La fine del sogno occidentale – Serge Latouche
recensione di Francesco Masala
Eleuthera (ri)pubblica (2021, euro 17) dopo vent’anni un libro importante di Serge Latouche.
Se uno non sapesse che il libro è stato scritto alla fine del secolo scorso non troverebbe una riga che non sia di attualità, purtroppo. Il mondo non cambia, e se (non) cambia peggiora.
Il libro è organizzato in cinque capitoli, nei quali si analizza lo stato del mondo, 20 anni fa.
Tra i tanti temi toccati, alcuni colpiscono con evidenza, per esempio il passaggio dal colonialismo al neocolonialismo è stato un cambiamento di forma, in molti casi, ma i rapporti economici fra stati ex-coloniali e stati ex-colonizzati non sono cambiati troppo.
Si parla della mercificazione totale del mondo, tutto si compra e si vende, e “i prodotti culturali vengono trattati come merci uguali alle altre e le riserve culturali come un banale e nocivo protezionismo”.
A proposito dell’Africa Latouche scrive che “il gruppo invaso non può più cogliere se stesso se non attraverso le categorie dell’altro, cioè quelle degli europei.” (p.35). e subito dopo si introduce un elemento chiave: ”Nei rapporti con le società del Sud è più grazie al dono, e non alla spoliazione, che il centro si trova investito di uno straordinario potere.”
A pag.46-47 si legge che “il sistema tecnoeconomico mondializzato è responsabile della scomparsa di migliaia di culture” e “In Occidente l’economia non solo non è complementare alla cultura ma tende a rimpiazzarla assorbendo in sé tutte le dimensioni culturali…La diversità che resiste, o che si ricicla, rimane sempre in una situazione fragile e provvisoria di fronte al rullo compressore dell’uniformazione”.
“Questo effetto dell’occidentalizzazione non è il risultato di un meccanismo economico in quanto tale, ma di un processo più complesso di distruzione culturale chiamato deculturazione. Questa deculturazione si riproduce a sua volta e si aggrava con la terapia messa in opera per porvi rimedio: la politica di sviluppo e la modernizzazione”.
“Gli ultimi superstiti delle culture non occidentali testimoniano una grande indifferenza per molte nostre merci, e soprattutto un’allergia ancora maggiore verso la logica della loro produzione”.
Se venti anni fa Latouche li vedeva con chiarezza adesso questi fatti sono sempre più evidenti e chiari, niente è stato fatto, in realtà, per cambiare qualcosa.
A proposito del dono, prestiti agli stati di enti sovranazionali (FMI e Banca Mondiale, per esempio), cavallo di Troia per rinnovate e più profonde dipendenze, segnalo che nel 2004 fu pubblicato “Confessioni di un sicario dell’economia”, di John Perkins, libro nel quale l’autore spiega in dettaglio, in prima persona, le cose che racconta(va) Latouche (qui un documentario tratto dal libro di Perkins).
Mi è capitato da pochissimo di leggere sul n.1414 di Internazionale un articolo di un giornalista tedesco, Bernd Dörries, sul Somaliland, uno stato africano dichiaratosi indipendente dal 1991, riconosciuto quasi da nessuno, e per questo, per fortuna, non ha debiti (per ora) perché nessuno gli ha fatto prestiti/dono/capestro, caso più unico che raro.
Dice Karl Marx che “I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo”. Serge Latouche dice tutto, è il filosofo perfetto, fa la parte necessaria, per Marx, quella di interpretare il mondo, purtroppo cambiarlo sembra impossibile. In quarta pagina c’è una frase che dice, con amarezza, moltissimo: “Abbiamo l’incredibile privilegio di assistere in diretta al crollo della nostra civiltà”.
Al di là della discutibile teoria della decrescita, sul piano delle analisi i libri di Latouche sono senz’altro degni di nota, compreso questo che giustamente Francesco riprende nei suoi concetti essenziali. A proposito del processo di deculturazione o distruzione delle altre culture, ritengo che l’immaginario diffuso dal capitalismo sia il nodo dei nodi rispetto alle possibilità reali di cambiamento della realtà concreta.
nel cavallo di Troia che accompagna il dono che arriva dall’Europa ci sono i consulenti del pensiero unico che faranno il lavoro sporco:
I consulenti liberisti fra incoerenza e ridicolo – Matteo Bortolon
La polemica sulle nomine del governo Draghi di cinque economisti marcatamente liberisti in sé sarebbe trascurabile se non avesse segnato una decisa reazione di studiosi di rinomanza internazionale che hanno firmato un civilissimo appello (dai toni che certo non possiamo certo definire barricaderi). I temi che solleva sono (con importanza decrescente) le caratteristiche dei decisori in merito alle politiche economiche; la natura del governo Draghi; e le sbracatissime reazioni contro tale appello da parte della scombiccherata manica dei vari liberisti. L’ultimo punto, ovviamente il meno importante, non è privo di risvolti di (involontaria) comicità – per chi segue la polemica sui social quasi esilarante.
