazioni principali da fare a questo proposito sono due, una relativa all’immaginario collettivo, l’altra all’industria editoriale.
La fantascienza dei pulp (come del resto, in una certa misura, quella del decennio successivo) corrispondeva a un sentimento popolare di entusiasmo e di fiducia verso la scienza e la tecnica. Il ritmo prodigioso delle invenzioni negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro avevano convinto la gente che questa fioritura sarebbe andata avanti all’infinito, che ogni problema concepibile sarebbe stato risolto, prima o poi, grazie a una nuova invenzione o a una nuova scoperta. Non è affatto un caso che l’inventore editoriale della fantascienza moderna, Gernsback, fosse egli stesso un inventore e un imprenditore (perché le due figure spesso coincidevano), non è un caso che la fantascienza abbia attecchito fra gli strati più giovani di quell’ambiente di consumatori di stampa tecnica, soprattutto nel campo dell’elettricità e delle telecomunicazioni. Un immaginario tecnologico, come nota anche Pagetti, era già presente nella letteratura americana dell’Ottocento: ma in questo caso «l’avanzata della tecnologia e la sua progressiva applicazione al campo dell’industria (avevano riformulato) lo spazio dell’utopia, introducendo elementi sempre più minacciosi e la disumanità di un diverso che sostituisce al ‘selvaggio’ la macchina, silenziosa e violenta come gli automi della “Torre campanaria” di Melville e del “Signore di Moxon” di Bierce».(6) Questa coscienza critica, questo acuto sentimento dei limiti dei saperi umani (così presente, per esempio, nell’ultimo Twain) mancano del tutto nella fantascienza popolare fino agli anni Cinquanta: i superuomini e le superscienze di queste space operas mostrano in modo sorprendentemente fresco e ingenuo i meccanismi proiettivi che invischiavano autori e lettori. Il secondo elemento che rende così importante la fantascienza delle origini è invece di natura editoriale: il campo della fantascienza infatti (come peraltro quello del giallo) è uno dei banchi di prova della nascente industria culturale. Non ci troviamo infatti di fronte a una serie di autori che concepiscono e scrivono le loro opere nel chiuso dei loro studi e poi, in modo spontaneo, si affidano alla risposta del pubblico: siamo di fronte a una vera e propria industria che pianifica tutto il ciclo produttivo, dall’ideazione delle opere fino alla stampa, in funzione di obiettivi economici, che si basa – magari ancora rozzamente ma efficacemente – su uno studio del mercato, in questo caso dei bisogni di evasione di settori giovanili abbastanza bene identificati, e solo in questo àmbito fa intervenire i veri e propri elementi “creativi”. Si può dire che la fantascienza anticipa gli elementi che si sono dispiegati più compiutamente in tutto il processo editoriale in anni più recenti: importanza centrale della figura dell’editor (cioè del direttore editoriale), diffusione di un vero e proprio lavoro di redazione, in modo che il testo nasca dall’interazione fra l’autore e l’editor.
