La fine di Israele?
articoli e video di Franco Beradi Bifo, Enrico Euli, Giorgio Ferrari, Eric Salerno, Giuseppe Masala, Remocontro
qual’è il problema? – enrico euli
Quando alcune (ancora troppo poche) Università italiane iniziano -timidamente e fra mille distinguo- a tentare di boicottare alcuni accordi con Israele, ci si straccia le vesti.
Non mi pare che ci si siano messi tanti scrupoli nei confronti della Russia e della Bielorussia, dopo l’attacco all’Ucraina.
I rapporti culturali e gli accordi economici sono stati totalmente interrotti, almeno ufficialmente.
La cultura e la ricerca non sono andate oltre la guerra, allora.
Lo stesso è avvenuto per le federazioni sportive: altro che sport oltre le divisioni della guerra!
É questo doppio standard che rende assurde e ridicole tutte le attuali prese di posizione anti-boicottaggio.
Israele attacca l’Iran in Siria, ma i nostri giornali e tg ci invitano ad empatizzare con gli israeliani che temono la rappresaglia degli ayatollah e chiudono -meschinetti- le loro ambasciate nel mondo.
Loro le possono aprire e chiudere, mentre distruggono quelle altrui.
Ma il problema per la pace nel mondo restano solo gli iraniani fanatici e cattivi, o i russi, o gli houti.
Con gli ebrei -ancorchè colpevoli- dobbiamo solidarizzare.
Con gli altri -anche se fossero innocenti- mai.
Moltissime persone in Israele continuano a manifestare per la liberazione dei loro familiari ostaggi e per evitarsi la guerra in loco.
La guerra deve terminare solo perché così si permetterebbe di far uscire vivi i loro concittadini.
Non una parola -nelle manifestazioni pubbliche- sulla strage in corso a Gaza da parte del loro esercito.
Troppo facile mostrificare il loro capo supremo in piazza per evitare di sentirsi quel che sono: un popolo di privilegiati e di impuniti che opprime un popolo di diseredati senza terra e senza futuro.
La menzogna più grande infatti è quella che accolla a Netanyahu la responsabilità di quel che sta accadendo. E’ la storiella che -se lui non ci fosse e se ne andasse da lì- la politica dello Stato sarebbe diversa, più aperta al dialogo, più disposta a trattare col nemico.
Menzogna in malafede propagandata anche dagli Stati Uniti e dai nostri pennivendoli di regime.
A dimostrare la falsità di questa teoria:
- decenni di violenze e occupazioni ebraiche anti-palestinesi, con qualunque governo, laburista o di destra che fosse;
- un voto che -a maggioranza- lo ha rimesso lì, insieme ai partiti di ultra-destra, a loro volta ben votati da una buona parte dei cittadini;
- il sostegno di mezzo mondo, con soldi e armi, a qualunque governo ed a qualunque politica israeliana, purchè anti-palestinese e anti-araba.
Il problema non è Netanyahu, purtroppo.
Il problema è la produzione e vendita di armi, il problema è l’economia di guerra.
Il problema è la storia d’Israele, dei suoi privilegi e delle sue impunità.
Il problema è l’Occidente che lo sostiene, comunque.
Il problema siamo -soprattutto- noi.
La fine di Israele – Franco Beradi Bifo
La cultura ebraica può essere considerata come il fondamento dell’universalismo razionalista e dello stesso internazionalismo operaio. Il sionismo è il tradimento di quella vocazione universalista. Amos Oz, più di altri, aiuta a capire il paradosso mostruoso di Israele. Scrive Bifo: “Credo che ben presto ci renderemo conto del fatto che Israele non ha niente a che fare con la storia del mondo ebraico… Lo stato di Israele, strumento del dominio euro-americano sul Medio Oriente e sul petrolio è destinato a esplodere presto…”
Più passano i giorni, più Israele procede nella sua campagna di sterminio, più si isola dal resto del mondo, più comprendo che il pogrom del 7 ottobre, pur essendo, come non può che essere un pogrom, un’azione atroce moralmente inaccettabile, è stato un atto politico capace di cambiare la direzione del processo storico. La conseguenza immediata di quell’azione è stata lo scatenamento di un vero e proprio genocidio contro la popolazione di Gaza, ma il genocidio era in corso in modo strisciante da settantacinque anni, nei territori occupati, in Libano, in Siria.