Il primo punto disvela una importanza cruciale nel panorama attuale. In linea generale non si può sostenere che una politica economia sia una questione di meccanismi neutri in cui conta solo “come far girare la macchina”. Nella misura in cui essa impatta sullo spostamento di ricchezza fra i ceti, determinando chi paga più tasse, chi riceve più contributi, chi viene favorito dalle politiche pubbliche che costruiscono le infrastrutture (provate a vendere automobili senza che lo Stato abbia costruito le strade – cosa che i privati non fanno, guarda un po’) le competenze vanno inquadrate in una visione che esprime delle scelte fondamentali su che società vogliamo costruire. Qui il dibattito si consuma fra le correnti marxiste e postkeynesiane da una parte e l’ortodossia liberista dall’altra. Quest’ultima espunge l’inelegante e scomoda presenza di conflittualità di classe e di interessi dal disegno di una economia basata su delicati equilibri di automatismi, quasi fosse una costruzione armonica di ineffabile simmetria. Sfruttamento, conflittualità, che brutte cose da evocare, come spalmare del ketchup su un quadro di Raffaello.
Naturalmente anche chi fa parte dei dominanti e ha a che fare con dinamiche reali questo lo sa perfettamente, al netto di conversioni piuttosto bizzarre.
Perciò è evidente che le nomine dei decisori politici riflettono la curvatura che si intende dare alla linea politica che essi devono determinare. Questa semplice verità viene confermata dai comportamenti di coloro che l’hanno sempre negata, con una noncuranza sbalorditiva.
Il secondo punto potrebbe chiudersi facilmente nella frase: ma ci voleva tanto ad indovinare l’orientamento del governo Draghi? Senza ricorrere a poteri mutanti, alle facoltà divinatorie stile Nostradamus o al supercomputer Aladdin per gli investimenti BlackRock, bastava guardare alle sue dinamiche di fondo per capire quanto sia espressione dei poteri forti; e quale fondatezza avevano le aspettative di keynesismo o di attenzione ai temi sociali con cui M5S e Pd hanno scelto di autoilludersi per avallare la fiducia alla più abbietta operazione di promozione degli interessi costituiti messa in campo dai tempi del governo Monti. Per cui Emanuele Felice e Beppe Provenzano è inutile che facciano le verginelle: sul punto hanno sicuramente ragione, ma è futile muoversi contro il sintomo senza inquadrare la patologia (cioè Draghi al potere). Se sono sulla via di capire che il deprecabile intruglio di euroliberismo bancario-finanziario ai vertici dello Stato non è una idea brillante potevano accorgersene prima; magari potevano leggerci. Quasi in tempo reale la Fionda aveva ospitato molti contributi che demistificavano tanto le leccate sul versante di establishment che quelle più “sociali”: lo potevano leggere qui (3 febbraio), qui (4 febbraio) qui (8 febbraio) fra i primi; e già che c’erano non era male leggere su chi sia Mario Draghi, magari qui e qui .
Ma veniamo al punto meno importante – ma più esilarante.
L’appello sulle nomine – da noi ripreso – non è certo rivoluzionario o radicale; il tono è molto rispettoso, quasi ossequioso (“è essenziale che l’esecutivo mantenga la fiducia degli operatori economici, cittadini ed istituzioni nazionali ed internazionali, acquisita anche grazie al prestigio del Presidente Draghi”… “I firmatari ritengono che il governo Draghi per tutelare il suo prestigio nonché la sua efficacia operativa dovrebbe riconsiderare alcune nomine”…), il che farà alzare un sopracciglio a chi vede il governo come un avversario; ma pone problemi vari: di pluralismo (nomine di un unico segno: tutti ultras liberisti), di opportunità politica (nomine di personaggi scettici su politiche governative già assodate e che quindi non si capisce che utilità abbiano nella loro attuazione), di competenze (figure che anche per idiosincrasia ideologica si sono poco dedicate al tema degli investimenti pubblici che dovrebbero lavorare su tale tema?).
Apriti cielo! Per la scombinata platea di liberisti fan di Puglisi e dell’Istituto Bruno Leoni è il crimine più inaudito dai tempi della crocifissione di Cristo.
