La giostra della didattica a distanza continua a girare
articoli di Piero Bevilacqua, Elisabetta Frezza, Giuliana Visco, Roberta Pompili, Maurizio di Masi, Gustavo Zagrebelsky, Luca Gammaitoni, Gianluca D’Errico, Penny, Emiliano Schember, coniarerivolta, Fabio Sabatini, Annamaria Manzoni, Paolo Mottana, Jennifer Couzin-Frankel, Gretchen Vogel, Meagan Weiland, survival, Rossella Latempa
Ecco, ci siamo
Ci sentite da lì?
Ma ci sentite da lì?
Ivano Fossati
Il tempo dell’impotenza – Paolo Mottana
Questo è il tempo dell’impotenza. Diciamocelo. C’è un gran frastuono di parole, di invettive, di battibecchi ma la sostanza è evidente. Siamo nel buio. Sono nel buio i cosiddetti scienziati, sono nel buio i governi (e non solo il nostro), siamo nel buio tutti. E continuare a pretendere chiarezza, informazioni e dati limpidi, discipline rigorose è abbastanza ridicolo. Finiamola.
La nostra estraneità all’ombra e al buio ci rende ciechi e impauriti ma occorre invece abituarsi a muoversi nell’ombra, ad accettare di esplorare con prudenza e lentezza il tempo dell’oscurità e del dolore.
Mentre si starnazza da una parte contro le restrizioni e dall’altra se ne pretendono di più severe, abbiamo l’occasione di aprire un tempo di riflessività, di depressione, di introversione e di frenare la spinta maniacale del mondo. Abbiamo l’occasione di essere solidali con chi è più colpito e di non cercare soluzioni immediate, quanto di lasciar maturare questo specifico Zeitgeist, quello dell’impotenza, del non venirne a capo, della “capacità negativa” di cui parlava un grande poeta inglese (Keats) dell’800. E di cui si appropriò Wilfred Bion per indicarci la capacità di stare nel dubbio, nell’ansia di non capire e di arrivare, “senza memoria né desiderio” forse a una qualche nuova rivelazione.
Io non giudico la rabbia che circola, nemmeno la mia, è sacrosanta, non si può non essere arrabbiati nell’impotenza, nella perdita di libertà e nel vedere ridursi il nostro spazio vitale, i nostri sogni o le certezze su cui abbiamo fondato le nostre vite fino a quel momento, economiche o affettive che fossero.
Stiamo vedendo un mondo sprofondare, un mondo per molti versi brutto, sbagliato, diseguale, corrotto, avvelenato e avvelenatore. E non possiamo fare nulla. E non possiamo guardare alla Cina o alla Corea portandole ad esempio perché tra noi e loro ci sono abissi culturali e religiosi invalicabili. Restiamo nel nostro pantano, con i nostri “compiti a casa” da fare, quelli di chi per secoli si è lanciato in una corsa sfrenata per fottere la natura, fuori e dentro di noi. Per fottere gli altri, per fottere sé stesso.
Chiedere il silenzio sarebbe troppo, per natura noi siamo chiassosi, chiacchieroni, partigiani.
Ma un poco di astensione dal giudizio, un poco di cautela nel prendere parte ogni giorno su qualsiasi cosa, un poco di compassione per le nostre incapacità, per la nostra impotenza, per la nostra debolezza. Nostra, dei governi, degli scienziati, dei complottisti, tutti portatori di verità parziali e insufficienti di fronte a quello che appare come una grande frana del sistema di civiltà capitalistica arrivata allo stremo dello sfruttamento del suo mondo, delle persone, della natura.
Se proprio dovessi immaginare un futuro, non sono certo di volere quello che c’era prima di questa catastrofe e certo, come per molti, non sono affatto convinto di un mondo più tecnocratico di quanto già non sia questo.
Per ora non so, e credo sia giusto non sapere, dobbiamo imparare a stare nel buio, nel non capire, nel non avere certezze, nel dialogo con la malattia e la morte che si è aperto nostro malgrado, con una malattia che ha sbaragliato tutte le nostre consuetudini ma soprattutto tutta la nostra fiducia in quella scienza che tanto è stata contrabbandata come la panacea di tutti i mali.
Occorre recuperare misura e senso del limite umano, occorre ricordare che la natura è sempre più forte di noi, anche quella interna e che scagliarsi contro un governo fatto di uomini deboli, contro i comitati composti da altri uomini impreparati al buio, o contro la rabbia sociale di altri uomini feriti, è solo incredibilmente presuntuoso.
Chiudere la scuola ha conseguenze gravissime – Fabio Sabatini
Chiudere la scuola è il modo giusto di affrontare la pandemia? I benefici della chiusura sono così evidenti da compensare il prezzo che gli studenti pagheranno nel corso intero della loro vita? I risultati preliminari delle analisi empiriche successive alla riapertura delle scuole in Europa sono contrastanti e sollevano molti dubbi.
In Germania tre ricercatori dell’Institute of labor economics di Bonn hanno stimato l’effetto della riapertura delle scuole sulla diffusione del covid-19, approfittando del fatto che i länder cominciano l’anno scolastico in date diverse. Quelli dove le scuole non erano ancora state riaperte al momento della ricerca hanno funzionato da gruppo di controllo.
Le stime suggeriscono che la riapertura delle scuole abbia causato una diminuzione dei casi statisticamente significativa. Secondo gli autori la riapertura potrebbe aver contribuito a contenere l’epidemia, anziché accelerarla.
Tre settimane dopo la riapertura, i casi confermati sono diminuiti di 0,55 ogni 100mila abitanti. L’effetto riguarda soprattutto i pazienti fino a 34 anni. Per gli over 60 non si riscontra alcun effetto statisticamente significativo.
Ci sono almeno tre ragioni per cui in Germania la situazione potrebbe essere migliorata con il ritorno a scuola.
- Le scuole hanno riaperto in condizioni molto diverse da quelle in cui erano state chiuse. L’uso delle mascherine è obbligatorio, le classi sono separate, mentre gli studenti e gli insegnanti sono rigorosamente distanziati. Senza l’adozione di misure di sicurezza, la scuola favorisce la diffusione delle malattie simil-influenzali (come mostrato, per esempio, da Jerome Adda in un lavoro pubblicato sul Quarterly Journal of Economics). Ma mascherine, igiene e distanziamento possono neutralizzare il problema.
- L’individuazione dei casi positivi tra studenti e insegnanti comporta il tracciamento immediato e l’isolamento rapido dei loro contatti, consentendo di interrompere catene di contagio che, senza il monitoraggio operato attraverso la scuola, non sarebbero state interrotte.
- La riapertura delle scuole ha provocato un drastico cambiamento nel comportamento dei genitori, che sono diventati più prudenti. Con le scuole aperte, infatti, contagiarsi ha un costo più elevato, perché comporta l’esclusione dei figli dalle classi e la perdita di ore di apprendimento (per i figli) e di lavoro (per i genitori). Anche contrarre una semplice influenza è più costoso, perché implica l’obbligo di isolamento fino all’esito del tampone.
La ricerca sulle regioni italiane
Ma l’Italia non è la Germania, si potrebbe obiettare. Salvatore Lattanzio dell’università di Cambridge ha svolto un’analisi empirica simile sulle regioni italiane, giungendo a conclusioni opposte: in Italia, le regioni che hanno riaperto prima le scuole sono oggi più avanti nella curva dei contagi.
Nell’analisi empirica, descritta su lavoce.info, l’autore analizza la differenza nei contagi tra le regioni che hanno riaperto la scuola il 14 settembre e quelle che lo hanno fatto il 24 settembre. Le seconde costituiscono il gruppo di controllo, a parità di una serie di caratteristiche regionali che non variano nel tempo.
Prima della riapertura e nei 25 giorni successivi, le regioni appartenenti ai due gruppi non mostravano differenze statisticamente significative. Nell’ultima settimana, invece, i contagi sono aumentati significativamente nelle regioni che hanno riaperto la scuola per prime.
La correlazione tra la riapertura e l’aumento dei contagi non fotografa necessariamente un nesso causale. Per esempio, le regioni che hanno riaperto le scuole per prime sono quelle in cui le attività economiche sono più intense, i trasporti più capillari, le interazioni sociali più continue e il clima più freddo: tutti fattori che possono incidere negativamente sul contagio.
Come spiega Lattanzio, le differenze rispetto alla Germania potrebbero essere solo apparenti, dato che lo studio tedesco analizza un arco temporale più breve e la situazione tedesca potrebbe ancora peggiorare.
Tuttavia, la Germania sembra aver gestito meglio la distribuzione del carico della riapertura sui trasporti pubblici e i protocolli di accoglienza nelle strutture scolastiche, il tracciamento dei contatti dei casi positivi e il rispetto delle regole fuori dagli edifici scolastici. Misure relativamente poco costose che richiedono soprattutto capacità organizzativa e coordinamento tra gli enti locali.
Gli effetti negativi delle chiusure
Nel dubbio, non sarebbe meglio chiudere comunque le scuole, magari contando sulla didattica a distanza? Purtroppo, sappiamo che la didattica a distanza è stata implementata in modo diseguale sul territorio e non ha la stessa efficacia delle attività in presenza, almeno per gli studenti più giovani. I benefici incerti della chiusura della scuola devono essere confrontati con il costo pagato dagli studenti e dalle loro famiglie.
In genere, ogni riduzione dell’orario scolastico ha effetti negativi sulle abilità cognitive degli studenti, sulla probabilità di abbandono scolastico, di iscrizione all’università e di trovare lavoro, sul livello del salario in età adulta e sulle mansioni svolte sul posto di lavoro, nonché sui risultati scolastici degli eventuali figli degli attuali studenti.
In un lavoro pubblicato sul Journal of Labor Economics, David Jaume e Alexander Willén hanno stimato l’effetto dei giorni di scuola persi a causa degli scioperi degli insegnanti sulla performance degli studenti nel mercato del lavoro in Argentina.
Aver sperimentato il numero medio di scioperi che si verificano durante la scuola primaria (88 giorni in tutto ) riduce i guadagni degli studenti del 2,99 per cento una volta raggiunta un’età fra i trenta e i quarant’anni e aumenta la probabilità di essere disoccupati dell’11,44 per cento rispetto alla media. Gli effetti negativi sul mercato del lavoro sono dovuti soprattutto al peggioramento delle competenze degli studenti e, di conseguenza, della loro performance scolastica. L’effetto non è uguale per tutti: a risentirne di più sono gli studenti provenienti dalle famiglie più povere.
Ma non solo, anche i figli degli studenti esposti agli scioperi durante la scuola primaria tendono ad avere risultati scolastici peggiori: la disuguaglianza causata dalla chiusura delle scuole può trasmettersi di generazione in generazione.
Gli effetti negativi della perdita di giorni di scuola valgono anche per gli studenti più anziani. In un lavoro pubblicato sulla Review of Economics and Statistics, un team di ricercatori svedesi ha usato la variazione casuale delle date dei test di ammissione al servizio militare in Svezia per stimare l’impatto di ciascun giorno di scuola sulle abilità cognitive degli studenti.
Gli studenti che affrontano il test più tardi, arrivano più preparati. Dieci giorni di scuola in più aumentano il punteggio in modo statisticamente significativo. Si stima che 180 giorni di scuola in più risulterebbero in punteggi più alti di un quinto di deviazione standard (lo scostamento unitario dalla media dei punteggi). Le conseguenze sul mercato del lavoro sono impressionanti, se si considera che un aumento di una deviazione standard del punteggio dei test cognitivi è associato a un aumento del salario fra il dieci e il venti per cento.
Ma sono solo degli esempi. La letteratura economica lascia pochi dubbi sull’impatto negativo della chiusura della scuola sulla vita futura degli studenti e sull’inasprimento permanente delle disuguaglianze. Per tornare alla pandemia in corso, un team di ricercatori delle Università di Francoforte e della Pennsylvania hanno stimato che la chiusura delle scuole dovuta al nuovo coronavirus porterà a una sostanziale riduzione del benessere degli studenti, quantificabile in una diminuzione media permanente dei loro consumi dello 0,65 per cento. Questo effetto è perfino superiore a quello dovuto alla riduzione del reddito dei genitori a causa dalla crisi, e riguarda soprattutto i figli dei genitori meno abbienti.
In conclusione, la chiusura della scuola può avere effetti di lungo periodo devastanti sulla vita degli studenti, specie di quelli già svantaggiati. Prima di chiudere la scuola bisogna valutare ogni intervento alternativo possibile. Come il potenziamento dei mezzi pubblici, lo scaglionamento degli orari scolastici, la chiusura di attività alternative meno controllabili e meno rilevanti per l’economia nel lungo periodo, il potenziamento della capacità di testing e di tracciamento dei contatti, il controllo del rispetto delle regole dentro e soprattutto fuori dagli edifici scolastici (dove gli studenti più grandi faticano a non assembrarsi e a portare la mascherina).
Non ha senso sacrificare la scuola, un’istituzione fondamentale per lo sviluppo del paese e il benessere delle persone, per salvare (temporaneamente, peraltro) attività a basso valore aggiunto come quelle che, almeno in Italia, si è scelto di privilegiare finora.
La scuola in presenza – Penny
La scuola in presenza è ciò che resta per non affondare nel baratro della solitudine. È ciò che tiene ancorati i ragazzi, le ragazze, i bambini e le bambine alla normalità, al procedere della vita. È lo sguardo rivolto avanti. Al presente. Che non sfugge. È la parete invisibile che li sostiene in un momento di precarietà. Non importa come siano i banchi, che sia insopportabile a volte la mascherina, quel lavarsi le mani costante, ciò che conta è sapere che non sono solo.
È sapere che il futuro sta nel sorriso della mia compagna di banco. In quella battuta, quella lezione in cui qualcuno ha aggiunto un’informazione importante. In quel corpo vicino al mio che mi obbliga a stare qui e ora, a non poter fuggire.
È la mia mano che annota appunti di filosofia, si prepara nervosa per una verifica di matematica, scrive storie fantastiche di maghi e coccodrilli, prende un pennarello e fa uno scarabocchio perché ancora sono piccolo o piccola e non so disegnare.
La scuola in presenza è ciò che resta per sconfiggere la povertà o per lo meno per vederla e provare a farci qualcosa. È quel bambino o quella bambina o quel ragazzo o ragazza che torna a scuola e sta al riparo per sei otto ore quando a casa è successo l’indicibile, quando a casa, magari, non c’è il riscaldamento ma solo stanze buie affacciate su vite buie.
La scuola in presenza è ciò che resta della diversità possibile nell’uguaglianza. La storia personale conta, ci dice da dove veniamo, cosa ci portiamo dietro, di cosa abbiamo bisogno ma in classe abbiamo tutti lo stesso valore.
La scuola in presenza è ciò che resta per non abbandonare gli alunni con disabilità che sono una risorsa inestimabile all’interno di una classe. I ragazzi e le ragazze disabili, a un certo punto, spariscono dall’istituzione scolastica, non si capisce come mai un bambino disabile debba faticare per avere una copertura totale del suo tempo scuola, eppure sarebbe un diritto. Eppure è un bambino, una bambina, un ragazzo o una ragazza. Questo dovrebbe contare.
La scuola in presenza ci tiene ancorati alla vita, ai progetti, a prospettive di continuità.
La scuola in presenza, anche a spizzichi e bocconi, mi ricorda che io sono l’altro, che il mondo non è la mia cameretta, quello schermo a cui dedico il mio tempo. La scuola mi ricorda che l’esistenza è fatta di relazioni. Non permette il confinamento.
Perché dopo il covid, questo è il rischio, che la memoria di lavoro sia brevissima, la capacità di attenzione pure, che i miei bisogni diventino la mia ossessione, che il tempo perda la consistenza dell’impegno.
Che sia più facile bivaccare che aprire un libro e provare a studiare anche qualcosa che non mi piace. Il rischio è non sapere cosa ci piace, non avere un altro adulto, oltre a mio padre e a mia madre che mi dica: dai che ce la fai. Oppure che mi strigli un po’ e mi richiami al rispetto delle regole.
Non conoscere la consistenza della fatica, la gioia del risultato. Non venire a patti con gli altri.
È un rischio non aprire la pagina del diario e non tracciare nessuna scritta colorata della mia squadra del cuore o del mio cantante preferito. È un rischio non vedere nemmeno gli occhi del compagno di banco per ricordarci che in questa battaglia ci siamo tutti e siamo insieme.
La scuola in presenza, anche a spizzichi e bocconi, è quel filo invisibile, quella corda tesa, a cui i nostri figli e le nostre figlie, di qualunque età, possono ancorarsi per non perdersi del tutto. Non confinarsi.
Percepirsi ancora parte di qualcosa.
La scuola in presenza è ciò che resta di noi.
L’istruzione – Elisabetta Frezza
(Testo dell’intervento al convegno Euro, mercati, democrazia… e conformismo EMD 2020, svoltosi a Montesilvano (PE) nei giorni 17 e 18 ottobre 2020)
questa vis riformista, e iconoclasta, che si è abbattuta sull’istruzione italiana ha sortito l’effetto paradossale che la scuola pubblica, nata come straordinario strumento per sollevare le masse dalla ignoranza, si è intestata ufficialmente il compito di assicurare l’ignoranza di massa
La scuola c’entra, eccome, con il conformismo.
In quanto bacino di raccolta e di smistamento delle giovani generazioni, la scuola è un ganglio fondamentale nella edificazione del mondo nuovo degli uguali, obbedienti e pacificati perché cresciuti senza velleità di pensiero. Che la scuola si sia intestata questo compito palesemente antitetico alla propria ragion d’essere è uno dei tanti paradossi che ci sono inflitti nel tempo delle verità invertite, del bi-pensiero e della ubriacatura delle parole in libertà. Un paradosso esiziale della cui esistenza, e soprattutto della cui gravità, pochi si rendono conto.
Per parte mia, consegnerò qualche riflessione che attinge a quello che, in fondo, è il movente che mi ha spinto in questi anni ad approfondire alcuni aspetti legati alla scuola e alla educazione, ovvero l’esperienza diretta come madre di cinque clienti dell’istruzione pubblica italiana distanziati di un triennio l’uno dall’altro: un’esperienza che ho vissuta in una prima fase quasi passivamente ma, dopo un paio di giri di ricognizione, in modo via via più disincantato, non fosse altro che per l’esito impietoso del confronto diacronico tra le varie istantanee scattate allo stesso soggetto lungo l’arco di qualche lustro.
Quella signora un po’ agée, ma ancora piacente e ancora feconda che era la scuola italiana – un tempo ammirata da tutti come modello di eccellenza sulla scena mondiale – si è rapidamente deturpata.
O meglio, come è facile capire, basta grattare appena appena il cerone che le è spalmato in faccia, è stata deliberatamente sfigurata, in esecuzione di un preciso disegno criminoso, per dirla in gergo penalistico. Perché c’è del dolo e c’è del metodo in questa follia autodistruttiva, anche se, come sempre, bisogna distinguere tra diversi gradi di compartecipazione: ci sono i mandanti, pochi, ci sono gli esecutori più o meno consapevoli, ci sono gli utili idioti. E questi sono molti di più.