Nel medio periodo, però, credo che lo stato colonialista di Israele, sempre più apertamente nazista nel suo modo di operare, non sopravviverà a lungo.
Quando il contesto è profondamente immorale, l’azione non può essere eticamente accettabile se vuol essere efficace. E’ l’orrore della storia, alla quale non siamo capaci di sfuggire se non disertando la storia. L’occupazione della terra palestinese da parte di un avamposto dell’imperialismo occidentale denominato Israele è una condizione di immoralità assoluta. Entro questo contesto non è possibile dunque alcuna azione efficace se non immorale.
Credo che ben presto ci renderemo conto del fatto che Israele non ha niente a che fare con la storia del mondo ebraico, anzi ne è la negazione. Per questo lo spettacolo genocidario provocato dal pogrom del 7 ottobre ha messo in moto una dinamica destinata a sgretolare lo stato colonialista.
La maggioranza dei cittadini di quello stato appoggiano il genocidio, centomila coloni sono stati armati dallo stato coloniale per continuare a estendere l’occupazione e lo sterminio nei territori, e Israele gode di un’indiscutibile superiorità tecno-militare. Ciononostante la dinamica che si sta ormai sviluppando sta creando una condizione di guerra totale che lo stato israeliano non potrà sostenere a lungo.
Per spiegare quel che voglio dire, cedo la parola a quello che è probabilmente uno dei più grandi scrittori ebrei del Novecento, Amos Oz, che anzitutto spiega qual è il contributo che la cultura ebrea ha portato al mondo.
“Mio zio era un europeo consapevole in un’epoca in cui in Europa nessuno si sentiva europeo, a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano pan-slavi, pan-germanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi, slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. Mio padre diceva sempre: in Cecoslovacchia vivono tre nazionalità, cechi, slovacchi e cecoslovacchi, cioè gli ebrei. In Yugoslavia ci sono i serbi, i croati, gli sloveni, e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di iugoslavi, e perfino con Stalin, ci sono russi e ucraini e uzbechi e ceceni e catari, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico…. Oggigiorno l’Europa è completamente diversa, oggi è piena di europei, da un muro all’altro. Tra parentesi anche le scritte sui muri sono cambiate completamente: quando mio papà era ragazzo a Vilna stava scritto su ogni muro d’Europa: giudei, andatevene a casa, in Palestina. Passarono cinquanta anni e mio padre tornò per un viaggio in Europa dove i muri gli urlavano addosso: ebrei, uscite dalla Palestina” (Una Storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2004, 86-87).
La cultura ebraica è il fondamento dell’universalismo razionalista, del diritto, e dello stesso internazionalismo operaio. Quando il nazionalismo europeo, soprattutto tedesco e polacco, ma anche francese e italiano, si scatenò contro quel corpo estraneo che era la cultura universalista e internazionalista degli ebrei, molti ebrei europei dovettero fuggire dall’Europa per riparare in Palestina, negli anni in cui il sogno sionista sembrava potersi realizzare in condizioni pacifiche. Tra questi anche, i genitori dello scrittore.
“Ovviamente sapevamo quanto fosse dura la vita in Israele: sapevamo che faceva molto caldo, che c’erano il deserto e le paludi, la disoccupazione e gli arabi poveri nei villaggi, ma vedevamo sulla grande mappa appesa in classe che gli arabi in terra d’Israele non erano molti, forse in tutto mezzo milione a quell’epoca, sicuramente meno di un milione, e c’era la certezza che ci fosse spazio a sufficienza per qualche milione di ebrei, che probabilmente gli arabi sarebbero stati incitati contro di noi come il popolino in Polonia, ma si sarebbe potuto spiegare loro che da noi avrebbero tratto solo vantaggi, economici, sanitari, culturali e quant’altro. Pensavamo che entro breve tempo qualche anno appena gli ebrei sarebbero stati la maggioranza in Israele – e allora avremmo dimostrato a tutto il mondo come ci si comporta in modo esemplare con una minoranza. Così avremmo fatto noi con gli arabi: noi, che eravamo sempre stati una minoranza oppressa, avremmo trattato la nostra minoranza araba con onestà e giustizia, con generosità e avremmo costruito insieme la patria, diviso con loro tutto, non li avremmo mai assolutamente mai fatti diventare dei gatti. Che bel sogno” (pag. 240).