Il sempre moderato Foglio definisce rispettosamente l’appello “La buffonata” (25 giugno), e ai firmatari attribuisce “sprezzo della logica, ipocrisie accademiche, pulpiti grotteschi”. Toni accorati. “Sprezzo della logica” ben conosciuto da un giornale che pubblica cose come “la balla del Draghi liberista”.
Con sprezzo – assai notevole – del ridicolo, invece, Antonio Polito scaglia il sasso per nascondere la mano azzardando un paragone dei firmatari addirittura con i fascisti giapponesi (sic!) e -più velatamente – con i fiancheggiatori delle BR; il grande crimine? Presto detto: le critiche sulle competenze sono sempre legittime, ma… non la “discriminazione professionale” a scopo “politico”. Insomma se le critiche le bisbigliavano sommessamente ai propri amici, o al massimo le dicevano al vicino sul pianerottolo (con effetti ovviamente nulli) andava bene; invece hanno sciorinato tutto in pubblico, e questo non va bene, signora mia. In merito al fatto – abbastanza disturbante in effetti – che chi ha infangato fino al giorno prima l’intervento dello Stato non si sa che utilità possa avere in merito alle politiche pubbliche, il Polito si lancia nell’esempio del secolo: “come se fossero preti cui è richiesto di avere fede nella transustanziazione per officiare messa”. Evidentemente il povero tapino, comicamente ignora che nella dottrina cattolica la efficacia del rito non dipende dalla fede né dalla santità del ministro. Fra i mille esempi doveva scegliere proprio quello che aggiorna la già lunga serie di ridicole scemenze proferite.
Sullo stesso Corriere Veltroni, il Gran Sacerdote della Paraculata, stigmatizza in merito “la pericolosa suggestione del fastidio per la diversità delle opinioni altrui”. Da inserire nel vocabolario alla voce “doppiopesismo”.
Ma se il maggior quotidiano nazionale pubblica questa roba, come stupirsi di cosa alberga in basso? Il clan dei liberisti-libertari variamente renziani, calendiniani, piueropini, ha dispiegato un chiacchiericcio petulante, vittimista, dai toni oltranzisti che è dilagato sulle bacheche social di alcuni dei firmatari, dando materia a legioni di psichiatri. Vediamo le più esilaranti: la Lettera è “intimidatoria”, secondo un commentatore (si vede che Draghi deve ancora dare qualche esame, se no come lo possono intimidire dei professori universitari?); “brutta iniziativa che ricorda certi errori ed orrori del passato” (Pol Pot scansate, proprio); una “lista di proscrizione su base ideologica” – “come nel ventennio” aggiunge un altro genio; “puzza di fascismo”. Sembra di risentire il Berlusconi di un tempo: “miseria, morte e terrore”. Certo, tutti inoppugnabili campioni dell’antifascismo. Che avranno fatto le barricate quando JP Morgan nel 2013 stigmatizzava l’eredità antifascista delle costituzioni dei paesi del sud Europa rispetto alle riforme fiscali ed economiche, no?
Ma del resto fra questa allegra congrega la coerenza non è nelle priorità: per uno è colpa dell’ “assemblearismo sessantottino” (nota forma di sedizione fascisteggiante); per altri si tratta di un “manifesto di difesa della casta”, generato da “baronie dell’università”. Poi chiaramente c’è il movente prediletto dalle comari di paese: “l’invidia è una brutta bestia”, la lettera è proposta da “bambini invidiosi” per un altro.
L’invidia sarà una brutta bestia, ed a quanto pare si è estesa a coorti di eminenti studiosi. Al parere negativo dei firmatari – la statura di diversi di essi, va ben precisato, è tale che i liberisti ammirati da tale sbracatissima tifoseria non arrivano loro nemmeno ai lacci delle scarpe – si è aggiunta una nota condivisa da alcune delle maggiori associazioni nazionali di studiosi economici: AIEE – Associazione Italiana Economisti dell’Energia; AIEEA – Associazione Italiana di Economia Agraria e Applicata; AISRE – Associazione Italiana di Scienze Regionali; AISSEC – Associazione Italiana per lo Studio dei Sistemi Economici Comparati; AMASES – Associazione per la Matematica Applicata alle Scienze Economiche e Sociali; EACES – European Association for Comparative Economic Studies; EPS – Economists for Peace and Security; IAERE – Italian Association of Environmental and Resources Economists; IT&FA – International Trade and Finance Association; SIdE – Società Italiana di Econometria.