Fatto sta che di fronte all’evidenza – che è una evidenza empirica – di un tracollo culturale devastante del nostro sistema di istruzione, lanciato all’inseguimento anziché posto a compensazione e presidio di una degenerazione morale e sociale diffusa e sotto gli occhi di tutti – un tracollo avvenuto all’insegna proprio della omologazione coatta camuffata da progresso pedagogico – non si può innanzitutto non soffrire. Poi, occorre farsi qualche domanda sul come questo fenomeno si sia potuto verificare senza intoppi. E alla fine non si può nemmeno assistere inerti all’annientamento seriale dei cervelli e alla loro manipolazione programmata. Tanto più in quanto tutto questo proviene dall’istituzione che più di ogni altra dovrebbe esser responsabile del futuro di una nazione. E dovrebbe guardare a finalità di ordine generale e superiore, di elevazione culturale, di edificazione umana e sociale.
E invece lo Stato è progressivamente arretrato dalla scuola cosiddetta pubblica, per lasciare spazio a un moloc burocratico militarizzato a servizio del capitale privato, e quindi di interessi particolari e obiettivi eccentrici rispetto al bene comune. C’è infatti un consorzio di enti privati formalmente estraneo alle istituzioni, ma ufficialmente acquattato sotto il loro ombrello, che, per le politiche scolastiche, detta la linea ai governi, materialmente scrive le riforme e mette a frutto risorse finanziarie imponenti; si avvale di un apparato burocratico cristallizzato e inamovibile, un esercito di gnomi in servizio permanente, che innerva e presidia le istituzioni centrali e periferiche (dai funzionari ministeriali fino ai singoli dirigenti istituto). È una delle articolazioni del deep state di cui si è parlato in un panel di questo incontro, traducibile con Stato parallelo, o Stato nello Stato, o imperivm in imperio. Esso si avvale anche del contributo fondamentale di quei nuovi oracoli (gli enti di rilevamento quali l’INVALSI, l’OCSE PISA, o gli osservatòri quali Eduscopio della Fondazione Agnelli) che emettono vaticini intimidatori e compilano pagelle e che, di fatto, pilotano flussi di iscrizioni, finanziamenti, programmi; e lo fanno sulla base di verifiche periodiche sia sulle “competenze” e “abilità” degli studenti attraverso quiz a crocette (l’”abilità” richiesta, cioè, è di livello pressoché scimmiesco), sia sulla qualità delle offerte formative delle scuole. Questi test servono, ci dice chi li elabora, «Per valutare in modo standardizzato le performance degli studenti» e «per influenzare le politiche di riforma globalizzando il campo dell’educazione».
Standardizzazione, globalizzazione: queste sono le parole d’ordine, e non c’è molto da aggiungere.
Ed è questo, in estrema sintesi, l’orizzonte che ha ispirato un processo pluridecennale di riforme sulla scuola, tutte accomunate da una stessa identica ratio; processo che si è coronato e ha raggiunto l’apoteosi nell’estate del 2015 con l’epifania della buona scuola renziana, buona appunto per autocertificazione. Una legge fraudolentemente confezionata, furtivamente votata, poderosamente finanziata – evidentemente per la bonifica dei cervelli non si bada a spese – che si è rivelata uno scrigno inesauribile di trovate devastanti modellate sui diktat sovranazionali. Si potrebbe parlare a lungo delle trovate contenute nel lungo, farraginoso e sconnesso testo della legge (dall’alternanza scuola-lavoro, all’orientamento, agli obiettivi formativi prioritari, alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, al metodo CLIL). Qui basti dire, in via generale, che con la legge 107 è stato assemblato un sofisticato marchingegno funzionale a inglobare nell’ordinamento interno – in alcuni casi di soppiatto, facendolo entrare da una porticina di servizio attraverso un gioco di rinvii plurimi, concatenati e permanenti (cioè fatti per recepire in modo automatico e continuativo quanto elaborato in sede extra-parlamentare) – tutto quanto viene sfornato senza tregua dalle tecnocrazie europee. Cioè dal mostro burocratico senza volto e senza responsabilità i cui pronunciamenti in materia di istruzione non sono di per sé vincolanti per gli Stati membri, in teoria, ma nei fatti lo diventano per via del ricatto economico.
L’UE, dal canto suo, ci manda a dire attraverso le sue martellanti risoluzioni, che «crede fortemente nel potenziale trasformativo dell’istruzione». E come darle torto.
Dunque, è su un cumulo di macerie che si è abbattuto il meteorite chiamato Covid. Un virus assai controverso, ma a quanto pare provvidenziale per permettere di instaurare, e perpetuare sine die, uno stato di emergenza che serva a impunemente calpestare le garanzie costituzionali e a deprimere le libertà fondamentali.
Il regime sanitario ha investito di prepotenza anche la scuola imprimendo una svolta inquietante all’addestramento precoce alla vita in schiavitù. Lo Stato poliziesco – lo Stato democratico poliziesco – si appropria manu militari dei suoi sudditi in erba per crescerli ligi, uguali e obbedienti. Lo fa imponendo loro l’isolamento, fisico e psicologico; un controllo sanitario sempre più stringente; un penetrante, sinistro condizionamento ad assumere comportamenti conformi, quasi rituali, un po’ come tante scimmiette addestrate. L’arma vincente è la minaccia dell’esclusione dei non conformi, per indegnità, dal gruppo dei pari e dal consesso civile.
Tutto questo, chiaramente, fa il paio con l’opera risalente di annichilimento culturale e di sistematico immiserimento del sapere; che tra l’altro si realizza anche attraverso la normalizzazione della scuola digitale: i banchi a rotelle non sono altro che un modo, obliquo e surrettizio, per imporre e consolidare questo modello.
Non per niente l’UNESCO, riferendosi alla scuola dell’emergenza, l’ha significativamente decantata come «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»: siamo di fronte, ce lo dicono apertis verbis, a uno straordinario esperimento di ingegneria sociale condotto sulle nuove generazioni, realizzato attraverso le istituzioni, apparecchiato dalle élite globalizzanti che aspirano ad annientare gli anticorpi di un’intera società procurandosi individui fabbricati in serie, monocromi, monofoni, possibilmente anche unisex. Privi di ogni coscienza identitaria.
È fondamentale tenere presente come il recente shock– che comunque ha avuto come effetto collaterale: quello di accendere i riflettori su una scuola che fino a ieri si era deteriorata col favore del buio – abbia dato il colpo di grazia a un edificio fatiscente di cui restava in piedi ormai soltanto la facciata. Perché l’opera di demolizione si è dispiegata per decenni sottotraccia e nell’acquiescenza dei più.
Come è possibile che non ci sia stata una reazione adeguata allo scempio? Innanzitutto ha contribuito la suggestione del nuovo (che, per la vulgata, è buono per definizione, a prescindere da ogni giudizio assiologico); poi, il ben noto ruolo eversivo del lessico, che sappiamo essere fondamentale per sovvertire qualsiasi paradigma: il mondo della scuola batte una vera e propria lingua parallela, fatta di un repertorio di formule di ordinanza, che intesse e permea tutte le fonti, dalle leggi, ai decreti, alle circolari, fino ai PTOF, ai documenti di valutazione. È un metalinguaggio esoterico, performativo, osceno – che dovrebbe urtare in primo luogo il senso estetico di chi abbia nell’orecchio i bei suoni e sensati della propria lingua madre – ma che tutti si trovano ormai a ruminare con disinvoltura finendo per entrare, tutti, in risonanza, chiusi a chiave dentro una surreale gabbia onomastica.
Ma a rallentare la percezione della rovina ha contribuito anche l’inerzia di un sistema dalle solide fondamenta umane, grazie a docenti di valore che, nel loro orto, hanno continuato a seminare bene avendo la preparazione e la vocazione per farlo, e anche la abnegazione per resistere al trattamento degradante riservato alla categoria (e non ci si riferisce solo e tanto l’aspetto economico, quanto alle consegne burocratiche vessatorie, ai demenziali corsi di formazione e di aggiornamento, o ai meccanismi premiali che favoriscono solo chi si presta a fare la parte dell’imbonitore, dell’animatore da villaggio vacanze, del guitto da cabaret). Per quanto bisogna prendere atto che oggi questi maestri superstiti sono sempre più isolati, perché anche la loro è una specie in via di estinzione visto che nel frattempo la stessa università, programmaticamente svuotata della cultura, è per lo più adibita alla produzione massiva di analfabeti di grado superiore.
Come sanno dunque bene a Bruxelles, espugnare l’educazione vuol dire accaparrarsi il futuro. Garantire agli scolari un sicuro e confortevole stato di analfabetismo serve a forgiare materiale umano standardizzato, conforme e obbediente. Svirilizzato, privo dell’attitudine al combattimento e quindi incapace di reagire al proprio annientamento programmato. Individui appagati dalla astratta titolarità del proprio “diritto al successo formativo”, dalle proprie “competenze permanenti” (certificate da qualche diploma rilasciato a norma europea), dall’imparare a imparare senza nulla ritenere, e da tutto il resto del ciarpame di formulette beote inventate per distorcere e stravolgere il senso della scuola e la sua stessa ragion d’essere.
Ecco perché è stato smantellato pezzo per pezzo un sistema scolastico che aveva il grave difetto di funzionare a dovere (non per nulla era concepito da un fior di filosofo), ed è stato sostituito da un impianto a impostazione aziendalista e mercatista (assicurata dal principio portante dell’autonomia scolastica) che, nel giro di pochi anni, ha reso la scuola un incrocio tra un luna park e un laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva, trasformandola così in una parodia di se stessa. Grazie anche – purtroppo – alla collaborazione delle varie parti in causa, genitori in primis, attratti dagli effetti speciali che fanno impennare gli indici di gradimento: più progetti psichedelici e più distrazioni variopinte compaiono nei PTOF, più premiano la scuola al passo con i tempi, e pazienza se i tempi sono barbari. Quanto ai docenti, assistono pressoché inerti, passivi, rassegnati, al proprio umiliante esautoramento e tutt’al più si agitano per qualche rivendicazione sindacale.
Lo svuotamento culturale della scuola italiana si realizza attraverso una vera e propria sostituzione dei contenuti – aliud pro alio si dice nella disciplina dei contratti: al posto delle discipline fondamentali, al posto dei mattoni della conoscenza – detti anche nozioni, che non è una parolaccia come vogliono farci credere, ma deriva da nosco, che è l’atto del conoscere – le ore curricolari sono rimpinzate di contenuti usa e getta ad alto tasso ideologico, sempre in linea col monopensiero obbligatorio. Le lezioni nelle materie fondamentali cedono il passo a un profluvio di pseudo-educazioni, di progetti ricreativi, talvolta peraltro fastidiosamente e abusivamente invasivi della sfera più intima e personale dei soggetti in via di formazione, con il correlativo esautoramento della famiglia dal suo fondamentale primato educativo: si badi, anche la scuola certamente educa, ma educa istruendo, la sua deve essere una educazione mediata. Tutte queste attività assortite spesso e volentieri viaggiano in groppa ad altrettanti “esperti” esterni al corpo docente, figure non istituzionali che sfuggono a qualsiasi controllo e responsabilità.
Ma cosa comporta la somministrazione di una macedonia di contenuti evanescenti, per lo più peraltro di pessima qualità? Che agli studenti si dà una spolverata di tutto, la dispersione ha la meglio sull’approfondimento, si deprime sul nascere ogni tentazione analitica e ogni anelito speculativo, di fatto ogni vero esercizio intellettuale. La superficialità e l’approssimazione vengono erette a sistema e vengono acquisite come metodo di lavoro.
E così la scuola è ridotta a un gigantesco asilo. Come sostiene per esperienza diretta un mio amico bellunese che ha insegnato nei vari ordini e gradi di scuola: «un insegnante che negli scorsi anni fosse passato dalle elementari alle superiori, transitando per le medie, avrebbe visto la scuola elementare corrergli dietro: l’intero sistema infatti ha recepito dalla scuola elementare, e in tempi rapidissimi, un’attenzione spasmodica alla didattica modellata su quella delle elementari» (Emilio Da Rold, De vindicanda humanitate libellus).
Insomma, assistiamo a un imponente processo di infantilizzazione di massa, che investe anche la formazione accademica. Nelle stesse università colpisce la tendenza, che è diventata un imperativo, alla semplificazione sempre e comunque: lo sforzo è bandito, deve essere risparmiato a questi giovani che si dice siano tanto svegli, ma nel contempo li si considera altrettanto incapaci di impegnare l’attenzione, la concentrazione, la memoria (la tanto vituperata memoria), disabituati come sono a quella fatica che è parte integrante dello studio. Una volta si preparavano esami ponderosi e nessuno è morto per questo, ora pare gli studenti non siano più in grado di sostenere l’impresa e debbano per forza rendere conto del programma a pezzi. Ma frammentare la preparazione, ad esempio (parlo per la mia facoltà), di un diritto privato, o penale, o di una procedura, al di là forse di un sollievo immediato, provoca un danno importante: impedisce a chi studia di guadagnare uno sguardo di insieme, di cogliere i collegamenti tra i vari istituti, e dunque di percepire il sistema, di farlo proprio e di essere in grado di dominarlo con gli strumenti della logica. E tuttavia pare ormai essere una strada obbligata perché sennò si flette l’indice di gradimento, si perdono iscrizioni, punteggio, ribalta, finanziamenti, e un po’ alla volta la facoltà che intenda mantenere una impostazione rigorosa è condannata alla morte per asfissia.
La damnatio memoriae della scuola di matrice gentiliana è stata politicamente orchestrata nel nome di una malintesa democratizzazione. A simbolo della missione riformatrice è stato eletto quel don Milani, teorico della scuola egualitaria – nel senso di votata a conseguire l’uniformità dell’ignoranza – che, idolo mai tramontato dei maestri di fede giacobina, si è rivelato essere la cerniera perfetta, in materia pedagogica, tra il progressismo laicista e il progressismo parareligioso, già attratti l’un l’altro da molte affinità elettive. Abbiamo visto come, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del prete di Barbiana, sia stata orchestrata una imponente operazione mediatica che lo ha celebrato, universalmente e trasversalmente, come modello pedagogico: «educatore appassionato per una scuola aperta e inclusiva» suonava l’epitaffio che gli è stato dedicato, identico, sia dall’allora ministro Fedeli sia da Bergoglio, in quella straordinaria corrispondenza di amorosi sensi tra i due che si è manifestata in molte altre occasioni, a partire dal libro scritto a quattro mani sulla scuola che ha mutuato il titolo da una delle formulette tratte dal nuovo pedagogismo di maniera: imparare a imparare.
Ma questa vis riformista, e iconoclasta, che si è abbattuta sull’istruzione italiana ha sortito l’effetto paradossale che la scuola pubblica, nata come straordinario strumento per sollevare le masse dalla ignoranza, si è intestata ufficialmente il compito di assicurare l’ignoranza di massa.
Del resto la deculturazione è una chiave di sottomissione. È tanto più vero oggi che il martellamento mediatico, alimentatore di superstizioni inscalfibili, ha definitivamente cancellato anche il senso comune, inteso come comune buon senso, che una volta era preservato agli esseri pensanti e affezionati al principio di realtà, anche non acculturati.
Chi è culturalmente depresso (ma non lo sa perché è solidamente indottrinato) non è in grado di turbare o intralciare le simmetrie del potere, perché è strutturalmente incapace di decifrare e interpretare i fatti e i loro nessi causali, la loro genesi e le loro conseguenze. Fluttua nell’eterno presente ipertecnologico e omogeneizzato, ed è una docile rotellina di un ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei ritornelli ipnotici creati apposta per scardinare la verità delle cose e far perdere alle masse la percezione della realtà.
Dal canto suo, chi ha in mano il telecomando sa benissimo che è la prima cosa da fare è diserbare il campo perché non vi cresca più il pensiero, perché si atrofizzi la memoria e possano regnare incontrastati il vuoto delle idee e la fuga dalla realtà. Il vuoto infatti si può riempire agevolmente con qualsivoglia contenuto funzionale al potere costituito.
Questo della deculturazione, peraltro, è un fenomeno che si intreccia con altri che sono sotto i nostri occhi e stanno rapidamente sovvertendo ogni aspetto dell’ordine sociale ancora esistente: si intreccia con la dissoluzione della sovranità dello Stato (inteso come res publica, letteralmente come “cosa pubblica”); si intreccia con la demonizzazione della idea di patria (cioè terra in cui si è nati e che ospita le ossa dei padri, qualcosa che ha a che fare con un legame viscerale e primitivo, con un sentimento spontaneo e irriducibile di appartenenza al luogo dove è sedimentato un patrimonio comune, etico, sapienziale, estetico:); e tutto questo si intreccia con il fenomeno imponente della sostituzione di popolo. Infatti, da un lato è evidente come l’importazione massiva di esseri umani imponga la dismissione della nostra cultura (non è facile insegnare il dolce stil novo a classi interamente allogene) e, d’altra parte, è proprio la dismissione culturale il presupposto necessario per far subire agli autoctoni l’invasione programmata senza che oppongano alcuna resistenza. Perché soltanto un popolo già fiaccato nel proprio radicamento identitario può farsi terreno di conquista o di rapina senza vendere cara la pelle.
A questo sistematico sradicamento e livellamento gli scolari sono sottoposti da lungo tempo, attraverso appositi strumenti pensati e implementati per indottrinarli tutti con lo stesso becchime e anche – in seconda battuta – per sventare il rischio che qualche pollo dell’allevamento intensivo globale ceda alla tentazione di guardare oltre la propria stia.
Nella scuola delle competenze e delle abilità che hanno soppiantato le conoscenze, dove si plasma l’homo novus e faber, il saper fare ha sostituito il sapere, il bambino deve essere infilato il più precocemente possibile nel tubo specialistico selezionato per lui, senza prese d’aria né uscite di sicurezza; gli studiosi e i contemplativi sono banditi dal sistema per manifesta inutilità. Paradigmatica è la mortificazione della storia, in particolare quella antica (a fronte dell’enfasi posta sulla preistoria), a partire dalle elementari – si preferisce l’appiattimento sulla attualità, che è asservita alla cronaca e quindi alla propaganda – così come della filosofia e della storia del pensiero, a partire dalle sue origini; così come, ancora, è paradigmatico l’attacco sistematico sferrato alla formazione classico-umanistica che, attraverso l’indagine sull’uomo, la sua indole, il suo passato, la sua natura spirituale, la sua vocazione e il suo destino, rischia di fornire al discente gli strumenti necessari per acquisire un grado di consapevolezza un po’ eccessivo per chi è chiamato a essere non tanto un uomo e un cittadino (come voleva l’antica paideia), quanto un suddito modello.
Ma così si spiega anche l’erosione della nostra lingua: sia lo svilimento di tutti i suoi aspetti culturali, storici, letterari, sia la semplificazione del lessico, favorita anche dall’uso massivo degli strumenti multimediali e dalla ipertrofia dell’inglese (che poi non certo quello di Shakespeare, ma è quello del mercato e del supermercato). È evidente che, perduto ogni rispetto per il proprio passato e per la custodia della propria tradizione culturale, perde ogni significato anche il dominio della propria lingua: la colonizzazione linguistica e culturale che gioiosamente e masochisticamente ci stiamo autoinfliggendo non è altro che un rinnegamento della nostra identità che si esprime nella lingua madre: la lingua che ci fa da madre, letteralmente, un idioma ricco come pochi di storia e di bellezza espressiva, che racchiude una civiltà intera, la quale è vissuta e vive dentro la sua lingua.
Al posto di tutto questo ben di Dio, c’è però il pacchetto delle famose competenze trasversali (soft skills), che investono trasversalmente (appunto) tutte le materie e influenzano le relative valutazioni; cioè, offrono uno strumento di valutazione tanto appuntito quanto inafferrabile e quindi arbitrario e soprattutto avulso e disancorato dalla materia di studio della cui preparazione, in teoria, si tratta di valutare: l’insegnante ha tra le mani un criterio di giudizio che può convertirsi a piacere, e impunemente, o in un plusvalore repressivo con cui tenere in pugno gli alunni magari eccellenti ma non allineati o, viceversa, in premio gratuito per il somaro che sia dedito al conformismo ideologico.