È un processo di creazione in qualche modo collettivo, in cui le singole opere sono legate tra loro da una rete di complicità, di rimandi: le figure e le immagini della fantascienza (l’alieno, il robot, il viaggio nello spazio e nel tempo, lo spazio esterno, i nuovi mondi) si strutturano per stratificazioni successive, con contributi di vari autori che si sommano all’intuizione di chi per primo ha elaborato un personaggio o introdotto una convenzione. L’opera collettiva, insomma, è più importante del singolo autore. Questo non vuol dire che il ruolo dell’individuo è annullato, che la figura dell’autore (tradizionalmente inteso) scompare. Le grandi individualità non vengono cancellate, e l’industria editoriale non può impedire l’emergere di veri autori, magari riconosciuti e apprezzati in quanto tali con un certo ritardo. È il caso del più grande talento degli anni Venti e Trenta, Howard P. Lovecraft, che coniugò il tradizionale racconto del soprannaturale orrorifico con la nuova fantascienza, creando un originalissimo universo di mostruose divinità primigenie, che hanno una volta abitato la terra, e ora si sono ritirate, per comparire solo sporadicamente e preparare forse un ritorno tra noi. L’universo alieno degli “antichi dei” che irrompe nella vita sonnacchiosa di un New England odiato e amato è l’espressione di un materialismo radicale che rifiuta ogni credenza mistica o religiosa. La scrittura di Lovecraft è una delle voci più incisive dell’angoscia dell’uomo moderno di fronte alle sue stesse creazioni. Ma la fantascienza ha già prodotto la sua storia e i suoi miti interni. Fra questi spicca quello della “età dell’oro”, gli anni Quaranta che videro, si dice, la prima rivoluzione di questa narrativa. Nel 1937 arrivò alla direzione di «Astounding Stories» (un’altra rivista pulp nata nel 1930) John W. Campbell, un’energica figura di editor che diede un’impronta a tutta la fantascienza del decennio successivo. Sentiamo un autorevole storico della fantascienza: «Campbell considerava la scienza il soggetto principale, ma vi aggiunse un altro polo di interesse: la previsione del futuro. Egli riteneva che il ruolo della fantascienza dovesse essere quello di predire la civiltà del domani in modo plausibile, realistico e, naturalmente, scientifico».(7) Campbell discuteva a lungo con suoi autori, li esortava alla coerenza, consigliava di focalizzare ogni racconto su una singola idea e di prestare attenzione alle conseguenze dell’uso delle novità introdotte (che quasi sempre consistevano in marchingegni). In effetti la fantascienza degli anni Quaranta presenta opere meno superficiali e raffazzonate di quelle dei decenni precedenti. Autori come Asimov, Heinlein, van Vogt, Sturgeon, Simak muovono i loro primi passi o si consolidano con Campbell, e sono tutti nomi che si sono dimostrati capaci di resistere ai successi di una singola stagione, rimanendo attivi e capaci di produrre opere interessanti fino ad oggi. Ma dal punto di vista dell’atteggiamento di fronte alla tecnica e al futuro, le cose non cambiano radicalmente rispetto ai decenni precedenti. È l’ottimismo tecnologico, la fiducia nelle capacità dell’uomo a risolvere comunque i propri problemi, che dominano la scena, certo in modo più sofisticato rispetto al primo periodo dei pulp. La storia futura di Heinlein, i robot di Asimov, i superuomini di van Vogt esprimono ancora un atteggiamento fondamentalmente positivistico, una visione della scienza che ha più a che fare con le sue vaste potenzialità applicative che con i veri problemi conoscitivi che essa solleva.
La fantascienza di questi anni rimane, insomma, ancora separata dai fermenti culturali più profondi che nello stesso periodo attraversano la letteratura, le arti, e la scienza stessa. Un vero punto di svolta (e non solo nella fantascienza, naturalmente, ma in tutta la cultura e l’immaginario collettivo del nostro secolo) è rappresentato dall’esplosione delle due bombe atomiche, nell’agosto del 1945, su Hiroshima e Nagasaki. «Gli scrittori e i lettori di fantascienza – osserva Aldiss – stavano assimilando le implicazioni che si celavano dietro la bomba nucleare, i suoi illimitati poteri di grandezza e di distruzione. Fu un processo doloroso: le vecchie fantasie del potere affioravano alla realtà. Molti racconti narravano la distruzione della Terra, la condanna della civiltà, la morte dell’umanità e i terribili effetti delle radiazioni, che causavano la mutazione o una morte insidiosa».