Il punto più divertente è che alla fin fine la richiesta dei liberal-liberisti è naturale, e trova il suo fondamento nella essenza stessa della democrazia: pretendere che nel ruolo di decisori pubblici vi sia qualcuno che non solo abbia le competenze necessarie ma che esprima una simile visione politica. Che è il motivo per cui i vertici politici sono scelti tramite elezioni e non in base ad attestati di ortodossia o per nascita. Ma questo non si può dire, perché fa crollare come un castello di carte la credibilità sulla mitologia del “merito” e delle “competenze”: se i loro propugnatori ci credessero davvero basterebbe vedere titoli e pubblicazioni e al MEF potrebbe insediarsi un marxista; invece come tutti sanno – salvo chi ha passato su Marte gli ultimi decenni – le nomine sono sempre un campo di battaglia durissimo, in primis la censura da parte di Mattarella del prof. Savona quale ministro, proprio per la visione politica che viene espressa. Quando devono accedere ad un ruolo importante personaggi “sgraditi” (si pensi al cancan su Barbara Lezzi, sul viceministro Castelli, su Di Maio, che ha fatto il pieno di insulti densi di classismo) si tira fuori la storiella delle competenze; quando i liberisti debbono piazzare i loro sodali allora vanno bene delle mediocrità, e le critiche (di chi ha un profilo più alto) sono “invidia”. Un po’ come i terroristi che se sono nemici degli Usa sono veri terroristi; se sono loro amici sono dei “freedom fighters”. Magari lo diventeranno terroristi. Ma dopo.
https://www.lafionda.org/2021/06/29/i-consulenti-liberisti-fra-incoerenza-e-ridicolo/
Lettera aperta al Presidente Draghi sulla nomina dei cinque consulenti al nucleo tecnico
Nota della redazione: A fronte della nomina di consulenti del governo in materia di politica economica cinque ultras liberisti, decine fra i più accreditati studiosi del paese hanno indirizzato una lettera aperta a Draghi sulla inopportunità di tale scelta. “Vi è una preoccupante presenza di studiosi portatori di una visione economica estremista caratterizzata dalla fiducia incondizionata nella capacità dei mercati di risolvere autonomamente qualsiasi problema economico e sociale”, scrivono. Alcuni dei consulenti “non paiono possedere i previsti requisiti di comprovata specializzazione e professionalità, con riferimento ai temi su cui saranno chiamati a lavorare”. In sintesi: non hanno le competenze necessarie.
A quanto pare il “governo dei migliori” (?!?) getta la maschera e mostra non solo un orientamento mercatista marcato – in barba alle previsioni di “ritorno al keynesismo” per incantare i polli; ma di farsi un baffo della storia delle “competenze” e del “merito” per stipendiare dei profili di imbarazzante mediocrità ma fedeli alla visione dominante – il mercato è bello e buono, lo Stato serve solo come ossequiente regolatore e parafulmine.
Alla Fionda ci domandiamo: ma c’è un premio per chi aveva capito tutto ciò da febbraio?
Lettera aperta al Presidente Draghi sulla nomina dei cinque consulenti al nucleo tecnico
Nei prossimi mesi il governo si troverà ad affrontare la più difficile sfida degli ultimi decenni indirizzando l’uso delle risorse del PNRR a sostegno dell’economia italiana colpita dalle conseguenze dell’emergenza pandemica. In questa delicatissima operazione è essenziale che l’esecutivo mantenga la fiducia degli operatori economici, cittadini ed istituzioni nazionali ed internazionali, acquisita anche grazie al prestigio del Presidente Draghi. Le recenti notizie di stampa riguardo la nomina al Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica presso il Dipartimento di Programmazione Economica di cinque consulenti rischiano di danneggiare l’immagine di competenza tecnica del governo e la fiducia nel suo operato. Oltre alla omogeneità di genere e geografica (cinque uomini tutti operanti in Università e Istituti di ricerca del Nord) che comunque andrà valutata nella completezza del Nucleo tecnico, la cui composizione non è ancora nota, nella cinquina di nominativi, accanto ad alcune figure di riconosciuta competenza, vi è una preoccupante presenza di studiosi portatori di una visione economica estremista caratterizzata dalla fiducia incondizionata nella capacità dei mercati di risolvere autonomamente qualsiasi problema economico e sociale. Appare paradossale che ci si prepari a gestire il più esteso piano di