Mutatis mutandis, lo stesso retrogusto “totalitario” si percepisce nella insistenza sulla centralità del gruppo, sul (così definito dagli “esperti”) “benessere gruppale”: una vera e propria mistica del gruppo classe, che per definizione deve essere concorde e omogeneo. Un altro appello a conformarsi: nella comunità scolastica irenista e omogeneizzata il dissenso è istituzionalmente bandito, non c’è spazio per chi la pensa in modo divergente.
Ma pensiamo anche al totem della “educazione alla legalità”. Una parola magica, che emette un suono rassicurante e in apparenza incontestabile, ma che in realtà nasconde un equivoco insidioso, e per nulla casuale, perché funzionale a inculcare l’ossequio incondizionato alla legge, ovvero a tutto quanto venga sancito, secondo i riti del sistema democratico (ormai sono superflui anche quelli, in tempi di DPCM selvaggi), dalla autorità costituita. Ma dietro la legalità, dietro l’ossequio alla giuridicità formale, viene oscurata e assorbita l’idea di giustizia e il suo valore sostanziale, che ha a che fare con principi oggettivi e resta superiore a qualsiasi legge positiva. Lo dimostra il fatto che le leggi ingiuste esistono e occupano proprio lo spazio in cui la giuridicità formale non si sovrappone alla giustizia sostanziale: sono un fenomeno ricorrente, che ha costellato la storia delle comunità umane, dalla polis antica agli Stati moderni. Ma se la storia ci ha insegnato qualcosa, a partire da Antigone, le leggi ingiuste non vanno obbedite, vanno combattute. La legalità, invece, quale oggetto di culto scolastico, e non solo scolastico, tende invece a instillare la deferenza al potere e la fiducia cieca nell’infallibilità dell’istituzione.
Si può vedere bene da questi esempi come la scuola non sia più chiamata a richiedere conoscenze verificabili, ascrivibili al proprio magistero e organiche alle materie di insegnamento, ma è chiamata sempre più, attraverso i suoi occhiuti emissari o i suoi esperti, a descrivere comportamenti, a scrutare atteggiamenti, a imporre stili di vita e modi di pensare conformi.
Perché, nel tempo di tutte le libertà, abbiamo conquistata una cassaforte piena di obblighi inderogabili. Dentro questa cassaforte c’è il pensiero obbligatorio che copre ogni ideale e ogni esigenza di ragione. Nello specifico, ci sono l’eurofilia e più genericamente l’esterofilia, l’immigrazionismo, lo scientismo, il darwinismo, l’ambientalismo sub specie mondialista (Greta per intendersi, e Pachamama), l’antirazzismo, l’omofilia, i genderismo, e tanto altro ancora, tutto rigorosamente obbligatorio.
Un repertorio dogmatico che ora è assorbito in blocco dentro il contenitore della educazione civica, nuova materia curricolare obbligatoria a partire dalle elementari, che sfrutta una etichetta familiare, che suona bene, per trasportare tutti i macromotivi delle ideologie in voga: condivide solo il nome di battesimo con la vecchia educazione civica che era ancillare alla storia e riguardava i rudimenti del diritto costituzionale. Ora è imperniata fondamentalmente, oltre che sulla cosiddetta cittadinanza digitale (che non manca mai), sull’Agenda ONU 2030 (articolata in 17 goal, cioè obiettivi), per fornire in dotazione a tutti gli scolari, a partire dalla più tenera età, il prontuario dei diritti e dei doveri del bravo ominide omologato, ovvero tutta quella paccottiglia mondialista che serve a forgiare masse di incolti, e obbedienti, senza storia, senza radici, senza vera formazione umana, ma che sanno di tecnologia, di imprenditorialità, di rifiuti riciclabili, e di altre “abilità” assortite. Una umanità conforme, invertebrata, perfettamente fungibile e perciò in via di rapida sostituzione. (Probabilmente, tra i doveri del bravo cittadino globale sarà presto incluso anche l’esercizio della delazione, come nuova virtù civica richiesta nella democrazia panottica che arruola gli informatori di Stato per fare piazza pulita degli untori/dissidenti).
È significativa l’insistenza dei programmi sulla “cittadinanza globale”, un ossimoro persino ridicolo. Cittadino è colui che abita la polis, che abita lo Stato, che è parte cioè di un tessuto omogeneo e che per questo è anche orgoglioso difensore della propria terra. Adesso l’illusionista collettivo, con uno dei suoi giochi di prestigio, ha sostituito la polis con la cosmopoli, che semplicemente è un non-luogo, in cui nessuno è nato, in cui nessuno è cresciuto e che nessuno conosce, ma in cui ognuno deve essere disperso, una bolla dell’indistinto creata strategicamente per contenere l’apolide, che è per l’appunto il non-cittadino.
L’obiettivo dell’ONU è quello di creare cittadini globali, liquidi, anzi gassosi, e di «fare del sistema di istruzione uno dei principali agenti di cambiamento per gli obiettivi dell’Agenda 2030» in un’ottica di LifeLongLearning (cioè apprendimento permanente, cioè treeLLLe). La nuova educazione civica risponde proprio a questo richiamo.
Ma i goal dell’agenda sovranazionale sono gli stessi goal che oggi si fregia di inseguire anche la chiesa, la chiesa che fu cattolica e ora si è definitivamente e felicemente convertita alla religione unica di Bruxelles, dell’ONU e dei suoi magnati.
È in atto un’opera poderosa e meticolosa di omogeneizzazione pilotata dei valori di riferimento: nel sistema di pseudo-valori artefatti, farlocchi, ma orecchiabili e a buon mercato propri della teologia onusiana sono confluiti senza sforzo i cascami del cristianesimo contraffatto e così il tutto può assumere, per tutti, il volto rassicurante della cosa buona, giusta, moralmente edificante, apparentemente cristiana.
Siamo di fronte alla saldatura ormai ermetica tra le tecnocrazie sempre più clericalizzate e la neochiesa ormai completamente despiritualizzata, sotto l’insegna del “nuovo umanesimo”, concetto gesuitico – chiave di volta del magistero orizzontale bergogliano – intorno al quale è ruotato il discorso di insediamento del Presidente del Consiglio nella sua seconda versione. Oramai queste due galassie sono una cosa sola, parlano la stessa lingua, inscenano le stesse liturgie, inseguono gli stessi identici obiettivi e si spartiscono la stessa torta. In sostanza, professano la stessa fede.
Puntano insieme, guardacaso, a conquistare il monopolio della educazione.
Questa santa alleanza è suggellata nel grande evento che era in programma per lo scorso maggio in Vaticano, ma che poi, a causa della emergenza sanitaria, è slittato al 15 ottobre convertito in modalità “a distanza”: in un videomessaggio urbi et orbi Bergoglio ha invitato tutte le persone di buona volontà ad aderire al Global Compact on Education, cioè al patto educativo globale definito nella nuova lingua sacra che ha sostituito il latino, «per generare un cambiamento su scala planetaria» in nome di: ecologia integrale, pace e cittadinanza, fraternità e sviluppo, inclusività, sostenibilità, resilienza, e (come poteva mancare la nota metafora edilizia) ponti e non muri.
Ecco quindi che il capo della chiesa postcattolica mette a tema la necessità di «ricostituire il patto educativo globale per costruire il futuro del pianeta», come da decalogo mondialista risultante dal combinato disposto della Agenda ONU 2030 e della enciclica Laudato sì, che non sono altro che due facce della stessa medaglia. Ora, per non farci mancare niente, abbiamo anche Fratelli Tutti.
È nello scenario sopra descritto che si è verificato ora un ulteriore cambio di passo. La scuola oggi è diventata il banco di prova per l’esercizio di poteri tanto arbitrari quanto incontrollabili, in cui si rispecchia l’immagine di una politica minacciosamente scivolata verso il sopruso istituzionalizzato. Saltata la gerarchia delle fonti del diritto e saltato il principio di legalità della azione amministrativa, siamo all’assurdo che una linea guida o un DPCM (che non esiste in rerum natura, ma è un monstrum uscito dal cilindro del sovrano) valgono più di una legge e della stessa Costituzione.
In questa giungla, dove vige la legge del più forte, chiunque senta di avere una fettina di potere da esercitare, e sia sprovvisto di scrupoli e della riserva aurea del pensiero, viene subito contagiato dalla sindrome del kapò – che ha trovato terreno fertile nella rete burocratica delle scuole – capace di degenerare in un senso di rivalsa foriero di una vera e propria libidine di comando e di prevaricazione. In un virtuosismo di demenza e di prepotenza di fronte al quale la maggior parte delle persone, suggestionata e intimidita dal piglio e dalle formule autoritarie brandite, mette da parte ogni possibile reazione che il buon senso dovrebbe suggerire.
È l’occasione d’oro per portare a compimento il piano di smantellamento della scuola come luogo della relazione vitale e fertile che lega chi insegna e chi impara e i discenti tra loro. Attraverso la smaterializzazione dei processi di apprendimento e la loro deformazione per mezzo dell’artificio telematico, l’educazione si sterilizza e si disumanizza: la macchina si sostituisce al rapporto umano, lo schermo al libro, la tastiera alla penna.
L’alunno si trasforma in paziente, dipendente dalla protesi tecnologica, in predicato di diventare una sorta di automa addestrato ad obbedire alla macchina che gli è assegnata in dotazione (in attesa che questa prenda definitivamente il sopravvento; e col pericolo concreto, per i più piccoli e indifesi, di diventare preda inerme di ogni sorta di rapina morale). Sulla stessa università, trasformata in un ectoplasma, è calato un silenzio tombale.
Ma non basta. Il sistema vuole adesso che l’alunno diventi anche un paziente clinico sotto osservazione permanente dei funzionari della sanità, alleati con le autorità scolastiche. Lo stato di salute dello scolaro è affidato alle strutture preposte, che vestono la divisa dell’“esperto”, prima e magari in sostituzione della famiglia, la quale rischia di essere posposta o esautorata per presunte esigenze di salute pubblica, o per il miglior interesse (best interest) del minore stesso. Con il risultato che questi è ridotto a materiale di laboratorio, cavia degli esperimenti di cui sopra (UNESCO) ed è mascherato, tamponato, tracciato, vaccinato, pena il divieto di accesso e l’emarginazione dal gruppo dei pari.
Privato, tra l’altro, di quelle sicurezze e di quei punti di riferimento che sono anche le sue difese naturali, in primis la sua famiglia. E fa anche questo parte del piano.
A questo punto, una volta creati eserciti di individui isolati, indifesi e ostaggi fissi del dispositivo elettronico, l’obiettivo di controllarli, manipolarli, eterodirigerli è chiaramente a portata di mano. La propensione alla conformità non si presenta nemmeno più come una disposizione acquisita, vuoi per attitudine vuoi per costrizione, ma viene proprio inserita nel sistema operativo dell’individuo, impastata insieme alla sua stessa personalità in via di formazione.
Del resto, è l’ossessione del controllo ciò che connota il nuovo totalitarismo democratico, che ha assunto oggi la forma arcigna del biototalitarismo. E qui è d’uopo una breve digressione fantascientifica – ma fantascientifica solo in apparenza, perché di fatto è tutto già realtà anche se quasi nessuno se ne accorge e ne valuta le ricadute devastanti.
Abbiamo visto come il conformismo sia inoculato per via educativa a mezzo scuola, ma è dietro l’angolo un altro tipo, ancor più penetrante, di conformismo, addirittura genetico. Le nuove tecniche faustiane di ingegneria eu-genetica che sono intimamente e inscindibilmente connesse con la fabbricazione dell’uomo in laboratorio – il grande affare della provetta, della fecondazione in vitro – non fanno altro che programmare i connotati dell’essere umano direttamente nella fase preimpianto, su modello zootecnico. Già abbiamo i bambini aids-free, come le famose gemelline cinesi nate nel 2019 geneticamente modificate con la tecnica CRISPR (cioè il procedimento biotecnologico di taglia e cuci molecolare con cui viene tagliato il DNA, vengono sostituiti dei geni, i cosiddetti geni bersaglio, e poi viene ricucita la catena genetica). Un co-scopritore del CRISPR, George Church, lo ha detto a chiare lettere che «fare il bambino con il CRISPR sarà come vaccinarlo». La provetta cioè, di fatto, può diventare come una sorta di vaccino preventivo incorporato nel procedimento di fabbricazione del manufatto umano, in modo che questo possa essere consegnato all’aspirante genitore insieme al relativo certificato di garanzia: prodotto immune all’HIV, al morbillo, alla meningite, al Covid, ma anche, per esempio, dotato di ossa indistruttibili, o di orecchio assoluto. Del resto, nel mondo anglosassone la selezione dei bambini con gli occhi azzurri è già oggi realtà commerciale (cioè: si scartano gli embrioni che alla diagnosi pre-impianto risultano con probabile occhio marrone). Di fatto, cioè, stiamo consegnando ai signori delle farmaceutiche il controllo di qualità e di quantità sulle nostre vite, presenti e future.
In cambio dell’illusione di ottenere il figlio perfetto, munito dei connotati scelti da catalogo, liberato a priori da una lista di malattie e affrancato dai rischi connessi alla lotteria della natura, in cambio di questa illusione, cediamo il rubinetto della vita alle multinazionali del farmaco e ai filantropi che le controllano, che possono accenderlo o spegnerlo a piacimento, e condurre impuniti i loro esperimenti eugenetici al riparo del mito scientista. L’agenda stabilisce che la procreazione, da naturale, deve pian piano diventare sintetica. Cioè de-sessualizzarsi (il sesso viene relegato a funzione ricreativa, ma sterilizzato) e spostarsi verso il paradigma della “fertilizzazione” come nella zootecnia (con relative selezioni e manipolazioni tecnologiche). Edwards – lo scienziato che ha conquistato il Nobel per la medicina per aver fatto nascere la prima bambina concepita in provetta, Louise Brown (1978), che quando è morto, nel 2013, contava già qualche milione di “figli” virtuali – preconizzava compiaciuto che «presto sarà colpa dei genitori avere un bambino portatore di disordini genetici». Vale a dire che la normalizzazione della provetta deve gradualmente portare verso la demonizzazione della generazione naturale. Il nostro ministero della salute diceva della FIVET che «nata come risposta terapeutica a condizioni di patologia specifiche e molto selezionate, sta forse assumendo il significato di un’alternativa fisiologica». E “alternativa fisiologica” è il passaggio che precede appena la “scelta obbligata”: la procreazione naturale, quella affidata alla roulette russa della natura, diventerà un rischio assurdo e correrlo sarà ritenuta una scelta irresponsabile, da persone civilmente ineducate e anche un po’ egoiste perché oggi il progresso è in grado di tecnicamente eliminare gli imprevisti e di esaudire ogni desiderio attraverso la riprogenetica, sterilizzata e selettiva, quella che produce e consegna designer babies su ordinazione, chiavi in mano e in garanzia.
E così l’uomo si derubrica a manufatto di precisione, a prodotto industriale come un altro, soggetto alle regole del mercato e alla logica del profitto, diventa un codice a barre, monade senza identità, privata persino delle radici di un padre e di una madre, di un grembo e di una famiglia, spezzandosi quella catena che, da che mondo è mondo, lega insieme le generazioni.
Digiuno di cultura, di logica, di storia e di bellezza, il nuovo ominide globalizzato e informatizzato, che emette suoni sconnessi, comunica a mezzo emoticon e fluttua nell’eterno presente e nello spazio virtuale della cosmopoli, ma solidamente educato alla legalità, e quindi pronto a obbedire a ogni ordine autoritativo senza chiedersi alcun perché, costui coopererà felice alla liquidazione fallimentare della straordinaria civiltà a cui, inconsapevole, appartiene, nell’inerzia di quanti dovrebbero avere interesse a frenare lo scempio, di sicuro ne hanno la responsabilità.
Ma l’Italia, erede privilegiata di una storia più che due volte millenaria, è terra di elezione di un patrimonio spirituale fatto di pensiero, di lingua, arte, scienza; fatto di una storia tramandata, di una cultura sedimentata, di una identità di sangue e di terra in cui riconoscersi.
Ovvero, di tutti quegli ingredienti che, soli, possono fare da contrappeso alla miope e disumanizzante prepotenza della tecnica, e da vero antidoto all’imbarbarimento – di linguaggio, di pensiero, di costumi – travestito da progresso; ingredienti che, per questo, vanno difesi a tutti i costi contro il delirio di onnipotenza dei signori apolidi del globalismo che stanno tentando sull’Italia, con inusitato accanimento, i loro esperimenti di ingegneria sociale con l’obiettivo di aspirare l’anima di un popolo e di dissolvere una immensa civiltà.
Gli italiani non dovrebbero far altro che riscoprirsi degni custodi di tale patrimonio, il che implica la fatica di studiarlo e conoscerlo, per custodirlo e per trasmetterlo alle generazioni a venire. È solo da qui che potremo giocarci la rimonta. «Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza».
Passerà questa sbornia, e qualcuno prima o poi dovrà pur ricostruire qualcosa sulle macerie di una società rimasta senza più forza di ragione. Per questo, credo sia necessario predisporci fin d’ora a fare ciò che molto icasticamente diceva Guareschi in uno dei passaggi più belli della saga di don Camillo: di fronte al mondo che corre rapido verso la propria autodistruzione e all’uomo che dissipa il patrimonio spirituale che in migliaia di anni aveva accumulato, bisogna fare ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme (letteralmente!). «Se il contadino avrà salvato il seme, quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza».
Per tornare a noi, questo significa trovare il modo – prima che sia troppo tardi, cioè finché c’è ancora qualcuno che sia in grado di farlo – per continuare a trasmettere alle nuove generazioni la ricchezza di uno straordinario patrimonio culturale, quel sapere dalle radici profonde che non trova più spazio nei templi abbruttiti del pensiero usa e getta, delle idee effimere e della omologazione coatta; quel sapere che, invece, produce frutto nel tempo e aiuta a sviluppare liberamente le proprie risorse intellettuali e morali, insieme a una adeguata attitudine critica e a una conoscenza non superficiale delle cose: che è capace di offrire, cioè, gli strumenti speculativi indispensabili per abbracciare la realtà, interpretare il presente e affrontare il futuro attrezzati come si conviene, perché è più che mai necessario esserlo, oggi, attrezzati.
Occorre in conclusione trovare ad ogni costo, nella palude del conformismo deteriore che ci affligge e che ci sta soffocando, il modo per formare ancora delle menti libere e, in quanto libere, capaci di essere fieramente antagoniste.
Si sta preparando la fine dell’università? – Luca Gammaitoni
La domanda potrebbe apparire retorica ma, credetemi, non lo è. Me lo chiedo mentre attraverso camminando la galleria del rettorato all’Università di Perugia e vedo distrattamente le splendide iscrizioni etrusche inglobate nel muro. Istituzioni come questa, in Italia e in Europa, negli ultimi settecento anni hanno costituito i pilastri della civiltà, formando le classi dirigenti e orientando le politiche di sviluppo del pianeta.