Era il sogno di un’epoca in cui esisteva una coscienza solidale, egualitaria, e internazionalista. Ma la costruzione dello stato di Israele contraddice completamente quell’aspirazione, come Hanna Arendt comprese fin dalla fine degli anni Quaranta quando disse che il progetto di creazione di uno stato sionista era “un colpo mortale per quei gruppi ebraici di Palestina che hanno instancabilmente sostenuto la necessità di un’intesa tra arabi ed ebrei”.
Dopo l’Olocausto, dopo avere ucciso sei milioni di ebrei, i popoli europei parvero soddisfatti quando gli ebrei decisero di andarsene in un territorio controllato dagli inglesi.
“Ci si può forse consolare con il fatto che, seppure gli arabi non ci desiderano qui, i popoli d’Europa d’altro canto, non hanno la benché minima voglia di vederci tornare a popolare da capo l’Europa. E il potere degli europei è comunque più forte di quello degli arabi, pertanto c’è qualche probabilità che comunque ci lascino qui, che costringano gli arabi a digerire quel che ‘Europa cerca di vomitare” (pag. 402).
Gli europei hanno vomitato fuori la comunità ebraica, dice Amos Oz, hanno prima sterminato poi espulso quella che pure era la comunità più profondamente europea, perché incarnava più compiutamente i valori dell’Illuminismo, del razionalismo, e del diritto, mentre in Europa prevaleva il nazionalismo. Proprio perché gli ebrei non avevano un rapporto ancestrale con la terra europea, il loro europeismo era fondato sulla Ragione e sul Diritto, non sull’identità etnica.
Il sionismo è dunque stato il tradimento della vocazione universalista della cultura ebraica moderna. Ma non solo: il sionismo è stato anche l’identificazione delle vittime con il carnefice nazista, il tentativo di affermare la nazione ebraica (ossimoro orribile) con gli stessi mezzi con cui la nazione germanica (ed europea) aveva sterminato la comunità non nazionale degli ebrei.
Questo groviglio è ora – io credo – giunto al punto di crisi finale. Può darsi che lo snodo che viene sia ancor più tragico di quello che abbiamo visto fino a questo momento. Ma lo stato di Israele, strumento del dominio euro-americano sul Medio Oriente – e sul petrolio – è destinato a esplodere presto.
Aiuti italiani a Gaza: Tajani taglia tutto per evitare ogni tensione con Israele – Remocontro
La Farnesina dell’aiuto con comodo e soprattutto sicuro per chi lo porta, a prescindere da un po’ di morti per fame in più o in meno. Superati i 33mila morti ammazzati, stai a guardare al capello! Il governo taglia i fondi anche ai progetti già approvati mentre nella striscia si muore di fame. «Aiuti inopportuni», la bestemmia. Ong italiane indignate: «Il motivo è politico»
Sfacciatamente vigliacchi
«Le operazioni di soccorso all’interno della Striscia sono pressoché impossibili e ad altissimo rischio. Alla luce di quanto sopra, d’intesa con l’Unità di crisi, si rappresenta pertanto, allo stato attuale, l’inopportunità di operare».
Affari Esteri e solo affari loro
Direttiva del Ministero Esteri e Cooperazione Internazionale con cui il governo italiano ha bloccato le linee di finanziamento ai progetti a Gaza delle Ong italiane. Nel momento in cui la Striscia affronta una crisi umanitaria spaventosa e la sua popolazione ha bisogno di tutto, il ministro Antonio Tajani ha decretato «l’inopportunità di qualsiasi attività di cooperazione a Gaza». Per gli applausi, decidete voi.
Prima solo l’abbandono
«Un passo che segue i mesi di incertezza in cui è stato lasciato l’ufficio di Gerusalemme dell’Aics, l’agenzia della cooperazione governativa, rimasto senza un indirizzo e di fatto ignorato dal governo Meloni impegnato ad evitare qualsiasi atto nei Territori palestinesi occupati che potesse risultare sgradito a Israele», denuncia Michele Giorgio sul Manifesto.