investimenti pubblici degli ultimi decenni con una squadra di consulenti che in alcuni casi non paiono possedere i previsti requisiti di comprovata specializzazione e professionalità, con riferimento ai temi su cui saranno chiamati a lavorare. Inoltre, alcuni fra i nominati sono noti per il sostegno aprioristico ad una teoria che afferma l’inutilità, se non la dannosità, dell’intervento pubblico in economia. Ancora, desta stupore la presenza tra i cinque nominati di consulenti che rappresentano posizioni antiscientifiche che minimizzano la questione del cambiamento climatico e l’urgenza di adeguate politiche d’intervento, minando così la credibilità del governo riguardo il principale pilastro delle politiche economiche europee dei prossimi anni che il governo dovrà realizzare, in sintonia con il Green Deal dell’UE. Rispetto alla questione del Mezzogiorno in alcuni casi le loro posizioni sono di scarsa attenzione e di riduzionismo della rilevanza del problema, oltre che di critica dell’efficacia dell’intervento pubblico italiano ed europeo a riguardo. Tali preoccupazioni sono rafforzate dalla loro appartenenza a think-tank liberisti dei quali non sono noti i finanziatori. I firmatari ritengono che il governo Draghi per tutelare il suo prestigio nonché la sua efficacia operativa dovrebbe riconsiderare alcune nomine ed avvalersi di collaboratori e collaboratrici sempre di indiscussa competenza e obiettività sui temi trattati, attenti al ruolo che gli investimenti del PNRR potranno avere nel contesto del nuovo intervento pubblico in economia.
Per leggere l’originale con le firme cliccare qui: https://docs.google.com/document/d/1pyGoF4oGlzgYZIo9_87d5MGE3q7R6bPHH599xvOpQYA/edit?ts=60d0689e
I manipolatori occulti
Demetrio Guzzardi
Giuliana Freschi
10 Giugno 2021
classe dominante
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Gli «esperti» che commentano i fatti di attualità sui grandi media spesso sono espressione di Think Tank neoliberisti. Cercano di far passare per asettico ciò che è ideologico. Una strategia che dagli Usa sta arrivando anche in Italia
Nel libro Dominio (Feltrinelli 2020), Marco D’Eramo racconta come la Olin Foundation sia stata la prima Fondazione, agli inizi degli anni Settanta, a dedicare le sue laute risorse non alla beneficenza ma alle cause del liberismo estremo. Sulla scia di questo evento, alla fine del decennio, gli Stati uniti hanno assistito al proliferare di ciò che Alberto Parmigiani sulla rivista Il Mulino definisce un «network culturale di Fondazioni e Think Tank» che orientano l’opinione pubblica e ampliano la loro sfera di influenza politica.
Si tratta di gruppi di potere che condividono l’ideologia liberista, contrari all’intervento dello stato nell’economia e sostenitori del libero mercato. Influenzano l’opinione politica perché gli esponenti di questi Think Tank e Fondazioni sono ospiti nei talk show televisivi, chiamati a parlare alla luce della loro presunta imparzialità. Il loro raggio d’influenza non si limita al pubblico televisivo, ma raggiunge la classe dominante repubblicana tramite contributi finanziari e donazioni.
Alla fine degli anni Settanta questo network inizia a diventare più strutturato e potente. Nel 1977 viene fondato il centro di ricerca neoliberale Cato Institute, oggi organizzazione plurimiliardaria di fama mondiale che vede tra i suoi fellow molti personaggi centrali della scena politica statunitense, sia a livello di governo federale che locale. Alcuni esempi noti sonoMark Anthony Calabria, capo economista del vicepresidente Mike Pence durante il mandato di Donald Trump alla Casa Bianca, o Andrey Illarionov che ha lavorato come policy advisor per il presidente russo Vladimir Putin. Intanto i fratelli Koch, proprietari dell’omonimo colosso industriale, hanno creato tre Fondazioni con l’obiettivo di definire l’agenda politica nel medio-lungo termine. Tra queste, il Mercatus Center presso la George Mason University, cui i Koch a metà degli anni Ottanta donarono 30 milioni, che ha matrice accademica e un rapporto diretto con il Congresso americano. All’inizio degli anni 2000 il network si è evoluto con l’istituzione dei Koch seminars, riunioni di finanziatori di estrema destra. Nel 1981, nacque l’Atlas Economic Research Foundations (oggi Atlas Network), Fondazione ombrello che raccoglie e finanzia gruppi liberisti e per il libero mercato.