Sarà così anche in futuro? Non è scontato. Ho appena letto dell’iniziativa lanciata da Google per fornire corsi di formazione online della durata di 3-6 mesi al termine dei quali si ha un certificato, considerato dai reclutatori di Google equivalente a un corso universitario di quattro anni tradizionale (Google Career Certificates, 14 luglio 2020). L’iniziativa di Google segue l’annuncio di Microsoft (Global skills initiative, 30 giugno 2020) che fornirà, entro quest’anno, «nuove abilità digitali» a venticinque milioni di americani per consentire loro di superare la crisi da Covid-19.
A prima vista le due iniziative potrebbero sembrare un’ottima cosa: i grandi della tecnologia si fanno avanti per aiutare chi ha perso l’occupazione e fornire «nuove abilità digitali», che sono necessarie per trovare un nuovo lavoro. In realtà, come osserva lucidamente David Leibowitz sulle pagine di Medium.com, dove ha scritto un pezzo intitolato You Don’t Need College Anymore, Says Google (“Non hai più bisogno dell’università, dice Google”), si tratta del colpo mortale che potrebbe affossare definitivamente un sistema universitario già in crisi. Secondo il National Student Clearinghouse Research Center, per gli Usa si parla di declino ininterrotto negli ultimi otto anni, con l’11% di studenti in meno.
Anche in Europa, soprattutto con il Covid-19, le cose non vanno benissimo e il briefing dell’Economist dello scorso 8 agosto suona l’allarme per i college inglesi che devono fronteggiare la diserzione degli studenti stranieri a motivo delle limitazioni di viaggio: fino a cinquantamila dollari persi per studente. Se il resto del mondo piange, in Italia certo non possiamo ridere. L’attesa sui dati delle immatricolazioni è caratterizzata da un generale pessimismo che prevede fino a un possibile 20% di calo. Quasi tutti gli atenei si stanno dotando di infrastrutture di comunicazione per poter erogare anche corsi online.
Sebbene questa sia una misura ragionevole, io penso invece che investire troppo su questo tipo di formazione rappresenti una mossa sbagliata. Innanzitutto, per quanto ci si possa attrezzare, non si raggiungerà il grado di professionalità dei corsi online del Mit o di quelli della già citata Coursera. Al massimo, come università tradizionali, potremmo offrire un prodotto che è una pallida imitazione di questi. Il secondo e più importante motivo per cui sarebbe sbagliato, è perché in questo modo si avvalora l’idea che l’università sia soltanto un modo per fornire contenuti informativi a utenti paganti.
Ricordo ancora l’interessante dibattito a cui fui invitato quindici anni fa circa, all’Università di Uppsala. Il collega americano, oggi rettore di una prestigiosa università dove gli studenti pagano rette superiori al reddito medio di una famiglia italiana, sosteneva con entusiasmo il suo modello: il supermarket. Lo studente/cliente è signore e padrone, sceglie quello che gli piace, paga e se ne va nel mondo del lavoro a far fruttare quello che ha comperato. Io e pochi altri europei difendevamo, per paradosso, un modello opposto: l’accademia. Lo studente non sa nulla e non sceglie nulla. Deve solo seguire il professore mentre questi lo conduce a imparare quello che crede giusto e opportuno per lui.
Sono due modelli decisamente incompatibili e la palese crisi dell’uno rischia di trascinare con sé anche l’altro ben più consolidato e prestigioso. Secondo Google, i corsi universitari tradizionali sono ritenuti superati perché non in linea con il cambiamento dell’economia. In una situazione che evolve, i corsi debbono durare al massimo sei mesi. Ebbene, chiariamo una cosa: lo scopo dell’università non è la fornitura di aggiornate competenze (digital skills) ma la creazione di nuova conoscenza. Per fare un esempio: il compito dell’università non è tanto quello di insegnare a usare i computer esistenti quanto quello di progettare i computer del futuro.
La creazione di nuova conoscenza avviene mediante un processo comunitario che coinvolge i professori, gli studenti e tutto il personale universitario. Nuova conoscenza viene creata mediante la ricerca, l’insegnamento e il contatto con il mondo produttivo. A questo serve l’università, non a erogare corsi con competenze abilitanti online. Se questa è la funzione dell’università, occorre allora porre mano quanto prima al suo sostegno e alla sua riqualificazione, mediante l’assunzione di nuovi professori, il finanziamento del mondo della ricerca e l’incentivazione di una didattica in presenza, sicura, adeguata e non immemore del motivo per cui l’università esiste.
(L’autore è il direttore del NiPS Laboratory dell’Università di Perugia – L’articolo è tratto da Avvenire.it)
Un manifesto per la scuola – Gustavo Zagrebelsky
La “ricchezza delle nazioni” non è solo denaro e ciò che serve a produrre denaro. È un insieme di addendi. Se la ricchezza delle nazioni non è solo un dato materiale ma, altrettanto importante, anche un dato spirituale e culturale, in questo insieme brilla la scuola. Non ci dovrebbero essere dubbi, se non fosse che, nel discutere di misure restrittive per contenere la diffusione del virus, la scuola rischia di essere considerata un pericolo valutato, nel suo potenziale di contagio, alla stregua dello stadio, della discoteca, del ristorante, del pub, del mezzo di trasporto, eccetera.
Anzi, chiudere le scuole, e così evitare anche i problemi collegati, come la sicurezza sui mezzi pubblici, può sembrare una via più semplice di tante altre, anche perché le categorie sociali che ne sarebbero coinvolte sono assai meno combattive rispetto a quelle coinvolte da altre restrizioni.
Se, all’inizio, la chiusura generalizzata e indiscriminata delle occasioni sociali di contagio, scuole comprese, è sembrato necessario e legittimo come intervento d’emergenza radicale, oggi, quando passa il tempo e l’emergenza si protrae, vi sono esigenze vitali che presentano anch’esse le loro ragioni.
La misura totale cede il passo a misure selettive, parziali e mirate e, allora, si deve prendere in considerazione la gerarchia dei beni su cui esse incidono restrittivamente. Il bene-scuola deve stare in cima alla gerarchia, l’ultimo che deve essere penalizzato. Scrivo con la passione di uno che ha dedicato la vita alla scuola e che appartiene a una generazione su cui grava un enorme debito morale nei confronti dei giovani e del loro futuro.
Chiudere le scuole, confinare i bambini e i ragazzi a casa loro davanti al computer, privarli del rapporto con i propri compagni, tecnologizzare il rapporto con i loro insegnanti, quali danni può provocare nella formazione delle loro personalità, formazione che è il primo scopo di ogni istituzione scolastica?
Forse è giunto il momento, “grazie” al virus, di preservare l’attività scolastica che è questione di primaria importanza nazionale e civile. “Nazionale” e “civile”: se c’è un obiettivo che merita la partecipazione di tutti e che non può essere perseguito solo con spirito passivo e remissivo, cioè lo spirito di ubbidienza alle leggi e alla burocrazia, ma fa appello allo spirito civico, questo è la protezione della scuola.
Ben vengano le misure che devono essere adottate con strumenti giuridici, ma più di tutto gioverebbe il coinvolgimento dei bambini e dei ragazzi (spesso più ragionevoli e generosi dei loro padri e madri), degli insegnanti, del personale e dei dirigenti scolastici e dei loro sindacati, delle famiglie, degli organi della democrazia scolastica e, in genere, di tutti coloro che possono.
Un patto sociale, insomma, e una mobilitazione per difendere l’apertura delle scuole. Chiamiamolo, per esempio, “manifesto per la scuola in tempo di pandemia” e facciamo in modo che sia diffuso, crei una cultura e una pressione sociale, infine orienti i comportamenti virtuosi. Non sarebbe un titolo di merito, un obiettivo se, alla fine, il mondo della scuola riuscisse a risultare un’oasi di sicurezza e di serenità, pur nell’emergenza che colpisce tanti altri luoghi della vita collettiva?
La prima condizione è il rovesciamento di certe mentalità: da ciò che si obbligati a fare a ciò che si è liberi di fare. Per esempio: le mansioni, nella burocrazia, sono normalmente concepite come un tetto massimo e potrebbero invece rappresentare la base minima di ciò che è dovuto, che non esclude iniziative, sperimentazioni, dedizioni, tempi, ulteriori. Non dunque: che cosa mi è imposto e niente più, ma che cosa mi è possibile oltre a ciò che mi è imposto?
L’autonomia scolastica è un buon punto di partenza, ma altrettanto lo sarebbe l’assunzione da parte del sindacato di un compito non solo di protezione, ma anche di promozione. Così, dovrebbe rovesciarsi l’atteggiamento delle famiglie protettivo, protestativo e rivendicativo nei confronti della scuola dei figli, dalla quale si pretende e alla quale non si dà. Soprattutto, è nociva la mentalità per la quale alla scuola si pensa soltanto dal punto di vista dei propri figlioli e non, invece, da quello di una comunità in cui si cerca di collaborare per il bene di tutti.
Per esempio, la questione dei mezzi di trasporto affollati, dove il virus può galoppare, sarebbe, se non risolta, almeno ridimensionata dalla disponibilità dei genitori che possono accompagnare i figli con la propria auto a trasportare qualche loro compagno. Occorre non solo disponibilità, ma anche coordinamento.
Qui entrano in gioco, oltre alle iniziative spontanee, gli organi scolastici oppure le circoscrizioni. Ancora in tema di trasporto, perché non avvalersi, con appositi protocolli d’intesa, di mezzi di soggetti privati, oppure di quelli disponibili presso le forze armate e le forze di polizia? Qui entrano in gioco le imprese, le autorità civili e militari decentrate sul territorio. Insomma, c’è spazio per molte iniziative, molte disponibilità, e molta inventiva.
Per esempio, ancora con riguardo agli studenti: il comportamento dentro le classi, a quanto risulta, è responsabile e contegnoso. Ma appena fuori dell’edificio scolastico, le precauzioni si allentano. Le energie represse si scatenano e, probabilmente, ciò è inevitabile e perfino opportuno. Ma, sarebbe possibile coinvolgere dei volontari, non per reprimere, ma per indirizzare saggiamente quelle energie: come i classici e benemeriti pensionati che dirigono il traffico all’uscita delle scuole o i genitori che già vi si recano per riaccompagnare a casa i propri figli.
Infine: si dice che l’impatto del virus distrugge le relazioni sociali. Davvero? Potrebbe essere il contrario se fosse l’occasione per guardarci intorno e se, a seconda della posizione occupata nella vita sociale, si assumesse un poco di peso verso quello che, con un’espressione pretenziosa, si denomina “bene comune”, che è tuttavia la somma di tante piccole azioni particolari.
“The elephant in the room”: i test INVALSI in piena pandemia – Rossella Latempa
La scuola italiana ha ripreso le lezioni in presenza da circa un mese. Moltissimi i disagi e le difficoltà registrate, più o meno preoccupanti nelle diverse zone del paese: è di pochi giorni fa la notizia della chiusura delle scuole campane, a seguito di un aumento di contagi e della preoccupante pressione sulle strutture servizio sanitario regionale. Non si escludono analoghe decisioni altrove. Alle difficoltà endemiche di inizio anno – cattedre vacanti e lezioni a singhiozzo, situazione dei posti di sostegno, precariato e reclutamento – si sommano quelle contingenti, dovute ad un’emergenza sanitaria senza precedenti. La situazione è in continua evoluzione: il Ministero ha chiesto a tutte le istituzioni scolastiche di procedere ad un monitoraggio della situazione epidemiologica, acquisendo dati relativi ai contagi e alle misure adottate, settimana dopo settimana. La differenziazione in termini di gestione e organizzazione didattica è più che mai variegata, pur nel quadro generale delle disposizioni emanate quest’estate. Tra rientri differenziati, mancanza di tempo pieno, orari ridotti, turnazioni, didattica mista o interamente a distanza per assenza di spazi, la geografia scolastica è quanto mai frastagliata e pare difficile ipotizzare un’evoluzione nel senso di una maggiore omogeneità. Tra le nuove misure al vaglio del governo, spunta l’ipotesi di un ritorno alla didattica a distanza.
Non sembra essere un caso, quindi, che lo stesso Ministero, nell’ordinanza annuale in cui si definisce il calendario scolastico, con le festività nazionali uguali per tutte le scuole, non abbia reso note le date di inizio degli esami di Stato del primo e secondo ciclo.
La scuola ha ricominciato- è vero – ma con lo sguardo sempre puntato sulle curve di crescita dei contagi, con enormi difficoltà di gestione, sia di tutti quei casi con sintomatologie che non consentono l’accesso in classe, che dei casi monitorati di positività e quarantena; con i disagi legati ad un’organizzazione didattica “acconciata” come meglio si poteva – in termini di personale, di spazi e dotazioni -, con uno stato dei trasporti pubblici assolutamente inadeguato. Si respira un clima di sospensione e di incertezza, si avverte una sorta di consapevolezza che lo stato attuale delle cose non durerà.
E mentre si susseguono i confronti del ministro con il Comitato Tecnico Scientifico e l’Istituto Superiore di Sanità, quelli con le Regioni e il Ministero dei trasporti, mentre si scrivono i provvedimenti governativi (DPCM 13 Ottobre e 18 Ottobre) che introducono nuove regole di condotta sociale, intervenendo anche sull’organizzazione scolastica (Nota M.Bruschi 19 Ottobre), sembra essere uno solo il punto fermo a cui aggrapparsi: i test INVALSI.
Pare proprio che, a dispetto di ogni dato di fatto, il nostro “Santuario della cultura del dato” (definizione del suo Direttore Generale, vedi qui), ovvero l’ Istituto Nazionale di Valutazione, abbia già fissato le date dei test di quest’anno, che dunque si svolgeranno regolarmente.
A parte un breve accenno, doveroso, all’eventuale “cambiamento concordato con il Ministero dell’istruzione”, dovuto alla situazione sanitaria, che potrebbe far subire variazioni alle “date e all’organizzazione”, il quadro dei test per gli oltre 2,5 milioni di studenti italiani è perfettamente sovrapponibile a quello degli anni precedenti.
- Il dibattito sulla valutazione durante la pandemia
L’“INVALSI è un istituto di ricerca che contribuisce al dialogo della comunità scientifica sulla valutazione”.
Questo leggiamo nella sezione “Ricerca” del rinnovato sito invalsiopen.it, dedicato alle prove standardizzate e all’universo della valutazione e misurazione degli apprendimenti della scuola italiana.
Eppure, chi di noi scorresse le pagine di quel sito resterebbe colpito dalla pressoché totale assenza di riscontro con la realtà materiale che la scuola sta affrontando e ha affrontato in questi mesi. Non tra le principali pubblicazioni, né nelle sezioni dedicate alle “Prove”, ai “Risultati” e alle “Risorse”.
Nella sezione “News” di questo mese – ottobre – ad esempio, leggiamo:
Solo scorrendo indietro tale sezione del sito, tra i circa 60 articoli raccolti dall’inizio della pandemia ad oggi, trova spazio “l’attualità” in un Editoriale a firma della Presidente dell’Istituto – di cui parleremo più avanti – e alcuni commenti: la sintesi di uno studio dell’ INDIRE [1], quella di uno studio del CENSIS [2], il richiamo ad un’analisi di Save the Children [3] e una rilettura dell’indagine OCSE sulla didattica a distanza basata sui dati PISA 2018 [4]. In tre articoli (qui, qui e qui) sono poi raccolte esperienze e voci di lavoratori della scuola sull’anno scolastico appena conclusosi.
Nessun tipo di approfondimento scientifico originale, nessun raffronto con ciò che accade negli altri paesi, alle prese con la stessa emergenza. Anche sul fronte dell’informazione pubblica, oltre che su quello scientifico, in Italia non è all’orizzonte alcuna messa in discussione o confronto in tema di valutazione.
Eppure, nel panorama internazionale non si esaurisce quel dibattito già acceso durante lo scorso anno scolastico e accademico, sul senso e sull’opportunità di mantenere immutato l’impianto delle valutazioni e delle qualifiche nazionali.
Negli USA, nell’estate appena trascorsa, più di 400 college hanno deciso di cancellare come requisito di ammissione i test SAT e ACT. Alcuni hanno annunciato addirittura una pausa triennale.
“The coronavirus pandemic, by forcing the cancellation of in-person test-taking, prompted elite universities including Harvard, Yale and the University of California system to join, at least temporarily, the list of schools that aren’t requiring the ACT and SAT entrance exams.”
“In 2020 alone, more than 300 schools have gone testing-optional, albeit temporarily, as the coronavirus has forced the closure of testing centers, many of which are located at high schools.”
Intanto, mentre il segretario per l’Educazione dell’amministrazione Trump, Betsy DeVos, annuncia con una lettera inviata ai capi di Stato che quest’anno verranno svolti normalmente i test standardizzati previsti in base all’ Every Student Succeds Act (ESSA) , il confronto e il dibattito continuano (vedi qui, qui, qui o qui) su posizioni anche conflittualmente aperte.
In Inghilterra, dopo la spettacolare retromarcia da parte del governo sull’attribuzione algoritmica di valutazioni assegnate agli studenti a fine II ciclo in sostituzioni di quelle degli insegnanti, la messa in discussione dell’impianto valutativo del sistema di istruzione è più che mai attuale [5]:
In Scozia, il governo nei mesi scorsi commissionava al Prof. Mark Priestly (University of Stirling) un’analisi indipendente sui processi di qualifica nazionale svoltisi nel 2020 e nella data del 7 Ottobre (tweet ripreso in foto) annunciava la cancellazione dei 5 Esami Nazionali previsti dal Curriculum of Excellence.
In tema di didattica e apprendimento a distanza in Francia, risale al 13 Ottobre la presentazione da parte del CNESCO (Centre national d’étude des systèmes scolaires) del rapporto “Numérique et apprentissages scolaires”, sull’impiego del digitale nelle discipline fondamentali, sui suoi effetti sull’apprendimento e sulla relazione scuola-famiglia.
In Italia, nulla di tutto questo.
Al contrario. In un’atmosfera provincialmente ovattata, continuano a susseguirsi sulle colonne dei principali organi di stampa – persino sui rotocalchi femminili – e sui social i piagnistei sull’importanza dei test non svolti in periodo di lockdown, che addirittura avrebbero permesso di misurare quantitativamente il “learning loss” degli studenti, anche quantificato in termini di percentuali di PIL.
In questo panorama, l’ editoriale dal titolo: “A proposito di valutazione in tempi di Covid-19”, a firma della Presidente A.M. Ajello, sul sito dell’INVALSI, che lo (auto)definisce “una interessante riflessione sulla valutazione nella didattica a distanza” – rappresenta, ad oggi, l’analisi disponibile per il lettore che desideri approfondire il tema, svolta dal nostro Istituto di Valutazione (ricordiamo: un “Ente di Ricerca”).
Come è possibile – sarebbe opportuno chiedersi – che l’INVALSI continui a procedere ostinatamente nella stessa direzione, stabilendo a due settimane dall’apertura delle scuole (30 Settembre) il calendario primaverile dei test, indipendentemente dallo stato frammentato, disomogeneo e dalle condizioni di emergenza in cui lavorano le scuole?
Un senso di” scollamento”, di “disallineamento” dalla realtà, di cecità spacciata per oggettività coglie chiunque – studente, insegnante o genitore – si trovi a leggere e ad appuntare sulla propria agenda le date dei futuri test, da Marzo a Maggio 2021: da svolgere rigorosamente in classe, dalla seconda “elementare” in avanti.
Probabilmente, proprio quell’editoriale sulla valutazione in tempi del Covid, potrebbe aiutare a ricordare meglio il perché di tale posizione, all’apparenza ottusamente corporativa (un istituto di valutazione non avrebbe ragion d’essere, senza la somministrazione di test standardizzati), ma a nostro avviso più propriamente idologica, ovvero frutto di una precisa “concezione del mondo”.