(8) Meno di dieci anni dopo, nel 1957, l’entrata in orbita dello Sputnik toglieva altro terreno alla fantascienza come profezia. L’era nucleare e l’era spaziale concretizzavano un’inquietante tendenza della società tardo-industriale a tradurre in realtà le fantasie più sfrenate, e a colorarle, mentre le realizzava, di sfumature sinistre. Nella fantascienza ci fu chi seguitò semplicemente a coltivare l’avventura interplanetaria, ma ci fu anche chi comprese che bisognava battere strade nuove: rivolgersi con occhi critici alla realtà contemporanea, rileggere gli eterni problemi dell’umanità in chiavi comprensibili per l’oggi, recuperare quella che Aldiss ha chiamato «la disperazione naturale e appropriata che ha sempre caratterizzato gran parte della letteratura».(9) La social science fiction, la fantascienza sociologica che fiorì negli anni Cinquanta attorno alla rivista «Galaxy» diretta da Horace L. Gold, segnò l’inizio di un riavvicinamento più cosciente della fantascienza alle sue radici letterarie. Autori come Robert Sheckley, Frederik Pohl e Cyril Kornbluth, Damon Knight batterono la strada di massa che, per quanto fosse in ritardo sulla realtà, riprendeva un filone ricco della narrativa fantastica europea, quello dell’anti-utopia, dell’utopia a rovescio, in cui la descrizione grottesca di una società futura rimanda a un’analisi implicita dei mali del nostro presente. A un filone del genere si possono far risalire gli inizi della carriera di Kurt Vonnegut, e almeno una parte della produzione di Ray Bradbury, due autori che uscirono presto dall’ambito della fantascienza per approdare alla letteratura tout court. Non si può negare del resto che all’origine dell’interesse per l’anti-utopia ci sia un libro come “1984” di George Orwell, pubblicato nel 1949. Accanto a «Galaxy» va ricordata un’altra rivista, «The Magazin of Fantasy & Science Fiction», il cui direttore Anthony Boucher aveva un’attenzione particolare per l’aspetto stilistico delle opere di fantascienza: fra gli autori incoraggiati da Boucher spicca il nome di Richard Matheson, che sarà attivo anche come sceneggiatore cinematografico. Gli anni Sessanta e Settanta registrano nella fantascienza un’eco dei movimenti sociali politici e culturali di quegli anni. La fantascienza ha ormai un mercato più o meno stabile, il suo pubblico non sono più solo gli adolescenti affamati di avventura degli anni Venti e Trenta; le riviste globalmente sono in calo di tirature e di influenza, e al loro posto sono comparse le collane di libri, rilegati e paperback, edite da case specializzate o da grandi editori. Il clima di entusiasmo e di unanimismo di prima della guerra lascia il campo a discussioni e polemiche. L’attività della rivista inglese «New Worlds» diretta da Moorcock, il fenomeno americano della new wawe con il suo tentativo di rinnovamento tematico e stilistico, soprattutto l’affermarsi di una “fantascienza delle donne” che rivendica il ruolo fin qui sommerso delle autrici e rilancia tematiche più apertamente femministe o un punto di vista femminile (Joanna Russ, Vonda McIntyre, Alice Sheldon più nota come James Tiptree): sono tutti fenomeni che disegnano una nuova fase della fantascienza, una sua maggiore apertura alla realtà, una capacità di confrontarsi con i problemi presenti nella vita e nella cultura, il colonialismo, il razzismo, l’ambiente, il militarismo. In modi diversi e anche con esiti discutibili, autori formatisi vari decenni fa, come Asimov, Heinlein o Arthur C. Clarke hanno dimostrato anche negli ultimi anni di saper aderire a questo nuovo clima. Ma soprattutto, negli anni Sessanta e Settanta emergono delle vere e proprie figure di autori, scrittori dotati di una immediata riconoscibilità tematica e stilistica, con una formazione culturale ampia e la capacità più propriamente letteraria di tradurre nella scrittura il proprio mondo e la propria riflessione interiore: capaci anche di dare forma personale ai grandi temi