Lo scenario nostrano è, a prima vista, diverso. Sebbene non esista un Think Tank paragonabile a quelli citati per dimensioni o notorietà, esiste tuttavia una rete iperconnessa. È un gruppo che sta ampliando la propria influenza sia nei principali media italiani che in ruoli di vertice della politica nazionale, e che risulta particolarmente visibile su Twitter. Esempi sono l’Istituto Bruno Leoni (Ibl), la Fondazione Luigi Einaudi di Roma, l’Adam Smith Society e l’Istituto Liberale. Nomi forse poco noti, al contrario però dei loro esponenti più di spicco.
Il presidente di Ibl, Franco Debenedetti, vanta una carriera da senatore dal 2001 al 2013. Sebbene sia sempre stato senatore di partiti di centrosinistra (come del resto il suo predecessore, l’ex deputato di Ds e Pd Nicola Rossi, con lui nel Cda), alle elezioni politiche del 2013 ha sostenuto il partito Fare per Fermare il Declino insieme a molti altri personaggi dello stesso ambiente. Non è l’unico «aggancio» di Ibl con la politica: il direttore Ricerche e Studi, Carlo Stagnaro, ha ricoperto vari incarichi sul tema energia al Ministero dello sviluppo economico durante i Governi Renzi e Gentiloni. Più recentemente, l’8 febbraio 2021, è stato invitato insieme a Serena Sileoni in audizione alla camera per una riunione della commissione finanze presieduta da Luigi Marattin. Ormai praticamente staff aggiunto a Il Foglio, collabora anche con altri giornali come Il Sole 24 Ore, Huffington post, e Lavoce.info. Sileoni, anche lei editorialista per Il Mattino e per Il Foglio, e membro del comitato scientifico della Scuola di politiche fondata da Enrico Letta, a marzo 2021 è stata nominata dal capo di Gabinetto del presidente Mario Draghi tra i tre esperti che dovranno occuparsi delle emergenze economiche e sociali del paese. Da allora è fellow onoraria di Ibl, ma a dicembre, da vicedirettore generale, aveva lanciato la campagna di «sportello legale» gratuito per le «vittime della decretite acuta» del governo. Non meno esposto il direttore generale di Ibl, Alberto Mingardi, che quotidianamente collabora con Il Sole 24 Ore, Il Foglio, e La Stampa e, da giugno 2020, anche con l’inserto economico del Corriere della Sera. Anche il research fellow Francesco Ramella, che dal 2018 al 2019 ha fatto parte del gruppo di lavoro «Grandi Opere», istituito presso lo stesso Ministero, scrive regolarmente per il quotidiano Domani.
Nella più piccola Adam Smith Society cercano di non essere da meno. Il presidente Alessandro De Nicola scrive regolarmente su Il Foglio, La Stampa (dove, insieme a Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli commenta vicende politiche ed economiche nei video della serie Economia in quark), ma anche su La Repubblica e l’Espresso. Tra i membri del comitato scientifico vale la pena menzionare gli economisti Alessandro Penati, che scrive anche lui per Domani e La Repubblica, a riprova della passione della stampa «di sinistra» per i liberisti de noantri, e Veronica De Romanis frequentemente ospite nei programmi Tv di attualità di La7. Ma anche Francesco Giavazzi, attualmente influente consulente di Mario Draghi; Elsa Fornero, già ministra del lavoro e delle pari opportunità col governo Monti; Antonio Martino, parlamentare per ventiquattro anni fino al 2018 e ministro per gli affari esteri nel governo Berlusconi; i citati Cottarelli e Galli (ora animatori di un Osservatorio Conti Pubblici), Debenedetti e Rossi; Ugo Arrigo ascoltato in audizione alla camera sul tema Alitalia nel 2019; l’ex membro del board della Bce Lorenzo Bini-Smaghi; il sociologo Luca Ricolfi, assurto a opinion-maker a 360 gradi con il suo La società signorile di massa. Da parte sua, la Fondazione Luigi Einaudi vede coinvolti personaggi come Sergio Boccadutri, parlamentare Pd, e Giorgio Calabrese, che ha ricoperto incarichi come Consulente scientifico delle commissioni del ministero dell’agricoltura.
A queste potremmo aggiungere la giovane rivista Liberi oltre le illusioni, che dal nucleo di economisti «amerikani» come Michele Boldrin che avevano lanciato la sfortunata lista Fare, sembra stia aggregando parte di questo mondo (tra i redattori, figurano gli «Ibl» Carlo Amenta, Sileoni, Stagnaro, oltre al giornalista de Il Foglio Luciano Capone).