In quell’editoriale, infatti, è resa evidente ancora una volta e con estrema chiarezza la visione che l’Istituto di Valutazione INVALSI ha dell’insegnamento e della professionalità docente.
Pur non contenendo la riflessione alcun punto di novità, vale la pena ripercorrere i suoi passi fondamentali…
continua qui
La riapertura delle scuole nel mondo suggerisce come contenere il virus – Jennifer Couzin-Frankel, Gretchen Vogel, Meagan Weiland
All’inizio della primavera le scuole di tutto il mondo hanno chiuso. Ad aprile 1,5 miliardi di studenti erano ormai costretti a restare in casa in seguito alle restrizioni imposte per proteggere la popolazione dal covid-19. In molti paesi queste misure rigide hanno permesso di rallentare la diffusione del Sars-cov-2, il virus che provoca il covid-19. Tuttavia, con il passare delle settimane e dei mesi, i pediatri e gli insegnanti hanno cominciato a esprimere il timore che la chiusura delle scuole stesse producendo più danni che benefici, soprattutto perché sembrava che raramente i bambini sviluppassero forme gravi della malattia.
In una lettera aperta pubblicata a giugno e firmata da più di 1.500 medici del Royal college of paediatrics and child health del Regno Unito (Rcpch), si legge che una chiusura prolungata delle scuole rischia “di compromettere la crescita di un’intera generazione di ragazzi”. Spesso l’istruzione a distanza è solo un’ombra sbiadita di quella in classe. Inoltre costringe molti genitori a dividersi tra il lavoro e la cura dei figli. Con la chiusura della scuole i bambini delle famiglie più povere, che dipendono dai pasti scolastici, hanno cominciato a patire la fame. E c’è stato anche un aumento degli abusi in famiglia, perché il personale scolastico non era più in grado d’individuare e denunciare i primi segni delle violenze. Così si è allargato il coro di esperti che chiedeva di riportare i bambini a scuola.
All’inizio di giugno più di venti paesi hanno deciso di farlo (altri, tra cui Taiwan, Nicaragua e Svezia, non hanno mai chiuso le scuole). È stato un enorme esperimento. Alcune scuole hanno imposto forti limitazioni al contatto tra i bambini, mentre altre hanno lasciato che gli alunni giocassero liberamente. In alcuni casi le mascherine erano obbligatorie, in altri facoltative. Alcune scuole hanno chiuso temporaneamente ogni volta che uno studente contraeva il covid-19, mentre altre sono rimaste aperte anche dopo il contagio di molti bambini e insegnanti, limitandosi a imporre la quarantena alle persone infette e a chi era entrato in contatto con loro.
I dati sui risultati di questo esperimento sono scarsi. “È frustrante”, ammette Kathryn Edwards, pediatra e infettivologa della facoltà di medicina dell’università di Vanderbilt, negli Stati Uniti, che ha seguito la riapertura delle scuole di Nashville, frequentate da più di 86mila studenti. L’assistente di Edwards ha passato trenta ore alla ricerca di dati (per esempio per capire se gli studenti più giovani trasmettono più difficilmente il virus o se dopo le riaperture ci sono stati dei focolai), ma ha trovato pochi elementi per valutare il rischio di contagio all’interno delle scuole.
Science ha analizzato le strategie per la riapertura – dal Sudafrica alla Finlandia, passando per Israele – e sono emerse alcune tendenze incoraggianti. Nel complesso sembra che la combinazione di obbligo di indossare la mascherina, suddivisione degli studenti in piccoli gruppi e rispetto del distanziamento fisico riesca a garantire la sicurezza delle scuole e delle comunità. È raro che i bambini si contagino tra loro o portino il virus a casa. Tuttavia, riaprire in sicurezza, concordano gli esperti, non dipende solo dalle misure prese nelle scuole, ma anche dalla quantità di virus presente nella comunità, che influenza la probabilità che studenti e personale portino il covid-19 in classe. “I contagi all’interno delle scuole sono inevitabili”, sottolinea Otto Helve, infettivologo e pediatra dell’Istituto per la salute finlandese. “Ma ci sono anche buone notizie”. Per ora, con qualche cambiamento nella routine scolastica, i benefici della frequenza sembrano superare i rischi, almeno dove i tassi di contagio sono bassi e le autorità s’impegnano a individuare e isolare le persone infette e i loro contatti più stretti.
Quant’è probabile che i bambini contraggano e trasmettano il virus?
Diversi studi hanno dimostrato che in generale, rispetto agli adulti, chi ha meno di 18 anni ha la metà o anche un terzo delle probabilità di contrarre il virus. Il rischio è ancora più basso per i più piccoli. Il motivo di questa differenza resta oggetto di studi. I dati raccolti a Crépy-en-Valois, un comune alla periferia di Parigi con 15mila abitanti, confermano che la giovane età riduce il rischio d’infezione e trasmissione.
All’inizio di febbraio, quando due insegnanti delle superiori avevano manifestato disturbi respiratori lievi, nessuno aveva pensato che si trattasse di covid-19. Era la stagione dell’influenza, e le autorità sanitarie erano ancora convinte che il nuovo coronavirus fosse sostanzialmente confinato alla Cina. Solo il 25 febbraio, dopo il ricovero di uno dei loro contatti in un ospedale parigino, i due insegnanti hanno scoperto di aver contratto il Sars-cov-2. Per almeno dodici giorni, prima dell’inizio della pausa invernale (14 febbraio) e prima che il governo francese introducesse alcune misure precauzionali, il virus si era diffuso all’interno della scuola.
Alla fine di marzo Arnaud Fontanet, epidemiologo dell’istituto Pasteur, ha avviato una ricerca insieme ai suoi colleghi a Crépy-en-Valois, per ottenere dati precisi sulla diffusione del virus all’interno delle scuole e del centro abitato. I test sugli anticorpi fatti nella scuola superiore hanno mostrato che il 38 per cento degli alunni, il 43 per cento degli insegnanti e il 59 per cento del personale era entrato in contatto con il virus (a quel punto molte persone legate alla scuola erano state ricoverate con complicanze dovute al covid-19). Su sei scuole elementari esaminate i ricercatori hanno scoperto che tre bambini avevano continuato a frequentare la scuola dopo essere stati contagiati, probabilmente dai familiari. Tuttavia sembrava che non avessero trasmesso il virus a nessuno dei contatti stretti.
Dopo la riapertura, molti istituti hanno imposto il distanziamento
“Ci sono ancora elementi da verificare”, ammette Fontanet, che il 23 aprile ha condiviso i dati raccolti nella scuola superiore e il 29 giugno quelli delle elementari. A quanto pare gli studenti più grandi “devono fare attenzione. Sviluppano forme lievi della malattia, ma sono contagiosi”. I ragazzi di 11 o 12 anni, invece, “probabilmente non trasmettono il virus con grande frequenza. A scuola sono molto vicini tra loro, ma a quanto pare questo non è sufficiente” a diffondere il covid-19. Tuttavia gli scienziati sottolineano che i bambini hanno più contatti rispetto agli adulti, soprattutto a scuola, e questo potrebbe compensare la probabilità più bassa di diffondere la malattia.
Anche altri focolai indicano che gli alunni delle elementari rappresentano una minaccia minore rispetto agli studenti più grandi. Uno dei più gravi in ambiente scolastico è quello del Gymnasium Rehavia, scuola media e superiore di Gerusalemme, dove tra la fine di maggio e l’inizio di giugno sono stati infettati 153 studenti e 25 componenti del personale. Un focolaio in una scuola della Nuova Zelanda prima del lockdown ha provocato il contagio di 96 persone tra studenti, insegnanti e genitori. Una scuola elementare poco lontana, invece, ha registrato solo pochi casi.
Il quadro generale, però, è ancora poco chiaro. In un altro focolaio in Israele, in una scuola elementare di Jaffa, ci sono stati 33 contagiati tra gli alunni e cinque tra il personale. Dall’altra parte del mondo, in una classe elementare di Trois-Rivières, in Canada, nove alunni su undici sono stati infettati dopo che uno di loro aveva portato il virus a scuola.
Ci sono poi i dati degli asili. In molti paesi le scuole dell’infanzia sono rimaste aperte per i figli dei lavoratori essenziali, ma i focolai sono stati rari. Un aumento dei casi in due asili canadesi – uno a Toronto, l’altro alla periferia di Montréal – ha portato a una chiusura temporanea. In Texas, dove il totale dei casi è aumentato vertiginosamente, a inizio luglio almeno 894 dipendenti delle scuole materne e 441 bambini di 883 istituti sono risultati positivi. Poche settimane prima i casi totali erano appena 210.
Analizzare il contagio nelle scuole dovrebbe aiutarci a capire se il virus si diffonde in modo diverso a seconda dell’età dei bambini. Un altro indizio sulla trasmissione in rapporto all’età è arrivato dalla tempistica dei nuovi contagi a Crépy-en-Va-lois. Alla scuola superiore le infezioni sono crollate con la pausa invernale, ma alle elementari il tasso di contagi (di per sé basso) è rimasto invariato. Secondo Fontanet questo suggerisce che gli studenti delle superiori abbiano contratto il virus a scuola, mentre gli alunni più giovani sarebbero stati contagiati dai familiari e non dai compagni.
I bambini possono giocare insieme?
Le scene che osserviamo in questo periodo sono molto diverse da quelle abituali: bambini e bambine dell’asilo da soli all’interno di un quadrato disegnato per terra con il gesso; alunni di seconda elementare a cui è impedito di parlare con i compagni; altri di scuola media costretti a mantenere le distanze quando entrano o escono dalla struttura. Con la riapertura, molti istituti hanno imposto il distanziamento fisico per evitare la diffusione del virus. Si tratta di una strategia efficace, ma un numero crescente di scienziati, pediatri e genitori solleva forti dubbi in merito e chiede un compromesso per proteggere la comunità dal covid-19 e allo stesso tempo tutelare la salute mentale dei ragazzi. “Dobbiamo essere pronti ad accettare un certo livello di rischio per mandare un bambino a scuola”, sottolinea Kate Zinszer, epidemiologa dell’università di Montréal. La scuola è il luogo “in cui i nostri bambini corrono, giocano, ridono e comunicano tra loro. Hanno bisogno di tornare a questa normalità il prima possibile”, ha dichiarato a giugno il presidente dell’Rcpch.
Fin dall’inizio alcuni paesi hanno basato le loro decisioni su ricerche secondo cui i bambini hanno scarse probabilità di diffondere il virus. Nei Paesi Bassi le scuole hanno riaperto ad aprile, con classi dimezzate ma senza l’obbligo del distanziamento fisico tra i minori di 12 anni. Altre scuole hanno adottato un modello “capsula”. La Danimarca, primo paese europeo a riaprire le scuole, ha diviso i bambini in piccoli gruppi che potevano riunirsi durante la ricreazione; ha trovato soluzioni creative per dare a questi gruppi più spazio e aria, arrivando a organizzare lezioni in un cimitero. In Belgio alcune classi si sono riunite all’interno delle chiese, per garantire la distanza tra gli studenti. La Finlandia ha mantenuto le classi com’erano, ma evita di farle interagire.
Con l’avanzare della primavera molti paesi hanno rivalutato il distanziamento all’interno delle scuole. La provincia canadese del Québec ha riaperto gli istituti a maggio imponendo misure severe, ma ha annunciato che in autunno permetterà ai bambini di interagire liberamente in gruppi di sei. Ogni gruppo dovrà mantenere la distanza di un metro dagli altri studenti e di due metri dagli insegnanti. In Francia gli asili che a maggio avevano immortalato i bambini e le bambine all’interno dei loro “quadrati di gesso”, hanno ormai cancellato tutte le regole di distanziamento per i minori di cinque anni. Gli alunni più grandi sono invitati a tenersi a un metro dai compagni dentro la scuola, ma all’esterno possono giocare liberamente. Di recente le autorità olandesi hanno comunicato che chi ha meno di 17 anni non dovrà tenere alcuna distanza.
Questo cambiamento è basato non solo sui consigli dei pediatri, ma anche su considerazioni pratiche. All’interno di una scuola, infatti, non c’è lo spazio per il distanziamento. Il 3 maggio Israele ha scelto una riapertura parziale delle scuole, e questo ha suscitato forti pressioni per far riprendere l’attività ovunque. Due settimane dopo sono stati accolti tutti gli studenti, con la consueta divisione di 30-40 alunni per classe. Il distanziamento, infatti, era impossibile, spiega Efrat Aflalo, del ministero della salute. Le autorità hanno scelto una strategia protettiva alternativa: le mascherine.
I bambini devono indossare le mascherine?
Probabilmente le mascherine hanno ridotto i contagi nelle scuole, ma per i bambini, ancora più che per gli adulti, è scomodo indossarle a lungo. Inoltre i più piccoli non hanno l’autodisciplina che serve per non toccarsi il volto e il naso. La scomodità supera i potenziali benefici sanitari? Secondo Susan Coffin, infettivologa dell’ospedale pediatrico di Filadelfia, negli Stati Uniti, “le mascherine sono parte dell’equazione” che porta al rallentamento dei contagi negli istituti scolastici, soprattutto quando il distanziamento è difficile da attuare. “I droplet respiratori sono uno dei principali veicoli di trasmissione”, spiega Coffin, e le mascherine rappresentano un ostacolo nel percorso dei droplet.
In Cina, Corea del Sud, Giappone e Vietnam, paesi dove le mascherine sono accettate e vengono indossate da molti durante la stagione dell’influenza, le scuole le hanno imposte a quasi tutti gli studenti e insegnanti. Le autorità cinesi permettono agli alunni di rimuovere le mascherine solo durante il pranzo, quando sono separati tra loro da barriere di vetro o plastica. In Israele le mascherine sono obbligatorie dai sette anni in su fuori dalle classi, e durante tutta la giornata per gli alunni dalla quarta elementare in avanti. Secondo Aflalo, madre di due bambini di otto e undici anni, gli alunni rispettano con diligenza queste regole. Sull’autobus che li porta a scuola “tutti i bambini stanno seduti con le mascherine”, racconta. “Non le tolgono mai, eseguono gli ordini”.
In altri paesi il ruolo delle mascherine è meno centrale. In alcune scuole della Germania gli studenti le indossano nei corridoi e nei bagni, ma possono toglierle quando sono seduti ai banchi (adeguatamente distanziati). L’Austria aveva riaperto le scuole seguendo le stesse regole, ma poche settimane dopo, quando è apparso evidente che il contagio negli istituti era minimo, ha eliminato l’obbligo per gli studenti di indossare le mascherine. In Canada, Danimarca, Norvegia, Regno Unito e Svezia l’uso delle mascherine è facoltativo sia per gli alunni sia per il personale. Non tutti i paesi possono permettersi di adottare politiche simili. In Benin le mascherine sono obbligatorie nei luoghi pubblici, ma dato che non tutte le famiglie possono permettersele, le scuole evitano di escludere gli studenti che non le indossano. In Ghana le scuole hanno riaperto a maggio e indossava la mascherina solo chi aveva la possibilità di comprarne una. Il Sudafrica, paese che rischia un’impennata di contagi, sta cercando di fornire rapidamente mascherine gratuite a tutti gli studenti che ne hanno bisogno.
Per Aflalo, in Israele l’utilità delle mascherine è apparsa evidente alla fine di maggio, quando il paese è stato colpito da un’insolita ondata di caldo. Con temperature superiori ai 40 gradi le mascherine erano diventate insopportabili, e così il ministero della salute aveva autorizzato gli studenti e gli insegnanti a farne a meno per alcuni giorni. Per due settimane, il periodo d’incubazione standard del covid-19, la situazione è sembrata sotto controllo, tanto che Aflalo era andata in campeggio con la famiglia. Poi all’improvviso è arrivata la crisi. Mentre era in vacanza, Aflalo ha “cominciato a ricevere chiamate”, racconta parlando dal Gymnasium Rehavia. Non è dimostrato che l’aumento di casi sia stato causato dal mancato uso delle mascherine, ma per lei la coincidenza è indicativa.
Cosa dovrebbero fare le scuole quando qualcuno risulta positivo?
Nessuno lo sa. L’incertezza è dovuta soprattutto alla carenza di dati su quanti casi asintomatici si sviluppano nel momento in cui sono accertati dei contagi. “Come possiamo affrontare l’infezione nel modo migliore?”, si chiede Edwards. “Chiudiamo la classe? O tutta la scuola?”
Alcuni istituti hanno preferito isolare solo i contatti stretti. In Germania, per esempio, vengono mandati a casa per due settimane i compagni di classe e gli insegnanti di un alunno contagiato, ma per gli altri la scuola resta aperta. Fino alla pausa estiva il Québec si è comportato sostanzialmente nello stesso modo. A maggio, dopo la riapertura di molte scuole, almeno 53 tra studenti e professori sono risultati positivi, ma le autorità ritengono che gran parte dei contagi si sia verificata all’interno della comunità, non della scuola.
Altrove i dirigenti mantengono un approccio più prudente. Il governo di Taiwan, paese che ha sostanzialmente sconfitto il virus, ha tenuto aperte le scuole dopo l’emergere di un caso, ma ha dichiarato che chiuderà gli istituti se dovessero essercene altri. Al momento questo scenario non si è verificato. In Israele le scuole sono state chiuse anche per un solo caso positivo. I contatti di tutti gli individui infetti sono stati sottoposti al test e messi in quarantena, riferisce Aflalo. A metà giugno 503 studenti e 167 componenti del personale sono risultati infetti, 355 scuole stono state chiuse temporaneamente.
I test a tappeto nelle scuole, anche sui bambini senza sintomi, potrebbero aiutare le autorità a scegliere la soluzione più efficace. Il governo britannico ha avviato uno studio coinvolgendo il maggior numero possibile di scuole. Il progetto prevede l’analisi ripetuta dei campioni raccolti in scuole materne, elementari e medie per almeno sei mesi. Le analisi permetteranno di verificare la presenza sia del virus sia degli anticorpi. A Berlino i ricercatori dell’ospedale universitario della Charité hanno avviato il 15 giugno, due settimane prima della pausa estiva, uno studio che coinvolge 24 scuole. Analizzeranno i campioni di 20-40 studenti e 5-10 dipendenti per ogni scuola, ogni tre mesi e per almeno un anno. L’obiettivo è rilevare le infezioni attive e gli anticorpi, per valutare la percentuale di casi asintomatici e il rischio che rappresentano per gli studenti e per il personale. Uno studio simile è cominciato a luglio in 138 scuole materne ed elementari della Baviera.
Le scuole favoriscono la diffusione del virus all’esterno?
Dato che i bambini sviluppano raramente forme gravi, gli esperti sottolineano che la riapertura delle scuole può minacciare non tanto gli studenti, quanto gli insegnanti, i familiari e la comunità in generale. Molti insegnanti e altri dipendenti delle scuole sono comprensibilmente nervosi all’idea di tornare in classe. In una serie di studi condotti nei distretti scolastici degli Stati Uniti, fino a un terzo del personale ha dichiarato che preferirebbe restare a casa. Science non ha trovato molti riscontri a proposito di decessi o forme gravi di covid-19 tra il personale scolastico, ma i dati sono carenti. In Svezia, dove le scuole non hanno modificato la composizione delle classi né preso precauzioni rilevanti, diversi insegnanti sono morti a causa di complicanze legate al covid-19.