Non correre rischi o non irritare Netanyahu?
Il ministero degli Esteri indica tra i motivi della sua direttiva la situazione a Gaza descritta come «un’area bellica, al centro di una intensa operazione militare, con elevatissimi rischi per la sicurezza». Ma a scoprire gli opportunismi politici, la decisione governativa di sospendere anche i progetti già approvati e finanziati da tempo. In linea perfetta col governo di Tel Aviv.
Ai richiami di Bibi, Antonio corre
L’esecutivo di Benyamin Netanyahu ripete dal 7 ottobre che i progetti a favore dei palestinesi di Gaza sono un sostegno ad Hamas e, pertanto, vanno interrotti. «L’Italia non è l’unico paese ad aver fatto questo passo -precisa ancora Michele Giorgio-, ma non è passata inosservata la sua solerzia nel rispettare le intimazioni di Israele».
L’Unrwa nemica
Altro esempio, l’interruzione dei fondi per l’Unrwa, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi. «Roma ha sospeso la linea di finanziamento per l’emergenza e ci chiede di spostare ogni progetto in Cisgiordania, quindi di abbandonare Gaza. –la denuncia di diverse Ong operative in quei territori-. Inaccettabile. In questo momento la Striscia deve poter ricevere tutto l’aiuto possibile. La gente muore di fame».
No anche agli aiuti salvavita
Varianti ai progetti verso solo aiuto d’emergenza grazie al personale palestinese a Gaza, «ma ci siamo trovati davanti un muro» la denuncia. «Eppure, a Roma sanno che alcune di queste attività proposte sono salvavita». Opportunismo politico senza ritegno, la versione meno diplomatica ma anche più veritiera su ciò che sta accadendo. Con qualcosa in più di un semplice sospetto che l’attuale il ministero degli Esteri «sia animato da considerazioni di natura politica e non di sicurezza per gli operatori umanitari italiani».
Ong, l’elenco dei ‘più cattivi’
Tra le ong colpite direttamente ci sono sono Acs, Educaid, Cesvi, Cospe, Oxfam, WeWorld e Progetto Mondo. Il 15 aprile prossimo confronti al ministero, ma con molto poche speranze di redenzione umanitaria da parte del vice Meloni di turno.
«Bloccare i progetti di emergenza è una decisione tragica», denuncia Meri Calvelli, dell’Associazione di Cooperazione e Solidarietà in Palestina. «In ogni caso, continueremo ad inviare a Gaza gli aiuti garantiti dalle donazioni provenienti dalla solidarietà popolare italiana».
La guerra su cui vogliono ingannare il mondo. Trucchi a bugie vantati – Eric Salerno
Lo Stato ebraico elogia la massiccia presenza di reporter. Dove e chi decidono loro. Spingendo anche in maniera non sempre elegante a riportare la loro versione dei fatti. Solo la loro è meglio. «Guerra e onestà sono due elementi che non sono mai stati concordanti; quasi sempre il netto contrario», la premessa di Eric Salerno. Anche lui, come noi, sotto shock, a mettere assieme indignazione e ragionamento.
Guerra? Vendetta? Follia?
«Tre dei figli e tre nipoti del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh sono stati assassinati ieri con un ordigno israeliano mentre salivano su una vettura nel centro di Gaza City. Guerra? Vendetta? Israele sostiene che erano tutti ‘diretti a compiere un atto terroristico». Una specie, scusate il sarcasmo, di gita in famiglia».
Senza pudore, senza vergogna
Parlare di giustizia e onestà in piena guerra serve a poco soprattutto dopo che sono stati uccisi più di trentatré mila palestinesi, in buona parte civili e bambini, da quando i militanti di Hamas e della Jihad islamica sei mesi fa attaccarono le pacifiche comunità ebraiche in Israele lungo il confine con la striscia di Gaza. L’affermazione di fonti israeliane, che dopo la morte dei parenti di Haniyeh, ‘lui probabilmente’ non sarà più disponibile a negoziare lo scambio di ostaggi-prigionieri fa sorridere.