A differenza delle Fondazioni e istituti statunitensi da cui traggono ispirazione (e a cui talvolta sono anche formalmente associate), non è tuttavia altrettanto semplice capire quali interessi economici prima che politici stiano sotto quella che a volte è una semplice attività di divulgazione di idee liberali, altre un vero lobbying politico. Il mercato statunitense infatti rende trasparente come le Fondazioni dell’Atlas Network (di cui sono ufficialmente «partner» Ibl e Istituto Liberale) ricevano l’endorsement (e il finanziamento) da multinazionali come la petrolifera ExxonMobil, o Philip Morris; allo stesso tempo, la notorietà della famiglia Koch rende ben chiaro l’orientamento politico-economico dietro le loro iniziative. Non è lo stesso quando, sui nostri quotidiani, nei talk televisivi o in programmi di approfondimento radiofonico, si chiamano a commentare le vicende economiche i membri di questi istituti, presentati al pubblico italiano asetticamente come «esperti», membri di istituti di ricerca slegati da precise ideologie o interessi.
Per la legge 124/2017 è però necessario rendere pubbliche entro il 28 febbraio di ogni anno le sovvenzioni ricevute da enti e società a enti non profit. Nonostante l’ostilità nei confronti dello stato evidente fin dalle loro autopresentazioni (ad esempio, sul sito dell’Istituto liberale si può leggere come il loro obiettivo sia «Incoraggiare l’emancipazione dell’Individuo da agenti esterni, come lo stato»), scopriamo che se l’Adam Smith Society e l’Istituto Liberale non prendono alcun contributo pubblico così non è invece per la Fondazione Einaudi e Ibl. Per quest’ultimo, la faccenda da ossimorica assume tratti pittoreschi: l’incauto visitatore del loro sito web, infatti, viene accolto da un futuristico contatore del debito pubblico, perennemente in aggiornamento, evidentemente volto a sottolineare come la spesa pubblica sia sempre e comunque negativa. Eppure, tale spesa non sembra un problema quando i finanziamenti pubblici arrivano a loro. Ibl, come la Fondazione Einaudi, ha ricevuto contributi dalla Pubblica Amministrazione anche nel 2020; per Ibl si tratta del Ministero dell’istruzione, ministero dell’università e della ricerca, per la Fondazione Einaudi il ministero dell’economia e finanze e il ministero della cultura.
Sui nomi degli altri finanziatori, invece, si sa ben poco. Nel caso di Ibl, sappiamo quanta parte dei loro finanziamenti viene da quale settore (ad esempio: energia, finanza, farmaceutico, assicurazioni, sanità). Ed ecco il secondo paradosso: non è contro-intuitivo che un’associazione che promuove le idee per il libero mercato che si fondano sul diritto a un’informazione perfetta, libera e accessibile, non persegua la trasparenza come fine ultimo?Benché fornisca informazioni sufficienti a soddisfare i requisiti di legge, citare nomi e cognomi dei finanziatori permetterebbe ai fruitori della loro disinteressata ricerca e divulgazione di conoscere eventuali conflitti di interesse. Una curiosità che cresce per settori come energia e infrastrutture dove, come abbiamo visto, Stagnaro e Ramella hanno ricoperto ruoli di responsabilità pubblica e che rappresentano complessivamente quasi il 6% del bilancio della Fondazione cui appartengono. Nei casi in cui queste informazioni trapelano il quadro che emerge non è incoraggiante. In un tweet dello scorso ottobre, Ibl ringraziava l’American Institute for Economic Research (Aier)per il supporto a una pubblicazione dell’istituto. Se la natura del supporto non è meglio definita, ciò che è innegabile è che l’Aier è stata promotrice di petizioni anti-lockdown; sebbene si tratti di una lobby per il libero mercato e non un’istituzione medica, pubblica frequentemente articoli sull’inutilità e sui danni derivanti dall’uso della mascherina, per non parlare delle sue posizioni su quella che definiscono «isteria climatica». Anche da noi, del resto, al loro core business – diffondere, per dirla con Ibl, «idee per il libero mercato» o, in parole povere, un armamentario di ideologia economica che è spesso alla destra persino del dibattito americano e di organizzazioni come il Fondo monetario internazionale – questi gruppi affiancano sempre di più divulgazione di dubbia scientificità su temi cruciali come la salute e il cambiamento climatico. Anche una breve ricostruzione permette di rendersi conto della loro pervasività: quella che può sembrare soltanto una rete opaca, rappresenta un tassello importante della classe dominante del nostro paese, in grado di lanciare vere e proprie campagne per influenzare l’opinione pubblica, coprendo l’intero «arco parlamentare» dell’informazione.