emergenti della nostra epoca. Tra loro ci sono Thomas Disch, cronista della banalizzazione della vita quotidiana e della dissoluzione del significato; Samuel R. Delany, interprete raffinato e barocco dell’esplosione dell’io, creatore di personaggi e paesaggi frammentati e mutevoli, sempre alla ricerca di una nuova logica capace di cucire almeno in parte questi frammenti; Alice Sheldon (che si è tolta la vita l’anno scorso) nella sua opera ha disegnato un percorso che dall’esame della condizione femminile arrivava a porsi il problema della vita umana come dolore. In Europa bisogna parlare almeno dell’inglese James Ballard e del polacco Stanislav Lem. Quest’ultimo ha dimostrato di saper rinnovare sia la tradizione del “racconto filosofico” di derivazione settecentesca, sia la riflessione sui limiti e le potenzialità della tecnica. Quanto a Ballard, adesso che la pubblicazione di “L’impero del sole” lo ha fatto conoscere a un pubblico più vasto, non si può che raccomandare la lettura dei suoi romanzi e racconti precedenti, che designano uno dei più affascinanti ritratti dell’uomo post-nucleare, illuminato (come appunto nell’Impero del sole) dalla luce accecante di Hiroshima, e perso da quel momento in poi in un labirinto di pulsioni e regressioni. Ma se volessimo esemplificare i risultati più maturi di cui è capace la fantascienza, non sapremmo indicare nomi più adatti di quelli di Ursula Le Guin e Philip Dick. Nessuno come la scrittrice dell’Oregon ha insistito sulla responsabilità morale dell’individuo, sulla necessità del confronto con l’Altro in tutte le sue forme, per scoprire quel tanto di noi che nell’Altro si ritrova ma anche per rispettare ciò che in esso rimane irriducibilmente diverso. “La mano sinistra delle tenebre” costituisce l’esempio migliore di questa tematica sul terreno del sesso, come “I reietti dell’altro pianeta” lo è sul terreno della fantascienza politica. Se Ursula Le Guin rappresenta il ricongiungimento alla tradizione letteraria nella sua forma più consapevole, anche sul piano dello stile, Philip K. Dick (scomparso nel 1982) dimostra che la grande letteratura può nascere anche dall’interno della cultura di massa, se chi la pratica è capace di mettere in gioco tutta la sua sensibilità, anche al di fuori di una formazione tradizionale. Come nessun altro nella fantascienza e come pochi fuori di essa, Dick ha saputo dare forma a uno degli interrogativi più brucianti e fondamentali della società post-industriale: come si può penetrare la realtà, che possibilità rimane di attribuirle un senso nell’epoca della Grande Macchina, dell’esplosione delle tecnologie riproduttrici e produttrici di realtà? “La svastica sul sole”, “Noi Marziani”, “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, “Ubik”, “Episodio temporale”, “Valis” sono fra le tappe maggiori del suo percorso e rappresentano tutte, in vario modo, lucidissime testimonianze della condizione umana nelle rovine del mondo moderno.
NOTE
1: U. Le Guin, Il linguaggio della notte. Saggi di fantasy e fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1986, pp. 217/218.
2: D. Suvin, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Il Mulino, Bologna, 1985.
3: op. cit., p. VII
4: citato da O. del Buono, op. cit., p. XIV
5: Il laboratorio dei sogni. Fantascienza americana dell’Ottocento, a cura di C. Pagetti, Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 21
6: op. cit., p. 11
7: J. Sadoul, Storia della fantascienza, Garzanti, Milano, 1975, p. 135
8: B. W. Aldiss, Un miliardo di anni. La storia della fantascienza dalle origini ad oggi, Delta, Milano 1974, p. 261
9: op. cit., p. 262
(*) grazie moltissimo a Giuliano Spagnul che ha recuperato questo prezioso testo di Antonio Caronia; persona stupenda – con lui era bello persino “litigare” – e che ha lasciato un vuoto sui molti sentieri dove si è incamminato; per fortuna dalle tasche gli cadevano sempre semi… e alcuni sono fioriti e fioriranno. La memoria invece ogni tanto mi tradisce a tal punto che non ricordo più se a Vimercate/Mezzago io e Riccardo Mancini – ovvero erremme dibbì – combinammo qualcuno dei nostri soliti casini arlecchineschi o se volammo lì sopra con un finto dirigibile a energia quantica. (db)