Molti paesi poveri non hanno le risorse per ridurre il numero di alunni per classe
I primi dati in arrivo dai paesi europei suggeriscono che il rischio per la comunità sia piuttosto basso. La riapertura delle scuole con le dovute precauzioni, almeno nei luoghi dove il tasso di contagio è contenuto, non sembra provocare un consistente aumento delle infezioni all’esterno. Al momento non ci sono certezze, perché in molte aree le scuole hanno riaperto insieme ad altri settori. Tuttavia in Danimarca i casi hanno continuato a ridursi anche dopo la riapertura degli asili e delle elementari, il 15 giugno, e delle scuole superiori a maggio. Nei Paesi Bassi le elementari hanno riaperto l’11 maggio, seguite il 2 giugno dalle superiori: il numero di nuovi contagi è rimasto stabile e poi è calato. Anche in Finlandia, Belgio e Austria non c’è stato un aumento dei casi dopo il ritorno a scuola.
In uno studio più ampio sui focolai a livello mondiale, l’epidemiologa Gwen Knight, della London school of hygiene & tropical medicine, ha raccolto insieme ai colleghi una buona quantità di dati prima della chiusura della maggior parte delle scuole. Secondo Knight, se le scuole fossero state un fattore decisivo nella trasmissione del virus, “avremmo rilevato più focolai legati agli istituti. Ma non è stato cosi”. In ogni caso, senza i test a tappeto sui giovani, che spesso sono asintomatici, non è facile stabilire il ruolo delle scuole.
Allo stesso tempo l’apertura degli istituti può modificare la proporzione dei contagi rispetto all’età, provocando un aumento dei casi tra i bambini. In Germania la percentuale degli infetti tra chi ha meno di 19 anni sul totale dei nuovi casi è passata dal 10 per cento dell’inizio di maggio, quando le scuole hanno riaperto, a quasi il 20 per cento alla fine di giugno. Questo aumento, però, potrebbe essere dovuto anche all’aumento dei test e al calo dei positivi tra gli anziani. In Israele le infezioni tra i bambini sono aumentate costantemente dopo la riapertura delle scuole, e contemporaneamente è aumentato anche il numero complessivo di casi. Non è chiaro se il primo fenomeno abbia influito sul secondo o viceversa. “Cerchiamo di concentrare la ricerca epidemiologica e trovare la causa, ma non è facile”, spiega Aflalo. “Al momento non possiamo dire quale ipotesi sia corretta”.
Cosa ci riserva il futuro
In gran parte del mondo le scuole che hanno interrotto l’attività a marzo sono rimaste chiuse fino alla pausa estiva, e in autunno arriveranno le riaperture. Per milioni di bambini particolarmente vulnerabili, invece, la pausa potrebbe prolungarsi indefinitamente. Molti paesi poveri non hanno le risorse necessarie per ridurre il numero di alunni per classe o fornire a tutti le mascherine, quindi esitano a riaprire le scuole in piena pandemia. A giugno il primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha dichiarato che probabilmente le scuole resteranno chiuse fino a quando la minaccia del covid-19 non sarà superata. Anche le autorità delle Filippine hanno annunciato che le lezioni in presenza riprenderanno solo quando sarà disponibile un vaccino. In altri paesi, dal Messico all’Afghanistan fino agli Stati Uniti, si lavora per tornare in classe in autunno. Negli Stati Uniti i distretti scolastici stanno mettendo a punto una serie di piani diversificati, spesso basati su modelli ibridi che alternano l’apprendimento a distanza alle lezioni in aula e che prevedano meno alunni per classe.
L’esperimento andrà avanti, ma gli scienziati sottolineano che il processo potrebbe non generare i dati approfonditi di cui c’è bisogno per individuare andamenti e percorsi di trasmissione. “Non esiste una vera cultura della ricerca” all’interno delle scuole, sottolinea Edwards. Raccogliere dati sugli alunni è un’operazione più complicata rispetto alla consueta ricerca pediatrica: oltre a dover ottenere l’autorizzazione dei genitori e dei bambini, infatti, spesso è necessario il contributo degli insegnanti e delle amministrazioni scolastiche, già alle prese con le difficoltà della situazione attuale. Per queste persone partecipare alle ricerche – l’unico modo per valutare il successo delle diverse strategie – potrebbe essere troppo gravoso.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Lettera alla Ministra dell’Istruzione Azzolina: cacciatori a scuola? No grazie
Gent.le Ministra della Pubblica istruzione dr. Lucia Azzolina
e p.c. Gent.le Ministro dell’Ambiente dr. Sergio Costa
con la riapertura dell’A.S., si è avuta notizia della richiesta di associazioni di cacciatori (e cacciatrici) di accedere nelle scuole con proposte formative riferite al rispetto per l’ambiente, cosa non nuova dal momento che analoghe iniziative sono state portate avanti anche negli anni scorsi.
Non si può che rimanere sconcertati che la difesa dell’ambiente, argomento di estrema attualità e pregnanza, entrato finalmente a pieno titolo anche nell’agenda dei lavori dell’Unione Europea, possa essere trattato da chi vede gli abitanti di quello stesso ambiente come vittime da uccidere per pura passione, come gli stessi cacciatori dichiarano nei loro siti: siti in cui vengono descritti l’eccitazione e l’entusiasmo che li accompagna nell’inseguire, ferire, uccidere animali terrorizzati, in cerca di fuga: “palpitante avventura, magia, ardore, ebbrezza, euforia” sono i loro termini ricorrenti.
Tutto a norma di legge, ovviamente, ma non per questo meno inquietante: implicitamente si sostiene una visione del mondo, in cui la violenza a danno dei più deboli è normalizzata, sdoganata e rinforzata dal contesto, quello scolastico, dove i messaggi acquistano autorevolezza in quanto emanazione delle figure investite di un ruolo educativo.
Autorizzare i cacciatori in quanto tali ad interventi pedagogici e formativi equivale a richiedere ai ragazzi di accettare l’idea che l’amore si estrinsechi nell’uccisione, che il rispetto sia compatibile con la sopraffazione di chi è indifeso: i cacciatori sostengono, infatti, che proprio amore e rispetto per la natura siano i sentimenti che li inducono a violentarla e ad ucciderne gli abitanti. Per meglio intenderci: se a parlare di pacifismo fossero designati soldati per vocazione, se ad argomentare di rispetto per le donne fossero invitati autori di femminicidi, a tutti sarebbe evidente il collasso della logica e del buon senso, che sarebbero definitivamente oscurati dal sonno della ragione. Quello, vale la pena ricordare, che genera mostri.
Davanti a tutto questo, urge richiamare il senso e il significato dell’educazione: che dovrebbe essere prima di tutto educazione al rispetto dell’altro, a cominciare da chi è più debole, dovrebbe essere proposta di modelli empatici in cui l’identificazione con l’altro sia la strada maestra per contrastare violenza e crudeltà, nel riconoscimento fondamentale del diritto altrui alla vita, vissuta nei luoghi che sono propri: nulla di più lontano dall’atteggiamento predatorio e violento di chi alla natura e agli altri animali si avvicina con il fucile imbracciato, per esercitare sugli altri, per puro divertimento, un autoattribuitosi diritto di vita e di morte.
La caccia, incredibilmente equiparata ad uno sport, è vietata ai minori: a quegli stessi minori non può essere imposto a scuola, che è casa loro, lo sguardo sulla vita, l’ambiente, gli altri animali, che ne è alla base. Per questo chiediamo che sia il Ministero della Pubblica Istruzione ad emanare linee guida che impongano per legge ciò che a volte non è imposto da un’etica personale, dimentica di valori basici, quali rispetto, pace, nonviolenza…
La lezione del Coronavirus – coniarerivolta
È appena iniziato un nuovo anno scolastico, decisamente il più difficile. Anche se ogni anno, probabilmente, si potrebbe dire lo stesso, perché da ormai vent’anni l’istruzione pubblica subisce tagli di bilancio ingenti da parte di qualsiasi Governo in carica. Se le sforbiciate all’istruzione hanno conosciuto una forte accelerazione dal 2008 (riforma Gelmini-Tremonti), lo stravolgimento della scuola si è iniziato a delineare con la riforma Berlinguer del 2000, che ha dato inizio al processo di progressiva aziendalizzazione dell’istruzione. Certo, la scuola non è l’unica vittima dell’austerità, che ha massacrato sistematicamente l’intero settore pubblico, ormai allo stremo e sottorganico nella maggioranza dei suoi comparti. Tanto per citarne uno, l’esperienza del Coronavirus ci ha mostrato come la sanità si arrivata vicina al collasso nei mesi più duri della pandemia, rivelando a tutti la fragilità del sistema e l’effetto nefasto dei tagli degli ultimi anni.
Come se non bastasse, sul sistema educativo si pratica pure un esercizio retorico di rara ipocrisia, continuando a dichiarare che l’Italia potrà riparte solo con la scuola. Alle parole, tuttavia, non seguono i fatti. In questi mesi, si sono viste infatti tutte le difficoltà che l’istruzione, dall’infanzia fino all’Università, ha dovuto fronteggiare.
Mancanza di professori, insufficienza di aule, impossibilità di offrire a tutti gli studenti le lezioni a distanza, e così via. D’altronde, che la scuola fosse in grave sofferenza si sapeva da tempo. La citata riforma Gelmini tagliò in soli 3 anni – dal 2008 al 2011 – più di 8 miliardi di euro in termini di spesa per l’istruzione, con una tragica conseguenza sull’occupazione: 81.120 cattedre e 44.500 personale non docente (ATA) in meno. Da allora, non è cambiato l’orientamento politico sull’istruzione. I tagli sono stati continui, basti pensare che nel 2009 si spendevano quasi 72 miliardi di euro nel settore scolastico, a fronte dei 66 del 2017. Tagli che hanno riguardato, ovviamente, non soltanto il personale ma anche la chiusura di moltissime strutture scolastiche, costringendo studenti ed insegnanti dentro ignobili classi-pollaio. E, guarda caso, ora che si impone un distanziamento minimo tra gli studenti, si denuncia la mancanza di aule. Così la Ministra dell’Istruzione Azzolina ha proposto di utilizzare 3000 edifici dismessi ma che, ormai in stato di abbandono, non rispettano le normali condizioni di sicurezza.
Le conseguenze delle politiche di austerità (per intenderci, dei tagli) si riflettono non soltanto nei livelli occupazionali, ma anche nelle tipologie contrattuali di docenti e personale tecnico e amministrativo. I tagli all’istruzione hanno reso sempre più precario il mestiere dell’insegnante, ingrossando le fila dell’esercito dei supplenti e diminuendo quelli di ruolo. Soltanto negli ultimi sei anni, si registra una riduzione di quasi 200.000 tra docenti e ATA a fronte di un aumento di personale con contratti a tempo determinato per l’ordinario funzionamento: nell’anno scolastico 2013-2014 i docenti precari erano 137.000, mentre nel 2020-2021 saranno più di 200.000. In parole povere, si riduce il personale complessivamente impiegato, e lo si rende più fragile. La precarietà nell’insegnamento significa, peraltro, anche un danno al percorso educativo delle giovani generazioni, costrette a subire una continua alternanza nei docenti precari, che destabilizza la programmazione della didattica e mina la continuità della formazione.
Eppure, al peggio sembra non esserci mai fine. Mentre affannosamente cercava di mettere pezze ad una situazione dai toni drammatici, tra mascherine che non si trovano e banchi singoli che non sono ancora arrivati, la Azzolina annunciavatrionfalmente, alla fine di agosto, che grazie alle risorse stanziate per l’emergenza ci saranno oltre 70mila unità di organico in più per la ripartenza tra docenti e ATA. Se la pandemia è stata una tragedia sotto mille aspetti, a prima vista sembrava almeno aver suonato l’allarme sull’importanza di certi settori, tra cui la scuola, col Governo che pareva intenzionato a ovviare alle carenze di personale tramite l’assunzione di migliaia di nuovi lavoratori dell’istruzione.
Tutto bene sembrerebbe. Peccato che si tratti semplicemente di carne mandata al macello, precari da spremere nel momento della necessità per poi essere rigettati nel mare nero della disoccupazione e della precarietà, una volta passata la tempesta. Tra i nuovi incarichi, infatti, 40.000 sono riservati a docenti supplenti, che hanno ben poco da festeggiare. Proprio in questi giorni si è tornati a discutere dell’ignobile clausola Covid prevista nel decreto Rilancio per i contratti di questi supplenti. In pratica, se l’istituto chiude e le attività didattiche in presenza sono sospese causa Covid, il contratto di lavoro a tempo determinato si interrompe, il docente precario a cui era stata assegnata la supplenza viene licenziato ‘per giusta causa’ e senza diritto ad alcun indennizzo. Oltre a danneggiare il docente-lavoratore, privato di qualsiasi dignità, la clausola danneggia anche gli studenti, perché in caso di interruzione della didattica in presenza questa dovrà essere portata avanti a distanza. Il Governo sottovaluta enormemente lo sforzo che serve a tradurre la didattica ordinaria (le lezioni frontali) in didattica a distanza: quest’ultima comporta cambiamenti significativi rispetto alla didattica tradizionale, tra cui un apporto del docente a termine (il supplente) che diventerebbe fondamentale considerando le competenze digitali che questa trasformazione comporta e la giovane età (in media) degli insegnanti precari.
Dunque, lo Stato coltiva il sogno di tutti i padroni: liberare la classe lavoratrice di ogni possibile tutela. Non solo sei precario perché il tuo lavoro, se tutto va bene, finisce a giugno ma, se dovesse andare male, finisce all’istante e senza un briciolo di indennizzo. Del resto, lo smantellamento dei servizi pubblici più essenziali e la precarizzazione del lavoro pubblico rispondono ad un disegno ben preciso plasmato dalle politiche liberiste di austerità attuate in modo continuativo da trent’anni. Tagliare la spesa pubblica e allo stesso tempo depotenziare diritti e protezioni sociali per i cittadini e i lavoratori del settore pubblico significa incrementare direttamente o indirettamente povertà, precariato e disoccupazione dentro e fuori dal settore pubblico. Questi mali rappresentano il miglior carburante per una caduta generale dei salari nel complesso dell’economia dal momento che i lavoratori saranno indotti dalle peggiori condizioni di vita e dalla mancanza di alternative sul mercato del lavoro ad accettare condizioni sempre più miserabili. Immaginate come gongola la classe imprenditoriale italiana. Storicamente, il settore pubblico rappresenta infatti un punto di riferimento in termini di diritti e retribuzioni del lavoro: ogni volta che si attaccano i diritti dei lavoratori della scuola e della sanità si lancia un messaggio alle imprese, che rischia di diventare una tendenza generalizzata anche nel settore privato. E non può rappresentare un alibi per lo Stato la situazione di emergenza causata dalla pandemia. Perché lo Stato, nel momento di crisi, dovrebbe essere ancora più presente per far fronte alle necessità della popolazione e invece ne approfitta per dare un’ulteriore mazzata ai diritti dei lavoratori, già ridotti al lumicino dopo le diverse riforme del lavoro che si sono succedute in Italia negli ultimi trenta anni.
L’esercito degli educatori – Emiliano Schember
Un esercito di educatori marcia inarrestabile attraverso le periferie degradate, i centro città indecorosi, recidendo le sacche del disagio, sbaragliando la devianza, pacificando le indocili genti che pascolano senza vergogna ai margini della civiltà, redimendo chi è disposto a pentirsi della sua inadeguatezza e consegnando alla legge i recidivi.
Con una certa regolarità l’opinione pubblica è scossa da episodi di brutale violenza commessi da minorenni su altri minorenni o su adulti più o meno fragili. D’improvviso lo sconcerto si impadronisce dei più di fronte a video su YouTube nei quali indifesi insegnanti vengono impietosamente bullizzati dai propri studenti, ma anche di fronte a episodi ripugnanti come stupri di gruppo, accoltellamenti, pestaggi. È in queste occasioni che politici, giornalisti, spacciatori di opinioni, invocano gli educatori: un esercito di educatori. Questo mantra è il contraltare progressista di chi impugna il manganello, fa tintinnare le manette, chiede la galera per i genitori e l’abbassamento dell’età punibile fino al periodo fetale e sbraita per più esercito, più polizia, più carabinieri, ronde, porto d’armi in allegato ai quotidiani in edicola e pistole nei distributori automatici agli autogrill. Curiosamente a quest’ultima categoria appartengono i difensori della famiglia contro agli assistenti sociali, quando un bambino abusato da un parente viene portato in una comunità.
Il comune denominatore tra i sostenitori della società law & order e quelli della società liberale dove “tutti nasciamo uguali e con le stesse opportunità e poi saranno i nostri talenti a stabilire chi diventeremo”, è la tendenza a individualizzare il disagio: i ragazzi che commettono atrocità sono individui con qualche problema, risolvibile con la galera o con un percorso educativo a seconda dell’orientamento del maître à penser. Così come secoli fa, ancora oggi si tende a considerare il comportamento violento un problema d’indole o, addirittura, di spessore morale; quindi, se un ragazzino partecipa a uno stupro di gruppo, pesta un altro ragazzino o lo accoltella è perché è fatto così, è cattivo: “Franti tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise!”.
Se tutto si riduce a una questione morale, o qualche positivista potrebbe dire genetica, “perbacco è tutto scritto nel Dna!”, si capisce allora che tipo di esercito deve essere quello degli educatori: un esercito della salvezza. Nel caso della natura genetica del male passeremmo, addirittura, dalla missione salvifica a quella miracolistica! Non si capisce in base a quale particolare disposizione un educatore, nell’incontro empatico, si dice così, con il ragazzino deviante, dovrebbe mostrargli che la vita non è tanto male, che ci sono tante possibilità e che è solo una questione di volontà coglierle o meno. Ecco, è una questione di volontà. Quindi se non le cogli, le occasioni, è colpa tua.
Che poi l’educatore, se non è un volontario, sia un lavoratore precario, sfruttato, malpagato, frustrato, represso, calpestato, odiato, è una cosa che nessuno mette in conto, ma che potrebbe comprensibilmente inficiare la sua capacità di prospettare al ragazzo praterie sconfinate di possibilità. Meno che mai potrebbe essere, agli occhi del giovane deviante, un modello salvifico di identificazione.
Eppure, caso strano, nessuno nell’invocare l’esercito degli educatori rivendica un miglioramento delle condizioni di vita delle truppe. Neanche gli stessi soldati. Questo succede perché anche molti educatori si sentono investiti di una missione salvifica, sono convinti che il loro lavoro consista nel salvare gli assistiti, nel redimerli, nel farli diventare persone migliori. Anche molti educatori, quindi, condividono l’orizzonte morale del disagio giovanile, si possono far diventare buoni i cattivi: “Franti tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame scoppiò in un pianto disperato!”.
L’abnegazione personale, la vocazione salvifica, operando di fatto come fattori di rimozione delle condizioni di vita dell’educatore, che con il suo lavoro occupa un segmento preciso della catena di produzione e riproduzione sociale ed economica, nascondono la violenza di cui quelle condizioni di vita sono espressione. La precarietà lavorativa, che diventa precarietà esistenziale, che conduce tanti laureati di vario livello sulla strada della proletarizzazione o, in termini più contemporanei, dell’impoverimento rispetto alle condizioni economiche della famiglia di provenienza, è di fatto la manifestazione di una violenza sistemica che attiva un ascensore sociale al contrario, che spinge le persone verso il basso.