Sorrisi tragici e digrignar di denti
Da giornalista avrei sorriso anche io se non fosse per il fatto che già ridevo dopo aver letto, appena prima, il comunicato della «Direzione nazionale della diplomazia pubblica» israeliana che ha presentato, con orgoglio «la sua attività sulla scena internazionale dopo sei mesi di guerra». La ‘legittimità della politica israeliana sul campo di battaglia. «Fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti – leggo e sottolineo – al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia».
Memorie di lontane censure
Non voglio fare paragoni, ma l’organizzazione – o quanto meno come viene presentata dalle autorità israeliane – fa venire in mente storie di cui leggevo da ragazzo soprattutto perché ai giornalisti, approdati a Tel Aviv, è stato concesso raccontare quello che vedevano in Israele e lungo il confine con Gaza ma non potevano osservare, se non a distanza, ‘quello che succedeva nella striscia’, devastata da mesi di bombardamenti quasi costanti, se non accompagnati (e per poco tempo) dalle truppe israeliane.
Embedded ereditato da Israele
Il termine embedded era diventato famoso ai tempi dell’assalto americano all’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra dove devastazione e overkill avevano raggiunto livelli incomprensibili. E dove il risultato finale della guerra al leader iracheno ha lasciato morti, feriti e una nazione a dir poco spezzettato e in disordine.
Le virtù informative israeliane
«Tra le agenzie che partecipano al centro di comando – si legge nel comunicato israeliano – ci sono i servizi di sicurezza, l’IDF, la polizia israeliana e organismi governativi tra cui il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero per gli Affari della Diaspora, l’Agenzia pubblicitaria governativa e l’Ufficio stampa governativo». Di seguito una sintesi dei servizi forniti alla comunità internazionale: «Fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia».
‘L’Equilibrio della copertura’
E ancora: «Attraverso il lavoro di portavoce e di diplomazia pubblica con i principali mezzi di stampa e radiotelevisivi di tutto il mondo, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica ha contribuito ad avviare e promuovere centinaia di storie». Interessante questo passaggio: «Storie per rafforzare la narrativa israeliana, moderare i resoconti critici, rispondere agli eventi di cronaca e generare un’intensa attività favorire l’equilibrio nella copertura».
L’Inganno assoluto senza risparmio di forze
«La copertura globale degli eventi della guerra – viene raccontato con orgoglio – è stata di una portata senza precedenti. Oltre 4.000 giornalisti da tutto il mondo sono venuti in Israele per seguire la guerra, trasformandola così nell’evento mediatico più seguito dalla fondazione dello Stato…I giornalisti hanno partecipato a tour nel sud e nel nord, hanno visitato il sito del festival NOVA e hanno ricevuto briefing strategici e di zona da ufficiali dell’IDF, agenti di polizia, volontari ZAKA, capi di consiglio locale e testimoni del massacro…Nell’ambito degli sforzi di diplomazia pubblica sulla scena internazionale, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica – in collaborazione con il portavoce dell’IDF – ha lanciato il sito web “Massacro di Hamas del 7 ottobre” che ha mostrato al mondo alcuni dei crimini di Hamas contro l’umanità, con fotografie e videoclip…Il sito ha avuto 43 milioni di visite nei primi tre giorni».
Manipolatori vanitosi, esibiscono l’inganno
Una assistenza quasi perfetta se non fosse per il fatto che molto del materiale giornalistico presentato ai giornalisti veniva scelto o preparato in modo da portare avanti una narrativa ben precisa che voleva giustificare la ferocia dell’azione militare israeliana – morti, feriti, Gaza trasformata in una terra praticamente inabitabile – come risposta al indubbiamente feroce attacco dei militanti palestinese.
Occultamento mal riuscito: troppi cadaveri e prepotenza attorno
Lo sforzo dell’apparato propagandistico israeliano non è riuscito a trasformare la narrativa o a moderare le critiche che sono piombate, mai come prima, sul governo israeliano. E ieri, un episodio minore, ha influito negativamente sugli sforzi dell’apparato propagandistico. La corrispondente di Tve (rete televisiva spagnola) in Israele, Almudena Ariza, ha dovuto interrompere il collegamento in diretta con il Telegiornale 1 da Gerusalemme quando un uomo si è piazzato davanti alla telecamera e non le ha permesso di continuare la cronaca.