Ad esempio, il 27 marzo scorso – quando l’Italia era sulla soglia dei 24.000 nuovi positivi al Covid-19 e contava 380 nuovi morti – il sito di Ibl ospitava un articolo sulle riaperture: una riflessione sul concetto di rischio, e sulla necessità di comprendere che qualsiasi scelta, sia quelle di «fare» adottate dal governo (leggi: chiudere) sia quelle di «non fare» comportano costi. Il «paternalismo pubblico» si esplica, dunque, in «una demagogia abile a fare leva su una diffusa ipocondria». Lo stesso autore dell’articolo, Carlo Lottieri, è meno moderato in un articolo di alcuni giorni dopo, pubblicato su Il Giornale: lì, il «paternalismo» diventa il «totalitarismo sanitario» che ha «sequestrato», attraverso leggi e atti amministrativi, i nostri diritti fondamentali. Posizioni simili sono sostenute negli articoli a quattro mani da Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi su Il Foglio, e da Mingardi sul Corriere.
Sempre a marzo, mentre si discuteva l’importanza di sospendere i brevetti sui vaccini, e Joe Biden ne riconosceva l’immediata necessità per consentirne l’accesso ai paesi in via di sviluppo, la Fondazione Einaudi e l’Ibl ne chiedevano la privatizzazione, assieme alla massima libertà tanto per le aziende quanto, e soprattutto, per i pazienti, condannando il «centralismo statalista» nella gestione. In un articolo sull’inserto economico del Corriere della Sera, lo scorso 8 marzo, ancora Mingardi proponeva la decentralizzazione dei vaccini, prendendo come esempio gli Stati uniti, primi al mondo nella somministrazione, per l’accordo pubblico-privato sia nella produzione che nella distribuzione. Una simile rassegna la si potrebbe condurre sul cambiamento climatico. Ma ciò che è qui importante rilevare non è tanto il dettaglio delle loro posizioni ma come queste organizzazioni siano in grado di penetrare in profondità il dibattito italiano – cosa che rende ancor più necessario che siano trasparenti le motivazioni sottostanti la loro instancabile attività. Sorge spontaneo chiedersi, infatti, quanto le dotte opinioni dei membri di questi Think Tank siano frutto di un personale, disinteressato e legittimo punto di vista; o se invece, siano dettati dalla necessità di venire incontro agli interessi delle donazioni provenienti dal settore farmaceutico – nel caso dell’Ibl, sappiamo che nel 2020 complessivamente questo settore pesava per oltre il 7% del bilancio. Crediamo che, oltre a noi, dovrebbero esserne consapevoli anche i direttori dei quotidiani e dei programmi che li invitano a intervenire in qualità di esperti.
Se questo è vero per i contributi privati, dovrebbe esserlo ancora di più quando si tratta di soldi pubblici: per dirla con Gennaro Carotenuto, è paradossale che se negli Usa sono i petrolieri a finanziare il negazionismo climatico, in Italia possa essere lo stato a farlo. Nel suo blog, Carotenuto analizza infatti il caso, per certi versi assimilabile, de Il Foglio: un quotidiano di ideologia liberal-capitalista che ha beneficiato per anni di contributi pubblici, poiché non in grado, lui per primo, di stare in quel mercato su cui, dalle sue pagine, chiama quotidianamente a pontificare molti degli autori citati in questo articolo.
In ogni caso, questa breve ricostruzione, basata sulle poche fonti disponibili, rende chiaro come da questi Think Tank interconnessi emergano commentatori influenti nel dibattito pubblico e nella scena politica anche in Italia. Anche se meno importanti e influenti dei loro corrispettivi statunitensi, gli epigoni italiani riescono a essere presenti su tutti i media nazionali (spesso, anche quelli che dovrebbero parlare al pubblico di «sinistra»). Anzi, è forse proprio la loro scarsa notorietà a permettere loro di entrare nel dibattito pubblico in qualità di esperti super partes, invece che di membri di un gruppo ideologicamente ben riconoscibile e schierato, spesso più a destra del mainstream economico internazionale o addirittura con posizioni negazioniste – come emerge quando si parla di cambiamento climatico. E la mancata trasparenza su chi siano i finanziatori di questi Think Tank rende impossibile individuare possibili conflitti di interesse.
*Giuliana Freschi è dottoranda in economia alla Scuola Superiore Sant’Anna. Si occupa di storia economica italiana, in particolare di mobilità intergenerazionale e tematiche di genere.
Demetrio Guzzardi, dottorando in economia alla Scuola Superiore Sant’Anna, si interessa di macroeconomia, distribuzione dei redditi, disuguaglianze e politiche fiscali.
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