L’educatore che subisce questa forma non spettacolare di violenza incontra sulla sua strada giovani, provenienti spesso da contesti nei quali non c’è mai stata nessuna forma di ascensore sociale, né verso l’alto né verso il basso, che vivono un quotidiano fatto di relazioni affettive brutali, prive di elaborazione, inabilitanti sul piano cognitivo, che trovano nelle istituzioni come la scuola moltiplicatori di disagio per la pochezza e l’inadeguatezza dei mezzi e, talvolta, l’impreparazione del personale docente, che hanno nella violenza, in quanto possessori di un corpo, l’unica possibilità di affermazione e di riconoscimento rispetto al contesto nel quale vivono.
Non c’è una strategia esplicita, una pianificazione, al fondo dell’uso della violenza che i ragazzi fanno, ma l’esibizione di atteggiamenti aggressivi e il tentativo di imporsi attraverso l’esercizio nudo e crudo della forza sono una possibilità presente negli abituali rapporti sociali: chi ha visto Briatore imitare Trump in Apprentice Italia, può capire come a un ragazzo delle tante periferie urbane italiane possa venire in mente che prendere a calci un altro ragazzino per stabilire chi comanda sia tutto sommato lecito.
Di fronte a questo tipo di violenza, che non ha niente a che fare con l’indole o la moralità della persona, ma è la diretta espressione della nostra organizzazione sociale, la base su cui si fondano in gran parte le nostre relazioni anche affettive, l’educatore salvifico non ha strumenti, perché l’intento missionario con cui rimuove la consapevolezza della sua condizione di sfruttato gli impedisce di vedere le dinamiche sociali che sono alla base dei comportamenti violenti dei ragazzi. L’educatore con il suo fardello di violenza subita inconsapevolmente incontra il ragazzo con il suo bagaglio di violenza agita, ma non metabolizzata, e ne risulta disarmato, impotente.
Questa impotenza, quando non porta l’educatore al burn-out, lo spinge a rifugiarsi in una narrazione fantastica del suo lavoro nel quale ogni alito di vento è una dichiarazione d’amore, mentre la violenza delle relazioni sociali resta sostanzialmente immutata. L’esercito degli educatori è un album di figurine.
Più che salvare il prossimo e redimere i ragazzi, l’educatore dovrebbe partire da un profondo lavoro di coscientizzazione, che lo renda consapevole del senso del proprio lavoro. Per fare questo l’universo atomizzato e precario degli educatori dovrebbe attivare al suo interno delle sinapsi: entrare in contatto, abbandonare la narrazione dell’individuo come alfa e omega dell’esistente, che ha avvelenato l’umanità negli ultimi quaranta anni, e riscoprire la dimensione collettiva. Percepirsi e iniziare ad agire come soggetto collettivo pronto a fronteggiare un sistema di produzione e riproduzione sociale ed economico che ha nella marginalità, nell’alienazione e nella violenza che ne deriva il suo nutrimento. L’educatore dovrebbe riscoprire la natura sostanzialmente politica del suo lavoro.
All’università insegnano che l’intervento educativo per essere tale deve trasformare i soggetti e i contesti abitati dai soggetti. Però all’università nulla dicono su ciò che fonda i contesti; i giovani educatori lo scoprono sulla loro pelle e per lo più si rifugiano nel meccanismo rimossivo: nessun individuo può fronteggiare un intero modo di produzione. Ma come soggettività collettiva l’educatore potrebbe arrivare alla consapevolezza che un intervento educativo per essere tale deve mirare a essere rivoluzionario.
Allora il problema non sarà più pacificare un soggetto alienato facendogli ingoiare o rimuovere la sua alienazione, ma renderlo consapevole delle ragioni di una violenza che è solito agire senza elaborarla. In termini un po’ estremi si potrebbe dire che la funzione dell’educatore non è nascondere il sasso che il ragazzo sta per lanciare, né tantomeno convincere il ragazzo a non lanciarlo, dato che i motivi della sua rabbia vanno oltre il gesto in sé, ma aiutarlo a comprendere le ragioni profonde del suo gesto mettendolo nelle condizioni di scegliere se o contro chi lanciare il sasso.
“Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: – Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame baciò il Direttore sulla bocca!”.
Perché non voglio parlare di scuola – Gianluca D’Errico
Perchè in questo momento è più utile agire.
“Non crediamo agli assoluti” ma “nell’azione per una modificazione delle condizioni che ci circondano, e assieme a questa in una azione per la modificazione delle componenti fondamentali dell’uomo, per non parlare di quelle della società”. Questa è la frase che mi è risuonata in mente più spesso dall’inizio del cosiddetto lockdown, anche perché l’avevo letta da poco (grazie al volumetto I “Piacentini”: Storia di una rivista (1962-1980) di Giacomo Pontremoli dedicato ai “Piacentini” e pubblicato dalle Edizioni dell’asino). Goffredo Fofi la scrisse, sui “Quaderni Piacentini” appunto, in un articolo del 1967. La interpreto come un invito non certo allo stolto pragmatismo, ma al fare politico in contrapposizione alla postura intellettuale.
Dall’inizio della pandemia ho cercato gli altri, ho provato a fare gruppo, a confrontarmi, ad agire. Non sono stato mai “solo”. Potrei arrivare a dire che nessuna riflessione su ciò che è accaduto da febbraio 2020 a oggi sia stata, per me, una riflessione individuale. Qui a Napoli è nata una rete di insegnanti, educatori e genitori che già da inizio marzo ha cominciato a incontrarsi, telematicamente, con molta frequenza. Ne sono nati azioni e pensieri collettivi, ovviamente imperfetti, incompleti, frammentati: come tutto ciò che nasce nella condivisione. Un piccolo miracolo. E le parole che qui scrivo sono parole nostre più che mie.
Abbiamo dapprima, come molti, pensato che quello che stava accadendo poteva essere una “occasione” per la scuola pubblica. Un’occasione di ripensamento radicale e complessivo di quanto già nell’ordinario non ci piaceva. Il solo fatto che si era, per forza maggiore, disarticolato il lento fiume tranquillo della routine scolastica, rompendo tempi e ritmi che si ripetono uguali a se stessi da anni, apriva delle possibilità. Era da decenni (forse dalla Prima guerra mondiale) che la scuola nazionale, nella sua interezza, non restava chiusa (nella sua versione fisica e non virtuale) per così tanto tempo. È stata un’illusione momentanea, un brivido durato il tempo di pochi giorni. I primi decreti governativi ci hanno riportato con i piedi per terra: bambini e adolescenti non sono una priorità per questo Paese da sempre e la pandemia non ha cambiato il segno degli interventi.
Abbiamo affermato che i bambini non sono il futuro, perché sono il presente: portatori di diritti e desideri, qui e ora. Abbiamo chiesto, in pieno lockdown, spazio, strade chiuse al traffico per loro, la possibilità di uscire di casa in sicurezza, ancor prima di pretendere la riapertura delle scuole.
Abbiamo chiamato truffa semantica l’espressione scuola a distanza, bidimensionale ed escludente, individuando nella relazione l’elemento qualificante di qualsiasi processo di formazione.
Abbiamo parlato di medicina preventiva, dell’idea secondo cui le scuole potessero divenire presidi territoriali di cura e prevenzione (e non di mero controllo burocratico e medicalizzante); di didattica negli spazi aperti, criticando l’idea che scuola e edificio scolastico dovessero essere, per forza, sinonimi. Tutte parole sconfitte.
Poi le scuole hanno riaperto e i nostri peggiori incubi sono diventati realtà. Tanto è stato già scritto; a noi la cosa che è apparsa subito evidente è che chiedere così tanto, in termini di protocolli di organizzazione e gestione, ai singoli istituti senza garantire loro le risorse necessarie, significava provocare una rottura, forse definitiva, dell’unitarietà della scuola pubblica, uno sbriciolamento in cui i territori che partivano da una situazione ordinaria decente riuscivano a galleggiare, tutti gli altri nel fondo del mar. Sta succedendo esattamente questo. Con l’ulteriore carico che questa sporca faccenda di soldi oscura tutto il resto e che, oggi, parlare di didattica “democratica”, cura, ecologia delle relazioni, sembra un fatto da velleitari fuori dal mondo. Il cerchio si è chiuso.
Perché vorrei parlare delle persone e non degli oggetti.
Oramai, in quel distillato di paradossi che è il discorso pubblico sulla scuola, il più “doloroso” di essi può enunciarsi in questi termini: parlare di scuola equivale, in maniera quasi meccanica, a non parlare di bambini e adolescenti. Come se essi non fossero ragione prima e causa ultima di ogni organizzazione, struttura, carrozzone: il modo più comodo ed efficace di dribblare il dire e il pensare ai più piccoli è mettersi a parlare dei “fatti” della scuola. Per fare un esempio: pensate al penoso e ridicolo dibattito sui banchi monoposto con le rotelle (avevo giurato davanti agli dei che giammai avrei accennato a questo argomento, ma i tempi sono difficili per tutti…).
Al netto di tutte le osservazioni critiche (idee sulle quali una mente sana evita di soffermarsi), l’immagine che si attiva nella mente, anche in quella dei più avveduti, diciamolo, è quella del banco con sedia incorporata e non del suo “abitante”. Del banco: solo, nella sua vuotezza. E allora questo è un punto (forse il punto): la necessità di rimettersi in movimento nel faticosissimo viaggio “dal banco al suo occupante”, viaggio lungo a dispetto della vicinanza fisica, tortuoso, necessario. Viaggio doveroso già prima del Covid, ovviamente: ancora più urgente e arduo ai tempi della pandemia.
I più colti direbbero in maniera più appropriata: il viaggio dall’efficienza organizzativa all’efficacia pedagogica. L’emergenza sanitaria (e i suoi corollari sociali e culturali) ha inferto un colpo quasi mortale alla possibilità di riconoscere come necessario questo cambiamento di prospettiva; e se oggi diciamo termoscanner pensiamo all’oggetto e mai alla capoccia sulla quale il raggio laser (o mio dio, l’ho detto) va a posarsi (“sono arrivati i termoscanner?”, “chi li deve comprare i termoscanner?”), se diciamo “un metro tra le rime buccali”, mai una fottuta volta pensiamo alle bocche. Manco a dirlo: se diciamo mascherina pensiamo a oggetti che vivono di vita propria, autonoma, che prescindono dal viso (“porto a fare un giro alla mascherina” mi scrive un amico per comunicarmi che sta scendendo a fare quattro passi, rielaborando, senza manco saperlo, il miglior Luciano Bianciardi).
Dove sono finiti i bambini? Da marzo 2020 assistiamo a un processo di sparizione di massa.
E qui bisogna ridire senza stancarsi mai le parole ossessivamente presenti sulle pagine di questa rivista: parlare di bambini e bambine significa parlare di città, di spazi, dei tempi di lavoro dei loro genitori, parlare della mobilità, dei parchi, del lavoro di cura tutto o quasi sulle spalle delle madri; bambini e adolescenti non possono essere un “affare” che riguarda (solo) genitori e insegnanti; nell’emergenza la cancellazione della loro condizione fisica psichica e sociale dall’agenda mentale (prima che politica) del mondo adulto è stato l’atto più violento da essi subito.
E dire della “salute”, parola ameba già pesantemente degradata, oggi definitivamente appiattita sul misero significato di “assenza di malattia”: può il sistema di formazione di un paese muoversi (solo) con questo obiettivo tanto minimo? Che cos’è salute? Che cosa benessere? Oggi manco più un affare di medici (e già questa delega in bianco alla medicina andrebbe sottoposta a critica), ma di biologi, epidemiologi, forse prima ancora di addetti alle pulizie (“sanificare” è già verbo monumentale; fa ombra a “crescere”, “imparare”: secondari questi ultimi, inutili quasi, se non si sopravvive, no?).
La ragione principale è che la rabbia sopravanza, e di parecchio, la capacità di analisi in profondità (nella parola scritta è poi difficile far sentire l’urlo). A scrivere in questo particolare momento storico per “Gli asini”, ho come l’impressione di scrivere per una rivista straniera, appartenente a un altro stato. Nella scuola (e non solo nella scuola) la pandemia ha fatto deflagrare una questione territoriale impressionante. Che la questione meridionale con tutti gli squilibri e le contraddizioni che essa contiene sia una dato strutturale della nostra storia nazionale era già chiaro a tutti. La pandemia ha portato a conseguenze estreme questo squilibrio, mostrando con crudele limpidezza che la scuola al Sud non è forse mai stata veramente pubblica: gratuita, aperta, inclusiva, di massa. E non lo è stata non per le storture, essenzialmente pedagogiche, denunciate su queste pagine a più riprese.
La riapertura in tal senso è stata impietosa: muri, tetti, condotte fognarie, aule mancanti, trasporti pubblici ridicoli; sono le parole di sempre, non solo di oggi. L’emergenza si abbatte su un sistema già profondamente fragile e lo fa implodere. Nella città di Napoli il primo giorno di scuola è stato per molti il 28 settembre (in molte regioni si era già alla terza settimana di attività); della refezione scolastica non si parla nemmeno: le scuole che dovrebbero offrire il tempo pieno offrono a malapena 4 ore giornaliere. D’altronde l’anno scorso, anno no Covid, in alcune scuole la refezione, e quindi il tempo pieno, è partita a novembre… L’elenco sarebbe ancora triste, lungo e avvilente.
Ci sono scuole dell’infanzia che a oggi (10 ottobre) hanno offerto ben tre giorni di attività in tutto. Tre. Scuole superiori con 33 classi e 20 aule, scuole che dovrebbero essere già chiuse, ma non per Covid, per l’assenza delle minime condizioni di sicurezza e igiene. I doppi turni sono la normalità di sempre. Per non parlare del personale scolastico eternamente insufficiente, soprattutto per i soggetti più deboli (la cronica carenza di insegnanti di sostegno e assistenti materiali è il dato più eclatante e tragico).
Insomma, c’è un’asticella al di sotto della quale non è più scuola pubblica. Spesso abbiamo scritto che questi sono falsi problemi e che anche nelle super efficienti strutture formative del Nord del Paese si pratica, nelle aule, classismo, conformismo culturale, nozionismo e insopportabile autoritarismo. E su questo non c’è dubbio, ma fermarsi a questo senza osservare (anche) il tracollo del sistema sociale al Sud (e in esso della scuola tutta) rischia di condannarci a un atteggiamento snob e borghese. Nella città di Napoli ci sono diverse centinaia di bassi (le unità abitative poste al pian terreno e formate da un unico vano con un’unica porta che si apre direttamente sulla strada) per non dire dei quartieri di periferia. Per i bambini di quei luoghi (ma per tutti anche) il decoro di un’aula sarebbe già “salvezza” (anche se farcita con la peggiore pedagogia? Sì, tre volte sì) e invece la scuola riproduce, in tutto e per tutto, la precarietà materiale dalla quale essi provengono come a voler ratificare che “questa è la zuppa” e che condizione e condanna definitiva finiscono per diventare sinonimi.
Si salva chi può. Essenzialmente chi ha i soldi per pagarsi altro. Scuole private, più spesso le attività pomeridiane più disparate e “performanti”. È il capitalismo avanzato applicato alla didattica: un sistema pubblico putrescente (nel senso sia letterale che letterario) e tutto il resto in vendita, saldamente ancorato alla logica del profitto. Quando parliamo di privatizzazione dei sistemi di formazione non dobbiamo immaginare il padrone cattivo che si compra la scuola o pezzi di essa, ma la morte per inedia di quei sistemi, la loro irrilevanza per le vite di masse enormi di bambini, bambine e adolescenti e il conseguente emergere di nuove e più seducenti “agenzie”. Questo è il Sud, oggi; e sotto l’apparente coltre di arretratezza in realtà indica, a chi sa vedere, il futuro. E sia chiaro: questa non è una condanna, senza appello, alle persone che fanno la scuola al Sud; tra queste essendoci esempi, e non pochi, di professionalità e abnegazione fuori dal comune, veramente alti ed estremi. Forse addirittura si può sostenere che il livello medio tende verso l’alto (ecco un altro paradosso). Ma se un bravo macchinista o un bravo marinaio si ritrovano su una nave il cui motore è irrimediabilmente compromesso, non possono che “puntare” su una scialuppa di salvataggio.
Ecco cos’altro è la scuola meridionale: una flotta (piccola o grande a seconda del giudizio di chi guarda) di scialuppe di salvataggio, alcune delle quali anche bellissime e “poetiche”, ma sullo sfondo il “corpo grosso” della nave affonda. Anzi, l’esistenza stessa di tutte queste scialuppe è la prova definitiva che un naufragio è in atto. C’è bisogno di politica, non abbiamo il tempo di capire fino in fondo proprio tutto. Anche cercare d’istinto il giusto e l’ingiusto, essere disposti allo sbaglio; abbandonare la strada consolatoria della minuziosità delle analisi per l’imperfezione dell’agire politico, che non è solo azione, ma anche parola, polemica, posizionamento; insomma lotta. È quello che mi sento di urlarvi da questo mondo a parte che ha nome Meridione.
Il coraggio di cambiare di Azzolina e Bonomi – Maurizio di Masi, Roberta Pompili, Giuliana Visco
Scuola e contesto pandemico
Ormai è diventata una questione personale, ove l’interesse pubblico – qualunque esso sia – viene marginalizzato. Il concorso straordinario docenti che prenderà il via il prossimo 22 ottobre è l’obiettivo politico personale della Ministra Azzolina, rispetto a cui nulla conta il contesto reale del Paese, la seconda ondata di Sars-Cov2, ansie ed istanze di un’intera classe, quella de* docent* precar*, che come è italica tradizione viene sfruttata e marginalizzata all’occorrenza.
Partiamo allora dal contesto pandemico, che di fatto ha riportato alla luce l’importanza di indagare il rapporto pubblico/privato, analizzando come si è modificata la relazione fra i due e quale ruolo tende ad assumere in questa fase di emergenza il pubblico[1]. Innanzitutto l’evidenza ha mostrato, oltre le narrazioni catastrofiche che potevano apparire viziate dalla condizione di sfruttamento di chi le viveva, lo stato reale in cui versano le Istituzioni del Welfare in Italia, ciò che ne rimane, quanto siano fondamentali come infrastruttura democratica in un Paese esso stesso precario come il nostro.
La fotografia che ne è emersa è forse ancor più desolante della narrazione.
Il forte senso di precarietà indotto dal primo lockdown e dalla prolungata paralisi di diversi settori produttivi ha fatto emergere il generalizzato bisogno di Welfare, emersione che ha infranto il mito neoliberale secondo cui la regolamentazione migliore sarebbe quella lasciata all’autonomia privata, mostrandone tutta la fragilità ideologica.
Il coronavirus ha avuto anche il merito, e va sottolineato, di aver stimolato pratiche solidaristiche importanti, di aver incoraggiato forme di mutuo aiuto fra le diverse soggettività che animano la scuola (docenti – alunn*- genitor*), così dando una significativa consistenza al comune[2].
Se la scuola è sempre stata una realtà complessa, il suo scopo primario nella nostra Repubblica è tuttavia stato il libero sviluppo della persona in formazione. Lo sottolineava efficacemente Stefano Rodotà, ricordandoci come la scuola pubblica sia un vero e proprio organo costituzionale, la prima e più importante Istituzione: “Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l’attenzione, invece, è sempre più rivolta al “settore produttivo”, si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro”[3].
Il principio del libero sviluppo della persona (Artt. 2 e 3 Cost.) dà sostanza e orientamento allo stesso diritto all’istruzione di studentesse e studenti previsto dall’art. 34 della Costituzione. Ciò giuridicamente implica che pure l’amministrazione statale deve conformare l’organizzazione scolastica nel modo più congeniale possibile alle diverse soggettività che “abitano” la scuola. La stessa Corte costituzionale ha sottolineato efficacemente come organizzazione e diritti siano“aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non sia condizionato dall’organizzazione”[4].