L’aggressività radicata e diffusa che ormai travolge il Paese
«Non lasciano lavorare, mi dispiace molto. Dobbiamo interrompere», ha spiegato Ariza mentre un uomo vestito di nero, probabilmente un ebreo ortodosso, le faceva segno di spostarsi. «Non è la polizia, è un cittadino comune», ha precisato mentre era in collegamento e cercava di spiegargli – in inglese – che stava solo facendo il suo lavoro e chiedeva di lasciarla continuare».
L’ingresso in scena di altre persone ha messo fine al collegamento e Tve ha spiegato sul suo account X: «La pressione su Netanyahu aumenta e aumentano anche le difficoltà nell’informare da Gerusalemme, come è successo alla nostra corrispondente, interrotta da vari cittadini durante un collegamento in diretta».
Lavender e Habsora, gli ultimi mostri del “Laboratorio Palestina” – Giuseppe Masala
«Il ruolo di Israele è fungere da modello»
Elliott Abrams
Chi si occupa di Intelligenza Artificiale sa bene che l’utilizzo di questi strumenti in ambito bellico può portare a sbocchi drammatici che non appare azzardato definire da “romanzo distopico” dove tutta la riflessione umana, prima di teorizzazione filosofica del concetto di “crimine di guerra” e successivamente di applicazione pratica di questo concetto al campo giuridico, rischia di essere totalmente azzerata riportando l’uomo in dietro nel tempo alle epoche nelle quali lo sterminio di intere popolazioni era ritenuta una pratica bellica “accettabile”.
Questo tema, nonostante l’estrema importanza, è rimasto per anni relegato ai dibattiti tra gli specialisti del settore difesa e sicurezza, da un lato, e gli esperti di Intelligenza Artificiale dall’altro. Con lo scoppio delle ostilità tra Hamas e Israele che ha portato all’invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, il tema dell’uso dell’Intelligenza Artificiale in ambito bellico è però emerso in tutta la sua drammaticità a causa di un’inchiesta di Local Call e +972.
I giornalisti di queste due testate israeliane hanno scoperto che Tsahal nell’individuazione e nella selezione dei bersagli utilizza strumenti di Intelligenza Artificiale (per la precisione Machine Learning “non supervisionato”) che non è esagerato definire come una “catena di montaggio degli omicidi di massa”. Per la precisione, il dispositivo utilizzato consta di due diversi softwere di Intelligenza Artificiale, uno chiamato Lavender e l’altro Habsora. I due softwere usati in maniera combinata hanno così generato una fabbrica omicidiaria in piena regola.
I due media israeliani hanno così illustrato il loro funzionamento: Lavender ha individuato una lista di 37000 potenziali miliziani di Hamas e di altre organizzazioni presenti nella striscia di Gaza grazie alle predizioni fatte su un modello stocastico e utilizzando una serie di dati che individuavano determinati parametri. Una volta individuati i bersagli grazie a Lavender, l’altro programma di intelligenza artificiale, Habsora, ha individuato i luoghi dove i miliziani probabilmente si trovavano questo sempre grazie all’analisi degli spostamenti degli individui identificati come bersagli, degli orari in cui avvenivano tali spostamenti ecc. tutto questo, ovviamente, grazie al solito modello matematico che calcola la probabilità dell’evento.
Come è facilmente intuibile, siamo di fronte ad una vera e propria catena di montaggio dell’omicidio e della strage che più che intelligenza artificiale può essere chiamato Carnefice Artificiale, il quale prima che di vite si ciba di dati: quelli necessari per il calcolo della probabilità. Dati che sono estrapolati dall’enorme e distopico sistema di sorveglianza israeliano che scandaglia la vita dei 2,3 milioni di palestinesi che vivono a Gaza: Informazioni visive, informazioni cellulari, connessioni ai social media, informazioni sul campo, contatti telefonici, foto, email, contatti, interessi, tutto è utile a Lavender per emettere la sua sentenza di colpevolezza (ovvero di appartenenza ad una organizzazione paramilitare palestinese) che poi sempre grazie ai dati sugli spostamenti “dati in pasto” ad Habsora si trasformeranno in una sentenza di morte.
Da dove si origina questo enorme apparato di controllo che è letteralmente la miniera di dati che alimentano il Boia Artificiale Bifronte (i softwere Lavender e Habsora) ce lo spiega un bel saggio scritto da Antony Loewenstein, “Laboratorio Palestina – Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo” (1) e appena pubblicato.
Si tratta di un opera davvero pregevole perché dà al lettore una precisa e puntuale disamina di come sia nata l’enorme macchina del controllo israeliana che opprime in maniera asfissiante i palestinesi e che è fatta di softwere trojan che spiano internet, i telefoni e qualsiasi tipo di database; di videocamere e di droni che controllano gli spostamenti delle persone e di softwere di Intelligenza Artificiale che analizzano i dati emettendo prima sentenze di condanna a morte e poi effettuando le esecuzioni per mano di quello che è – di fatto – un boia meccanizzato e integrato.
Ma questa opera non è solo inchiesta giornalistica – pur pregevole e senza sconti – è anche il tentativo dell’autore di dare un senso a tutto questo. Non basta spiegare i pur interessanti risvolti economici della costruzione stratificata di un enorme macchina tecnologica che prima è stata macchina di controllo e che, ora, è addirittura macchina di morte, con il fatto che le vendite di armamenti israeliani, nel 2021, hanno fatto registrare il valore più alto di sempre, raggiungendo l’iperbolica cifra di 11,3 miliardi di dollari; armi che – va detto – raggiungono quasi sempre l’Europa che è di gran lunga il cliente principale di Tel Aviv.
Ciò che è veramente importante in questo saggio, è che traspare un’analisi politica che prova a dare un senso a tutto questo anche con la coniazione di un neologismo secondo me molto efficace: il netanyahuismo ovvero una visione della politica spiegata nell’opera dalla citazione delle parole dello scrittore ebreo Peter Beinart, «il futuro non apparteneva al liberalismo come lo intendeva Obama – tolleranza, pari diritti e Stato di diritto –, ma al capitalismo autoritario: governi che combinavano un nazionalismo aggressivo e spesso razzista con la potenza economica e tecnologica. I leader vincenti del futuro, lasciava intendere Netanyahu, non avrebbero assomigliato a Obama ma a lui». Magari certo, la visione di Beinart è un po’ manichea e troppo “santificatrice” di Obama, ma è certamente vero che un simile capillare strumento di controllo costruito negli anni e soprattutto la sua esportazione all’estero (magari “a pezzi” per non dare nell’occhio) può essere giustificato solo con la volontà politica di passare ad un governo della polis, non più liberale ma secondo l’egida del netanyahuismo e del capitalismo dispotico.
(1) Antony Loewenstein, Laboratorio Palestina – Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo, Fazi Editore (2024
L’ordine regna a Berlino – Giorgio Ferrari
Con questo titolo, poco più di cento anni fa, Rosa Luxemburg firmava il suo ultimo articolo uscito sul giornale Die rote fahne (La bandiera rossa) il giorno prima di essere uccisa.
L’articolo stigmatizzava il “successo” riportato dalla soldatesca governativa che aveva massacrato gli spartachisti del Vorwarts (Avanti), il giornale che si era battuto fino all’ultimo contro il capitalismo e la guerra.
Era il tempo della repubblica di Weimar guidata dai socialdemocratici, tra cui spiccavano i nomi di Ebert e Noske, gli stessi che nel 1914 avevano votato i crediti di guerra, trascinando il paese nella più nera miseria che la Germania avesse conosciuto.
Rosa Luxemburg era ebrea (Un’ ebrea polacca che combattè in difesa dei lavoratori tedeschi, come ricorda Brecht) e denunciava la politica di quei socialisti che avevano sposato l’idea di Wilson (il presidente dei miliardari) e della nascente Società delle nazioni che, in nome di un falso disarmo, chiamava il proletariato mondiale a farsi carico dei costi della pace borghese, dopo aver pagato quelli della guerra imperialista.
“L’idea della lotta di classe -scriveva nel 1918 – capitola qui davanti all’idea nazionalistica, che lei raffigurava come una pletora di nazioni e nazioncine che accampavano diritti per costituirsi in stati: “Cadaveri rammodernati escono da sepolcri centenari, infusi di nuovo impulso primaverile, e popoli privi di storia che non avevano prima d’ora costituito organizzazioni statali autonome, provano una violenta inclinazione alla formazione di stati. Polacchi, ucraini, russi bianchi, lituani, cechi, jugoslavi…mentre i sionisti fondano già il loro ghetto palestinese, provvisoriamente a Philadelphia.”
Spicca, in questa feroce critica del nazionalismo, l’accenno al ghetto palestinese che il sionismo andava preparando, quasi una epifania di ciò che l’Europa -una volta sconfitte le aspirazioni del proletariato – avrebbe partorito (fascismo e nazismo) per poi, ipocritamente, consentire alla realizzazione del “sogno” sionista: la creazione di Israele, forma estrema di nazionalismo che, duecento anni dopo lo sterminio delle popolazioni indigene dei nuovi mondi (Stati Uniti, Canada, Australia), ne ha ripropostole le stesse pratiche criminali, tipiche del colonialismo di insediamento.
Nonostante ciò, nonostante le accuse di genocidio, molti stati europei -primi fra tutti quelli che a suo tempo non fecero nulla per fermare il nazismo – oggi proteggono Israele con ogni mezzo, dall’invio di armi alla interdizione e/o persecuzione delle manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese.
La Germania, oltre ad essere il primo fornitore europeo di armi ad Israele, è lo stato che più si distingue nel reprimere ogni forma di critica verso Israele: vietate le manifestazioni pro Palestina, vietati gli slogan che ne chiedono la libertà, vietato indossare la kefiah e chi disobbedisce è schedato, perquisito o arrestato.
Lo scorso 12 aprile si doveva svolgere a Berlino una conferenza sulla Palestina, con relatori palestinesi, ebrei e altri di varia formazione politica. Al medico palestinese che aveva operato a Gaza, Ghassan Abu-Sittah è stato negato l’ingresso in Germania: posto in stato di fermo al suo arrivo all’aeroporto di Berlino, è stato deportato nel Regno Unito. L’intervento pre-registrato dell’ autore palestinese Salman Abu Sitta è stato interrotto dai poliziotti che, entrati in sala a decine, si sono messi fisicamente davanti allo schermo per impedirne la visione. La polizia voleva impedire anche la diretta streaming dell’evento, adducendo la scusa che non si poteva escludere che un oratore potesse pronunciare frasi di incitamento contro Israele. Di fronte alla resistenza degli organizzatori, la polizia ha staccato la corrente alla sala della conferenza per poi decidere di annullarla del tutto, dopo di che ha ordinato ai presenti di abbandonare la sala e vietando loro di riproporre in altri luoghi l’evento.
La stampa, che nei giorni precedenti aveva definito la conferenza “Un congresso degli odiatori di Israele” dove si sarebbe fatta apologia di terrorismo, ha plaudito all’iniziativa della polizia che non ha mancato di schedare parecchi degli organizzatoti (oltre a quelli già perquisiti precedentemente).
La ministra dell’interno Nancy Faeser (SPD) ha espresso la sua soddisfazione per l’annullamento della conferenza, giudicando positivamente la dura repressione della polizia contro la “cosiddetta conferenza sulla Palestina”.
Faeser non somiglia a Noske, così come Scholz non somiglia a Ebert, ma è un fatto che un secolo dopo l’articolo di Rosa Luxemburg, con i socialdemocratici al governo (oggi coadiuvati dai verdi), l’ordine torna a regnare a Berlino nei modi più spregevoli che, dopo un secolo di orrori, distruzioni e ingiustizie, la civilissima Europa avrebbe dovuto bandire per sempre.
Restano le parole con cui Rosa Luxemburg conclude il suo articolo, tanto grandi da incutere soggezione e nello stesso tempo coraggio per una causa che se non è, qui e ora, quella della rivoluzione è pur sempre un atto di solidarietà verso un popolo oppresso, un moto di resistenza alla sopraffazione e all’ingiustizia a cui non ci si può sottrarre.
“L’ordine regna a Berlino! Stupidi sbirri! Il vostro ordine è costruito sulla sabbia. La rivoluzione già da domani di nuovo si rizzerà in alto con fracasso e a vostro terrore annuncerà con clangore di trombe: io ero, io sono, io sarò.”