Oggi, però, lo scopo primario della scuola pare essere transitato maggiormente verso l’aspetto funzionalmente economico, nella formazione di consumatori e lavoratori più che di persone, come d’altronde Confindustria, che pare avere un ruolo di assoluto primo piano nelle decisioni governativa, ha confermato pochi giorni fa.
A conferma che, nella sospensione dovuta alla pandemia, il tema della necessità di una programmazione statuale è divenuto quanto mai evidente, e in questa programmazione la scuola pubblica ha giocato e gioca un ruolo economicamente fondamentale. In tal modo, però, si accelera una deriva neoliberista della scuola pubblica, già da tempo sotto assedio.
Pare legittimo, difatti, chiedersi a quale programmazione pubblica ha pensato il Ministero dell’Istruzione. Il pubblico quale obiettivi ha voluto perseguire?
L’obiettivo concreto della riapertura delle scuole a settembre, infatti, non è di certo stata la declamata tutela del pur fondamentale diritto allo studio di studentesse e studenti, che resta penalizzato nella sua continuità dalle crescenti quarantene di classe o dalla mancanza di organico resa farraginosa se non impossibile dalle novità introdotte dalle graduatorie provinciali (GPS). L’obiettivo vero della riapertura delle scuole a settembre è stato quello di consentire che l’ingranaggio economico potesse ripartire, togliendo i minori (scomodi, untori, vittime a seconda del contesto, mai soggetti sempre oggetti funzionali alla giustificazione di scelte sulla loro pelle) dalle case per permettere, comprensibilmente, ai genitori di tornare regolarmente al lavoro. La scuola, quindi, è stata caricata di un surplus di Welfare che strutturalmente non può durare molto e che potrebbe portare alla sua chiusura in presenza coll’aggravarsi della pandemia[5].
Ad ogni modo la scuola è ricominciata, all’estate è seguito l’autunno con l’evidente ripresa dei contagi come annunciato da marzo e con essa la possibilità continua e a geometria variabile delle quarantene. Ma già alla prima quarantena la scuola inizia a scricchiolare: quando la classe viene messa in quarantena preventiva, difatti, dovrebbe essere garantita la didattica a distanza, ma non dai docenti della classe – anche essi in quarantena – che sono considerai in malattia e dunque non devono (non possono) lavorare[6]. Sicché la continuità didattica viene comunque penalizzata, con ripercussioni sul diritto all’istruzione di studenti e studentesse, già provati da una apparente “normalità” costruita artificialmente, che l* costringe a un disciplinamento rigoroso: seguire lezioni con mascherine, ridimensionare la socialità, evitare di condividere materiale scolastico, mantenere il distanziamento sociale per le ore di lezione. Rigore che però sembrano aver compreso responsabilmente più gli studenti di molte altre figure, negazioniste di nome o più semplicemente di fatto.
Durante l’estate è stata costruita una campagna grottesca finalizzata a rappresentare l’istituzione scolastica come istituzione totale COVID-free per eccellenza, con banchi adeguati, distanza più o meno garantite, dispenser di gel igienizzante in ogni classe, mascherine per tutte e tutti. Il tutto “garantito” dalla confusione e schizzofrenia del decentramento del governo della scuola pubblica e quindi di fatto da un’assoluta disparità regionale, disomogeneità e incuranza di “chi rimane indietro”.
Detto questo, possiamo dire che la programmazione della Ministra sia stata da una parte una operazione di propaganda, dall’altra una velocizzazione del processo di autonomia scolastico con la strutturazione delle graduatorie (GPS) non più a carico della amministrazione centralizzata dello stato: di fatto rispetto alla tutela del diritto allo studio e al contesto pandemico una programmazione contraria ad ogni buon senso e razionalità che dovrebbe di default appartenere a chi governa, quanto meno. La programmazione si è rivelata infatti priva di qualsiasi piglio e previsione sistemica, non coordinata con il mondo reale, con il sistema dei trasporti urbani ed extraurbani, con le altre amministrazioni territoriali. Perché la scuola non è un compartimento stagno, non è solo un luogo fisico da preservare. La salute dei cittadini e delle cittadine va garantita a 360° anche prima e dopo la scuola, altrimenti si vanifica tutto il lavoro svolto per rendere la scuola, al suo interno, sicura e salubre, come d’altronde dimostra il crescente numero dei contagi e delle classi messe in quarantena fiduciaria. Anche da noi, come per la verità in altre esperienze maggiormente stataliste quali la Francia, il crescente bisogno di Welfare si è infranto in una generalizzata disorganizzazione del pubblico. La scuola, in particolare, ha mostrato una forte ma inefficace presa della decisione pubblica e una debole capacità programmatoria, causata da una deliberata decisione politica e strutturale (dell’insieme dei governi che si sono avvicendati) che nel tempo ha tagliato risorse fondamentali da destinare all’istruzione, così scegliendo di mantenere una inadeguata edilizia, personale precarizzato, affollamento delle classi.
Oltretutto resta il dubbio che, al di là del clamore mediatico e dell’egotismo della Ministra, tutto il fardello organizzativo e le connesse responsabilità siano state scaricate sui singoli Dirigenti scolastici… Nessuna delle significative indicazioni avanzate dalle mobilitazioni spontanee che si sono date ovunque in Italia, nonché dall’attivismo di Priorità alla scuola (coordinamento nazionale di genitori, insegnanti, studenti e personale ATA) sono state raccolte per la messa in moto della macchina scolastica a partire da quella di trasformare la scuola in un importante presidio sanitario con un adeguato e formato personale.
Certificare le vestali della nuova scuola
In questo desolante contesto, però, il concorso straordinario docenti per la Ministra Azzolina si deve fare. A nulla serve la constatazione che, per esigenze epidemiologiche, altri concorsi sono stati rinviati già prima dell’ultima impennata dei contagi da COVID-19. Quel che conta è che resta invariato il concorso per Carabinieri. A dimostrazione che, ad esempio, future/i magistrate e magistrati, o dipendenti del Comune di Roma, sono meritevoli di tutela, ma i e le docenti precari(e) no. Loro non solo vanno utilizzat* in massa, non senza ritardi nell’assunzione (ulteriore problema organizzativo sfuggito alla Ministra Azzolina e al farraginoso e già citato sistema delle GPS), per far ripartire l’anno scolastico, ma nella situazione attuale devono svolgere il concorso, molto spesso dovendo anche raggiungere altre Regioni[7], se vogliono la stabilizzazione del posto, se aspirano ad una loro dignità sociale: tutto il resto non conta. Non conta la pandemia, in termini concreti: chi sarà sfortunatamente in quarantena o in isolamento fiduciario nelle date del concorso semplicemente è stato sfortunato e non lo farà, una sorta di darwiniana selezione naturale insomma.
Non conta neanche la situazione psicologica condivisa da questa tipologia di lavoratori, dopo la DAD forzata e improvvisata imposta loro lo scorso anno scolastico, dopo l’attesa delle convocazioni inconciliabili con la preparazione del concorso, dopo il terrore del contagio non solo per la propria salute e quella dei propri “congiunti”, perché non è prevista alcuna prova suppletiva in caso di COVID-19, né di quarantena forzata, né di isolamento fiduciario. Non contano le mobilitazioni degli stessi docenti, le voci che si sono alzate, né le rivendicazioni sostenute dall’insieme delle parti sindacali. Per non parlare dell’annoso problema della rappresentanza sindacale dei lavoratori e delle lavoratrici precarie[8].
Tuttavia la necessità del concorso non è davvero messa in discussione da nessuno. Il problema, rebus sic stantibus, è il quando. Poi, politicamente, qualche considerazione merita pure il come. Si avverte infatti la necessità di una ricostruzione degli interessi collettivi in gioco maggiormente consapevole della concretezza della situazione cui versa il precariato della scuola da ormai troppi anni.
Ma sul punto il Ministero è sordo, e procede dritto in maniera autoritaria. “Io insisto molto – ha spiegato Azzolina – perché i concorsi nella scuola si facciano perché in questo modo si assumono veramente i precari rispettando la Costituzione, secondo un principio anche di merito. Sfatiamo il mito che non si possono fare i concorsi. Il giorno 22 ottobre è l’inizio delle prove”[9].
Su questo “principio del merito”, vero e proprio mantra neoliberale[10], che occorre prima spendere qualche breve riflessione. Parola insidiosa e ambigua, il “merito” finisce per giustificare storture sistemiche di non poco conto, facendo per altro serpeggiare l’idea che gli attuali insegnanti precari non siano meritevoli. Non basta una laurea, talvolta master e dottorati e corsi di perfezionamento pagati cari e con i propri risparmi al business della formazione privata per acquisire qualche misero punto in graduatoria, l’acquisizione dei famigerati 24 CFU in materie antropo-psico-pedagogico e nelle metodologie e tecnologie didattiche, l’esperienza accumulata in diversi (o anche molti) anni di attività sul campo. Per attività sul campo, si intende in aula, nella relazione concreta con i colleghi, ma soprattutto con le studentesse e gli studenti. Le e i docenti italian*, “capitale umano” indispensabile per permettere alle scuole di funzionare e garantire un servizio pubblico essenziale, devono dimostrare sempre di più.
Devono sottoporsi ad un concorso per esame – una modalità alquanto tradizionale in beffa alla decantata innovazione di cui vari riformatori recenti si sono vantati – che ha modalità ancora poco chiare, e che comprende come presupposto lo studio di programmi ministeriali sproporzionati, eccessivamente contenutistici, ma anche l’apprendimento delle nuove metodologie didattiche neoliberali (la learnification nel new public management) e in più, ovviamente, continuare a lavora per la scuola che senza loro non potrebbe neanche aprire.
Di questo concorso, cui non esistono motivi ragionevoli per non spostarlo ad emergenza pandemica terminata, è chiara solo la forte matrice ideologica, quella che mira a constatare che gli aspiranti docenti di ruolo abbiamo acquisito realmente gli strumenti per espletare il ruolo di “sacerdoti della scuola neoliberale”. L’insegnamento, infatti, è diventata sempre più una “professione normata” così minuziosamente da anni a questa parte, da schiacciare la libertà di insegnamento (Art. 33 Cost.) dentro il tunnel della somministrazione di test, questionari, INVALSI: dentro il comando del capitale cognitivo gli insegnanti si trasformerebbero in un ingranaggio in grado di ammaestrare la forza lavoro nella maniera più congeniale al mercato, operatori e operatrici addett* a plasmare le soggettività in formazione in senso neoliberale e a controllare le condotte dei discenti. Tale formazione, difatti, assume al cuore del suo progetto le famose “competenze”, che nella traduzione corrente si declinano nel sapere (fare per) essere (produzione di soggettività) dentro la relazione, ma anche in competizione individuale e individualizzata con gli e le altr*, insieme al saper fare e sapere (come fa ben nota di sapere nel suo documento Il coraggio di cambiare il presidente di Confindustria Carlo Bonomi). L’esito delle condotte-competenze raccolte nel portfolio nel tempo come indicato dalle indicazioni e Linee guida nazionali sarà alla base della certificazione de* student* in una scuola sempre più legata agli interessi di un mondo del lavoro profondamente modificato. Senza entrare nel merito delle trasformazioni della scuola che sono dettate dal passaggio di un modello fordista (riconfigurato anche alla luce da decenni di lotte) al modello della scuola del capitalismo cognitivo, in questa sede vogliamo sottolineare come questo passaggio in questo preciso momento si consolida con un salto di violenza simbolica e materiale sulla pelle di migliaia di precar*. Il coraggio di cambiare di Bonomi, infatti, pare a buon titolo sposarsi proprio con l’azione politica di Azzolina, che in una scuola pandemica e accerchiata da più parti non pare mollare minimamente sull’imminente concorso a riprova che il decantato “merito” di cui la Ministra parla ha l’effettivo merito di rappresentare la misura di un cambio di velocità che il capitale ha dettato e che ha proprio al centro il Welfare, e soprattutto la scuola. Perché allora stabilizzare e assicurare dunque tutele ufficiali lavorative a migliaia di vecch* precar* che lavorano da anni nella scuola, quando l’obbiettivo è quello di produrre una nuova soggettività, prima di tutto tra gli stessi insegnanti, che devono essere in grado di dimostrare pubblicamente – attraverso anche le forche caudine di un concorso che ha ormai assunto la forma di una rituale collettivo di umiliazione – di avere introiettato bene ed entusiasticamente la lezione, quella di dover diventare le vestali del merito della scuola del new public management?
Eppure, si diceva, tutt* aspettano un concorso. Non a queste specifiche condizioni, però. Senza considerare che non necessariamente il concorso pubblico deve essere per titoli ed esami, potendosi prevedere, tanto più in situazioni straordinarie, un concorso per soli titoli (come ad esempio avviene per il personale tecnico-amministrativo delle scuole), o anche un concorso per titoli ed esame orale.
O anche una verifica effettiva su un’annualità di servizio, insomma pare che tutt* per questa ammaccata società desiderino insegnanti su cui scaricare frustrazione e umiliazione, mentre al contrario dovrebbe essere una figura professionale significativa: una figura in grado di trasmettere fiducia nel futuro, passione per il sapere critico, autonomia di giudizio e di azione, senso civico e di responsabilità per il prossimo, passione per la “cosa comune”.
In chiusura va dedicata una riflessione al ruolo delle donne in questa battaglia cieca contro l’irrazionalità e l’arroganza di questa Ministra, seppur donna e più in generale alla gestione – sociale – del contesto pandemico. Non è retorico dire che le donne hanno scontato le criticità del lockdown e la sofferenza inflitta dalla pandemia in modo soggettivamente più violento rispetto agli uomini, in particolare quello specifico tipo “maschio bianco etero” che ancora pretende di governare il mondo. Seppur messo a tacere nei contesti mainstream come discorso retorico e risolto con la cessione di quote rosa, la battaglia femminista disvela ad esempio quanto la casa venga riaffermata come perno concreto e simbolico della supposta equivalenza tra donne e attività di cura e riproduzione sociale. Che siano le donne a doversi fare carico di figli e figlie mentre le scuole sono chiuse o in modalità didattica mista è dato per scontato, tanto che anche in ambito lavorativo sono ricorrenti i riferimenti all’inclinazione naturale delle donne al lavoro di cura. Nella scuola poi tali riferimenti si caricano di missione resa inevitabile dall’istinto materno di cui le donne sono portatrici dalla nascita.
E la Ministra e il suo apparato confidano evidentemente in queste “qualità” di genere, visto che le ultime statistiche rispetto alla percentuale di donne impiegate nella scuola supera l’80% del totale.
[1] Cfr. M. R. Marella, G. Marini, L. Nivarra, Editoriale, in Rivista critica del diritto privato, n. 1-2/2020, p. 1 ss.
[2] Si rinvia a R. Pompili, “Una scuola fantastica”, EuroNomade, 22 settembre 2020.
[3] S. Rodotà, Se l’istruzione per tutti diventa un bersaglio, in La Repubblica, 3 marzo 2011, reperibile on-line al link https://www.repubblica.it/scuola/2011/03/03/news/se_l_istruzione_per_tutti_diventa_un_bersaglio-13116097/.
[4] Corte cost., 27-11-1998, n. 383. In dottrina, sul nesso fra organizzazione e diritti costituzionalmente garantiti, cfr. G. Rossi, Principi di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2010, p. 111 ss.
[5] Paradigmatico il caso Campania e la parziale marcia indietro che De Luca ha dovuto fare a seguito della chiusura incondizionata di tutte le scuole lo scorso 15 ottobre con l’ordinanza n. 79: ordinanza subito modificata il 16 ottobre, anche su richiesta sindacale, per lasciare aperte almeno nidi ed asili (ordinanza n. 80: http://www.regione.campania.it/assets/documents/ordinanza-n-80-16-10-2020.pdf).
[6] Ciò è sottolineato anche dal Rapporto ISS COVID-19 n. 58/2020 Rev. – Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di SARS-CoV-2 nelle scuole e nei servizi educativi dell’infanzia. Versione del 28 agosto 2020.
[7] Durante la fase di compilazione della domanda le candidate e i candidati hanno scelto la regione in cui partecipare e in cui otterrà l’immissione in ruolo, facendo attenzione alle aggregazioni territoriali. Il Ministero scrive infatti nell’avviso pubblicato in GU del 29 settembre “Ai sensi dell’art. 400, comma 02, del testo unico, in caso di esiguo numero dei posti conferibili in una data regione, l’USR, individuato nell’Allegato B del D.D. n. 783 dell’8 luglio 2020 quale responsabile dello svolgimento dell’intera procedura concorsuale, provvede all’approvazione delle graduatorie di merito sia della propria regione che delle ulteriori regioni indicate nell’Allegato B medesimo.
Pertanto, i e le precari(e) che abbiano presentato domanda per le regioni per le quali è disposta l’aggregazione territoriale delle prove, espleteranno le prove concorsuali nella regione individuata quale responsabile della procedura concorsuale. Alla faccia delle esigenze epidemiologiche!
[8] D’altronde i sindacati e la loro capacità di incidere per l’effettiva tutela dei lavoratori sono un capitolo a parte nell’attuale storia italiana.
[9] Vedi Concorso straordinario, Azzolina: insisto perché si faccia. 22 ottobre inizio prove e saranno sicure, in OrizzonteScuola.it, 16 ottobre 2020.
[10] Cfr. M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza, 2019; e la seconda edizione di V. Pinto, Valutare e punire, Napoli, Cronopio, 2019.
Il silenzio dell’Università e le responsabilità del ceto politico – Piero Bevilacqua
(Ripubblichiamo una riflessione di Piero Bevilacqua, in forma estesa, già uscita sul Manifesto del 2/10/20)
Un sovrumano silenzio e una profondissima quiete gravano sulla vita dell’Università italiana e il fatto che a custodire tale pace mortuaria, sia, in qualità di Ministro, un ex rettore, un uomo che viene da quel mondo, mi confermano in una desolata convinzione. La nostra Università, quale protagonista attivo della vita civile del Paese, è fisiologicamente morta. E non l’ha uccisa il Covid 19, ma un insieme di processi e di scelte, che l’hanno radicalmente trasformata.
Intanto, va ricordato che è antropologicamente cambiato il corpo dei docenti. Da 10-15 anni ha lasciato l’insegnamento un’ampia schiera di almeno due scaglioni, di quella che potremmo chiamare la generazione dei maestri. Studiosi che dagli anni ’50 in poi hanno portato, accanto ai saperi delle loro discipline, un grande afflato civile, legato alle sorti del paese. Ad essa è seguita un’altra generazione di insegnanti, coloro che da studenti hanno attraversato l’esperienza del ’68 e comunque si sono formati nell’Italia dei conflitti sociali e delle grandi manifestazioni di massa.
Oggi, nella fascia alta dei docenti, dominano figure anche scientificamente attrezzate, ma che vivono il proprio lavoro come un ritaglio specialistico, finalizzato a dei risultati da certificare presso agenzie di controllo. Sono inoltre sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, soffocati da compiti organizzativi mutevoli, spesso di difficile comprensione, da pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni che sottraggono tempo alla ricerca e a un insegnamento non di routine. E’ comprensibile che questi docenti non abbiano molti legami con la vita politica e culturale della società. Più in basso abbiamo le figure dei ricercatori, che devono attraversare un lungo purgatorio di precarietà e che sono impegnati non a realizzare ricerche fondative per il proprio profilo di studiosi, ma per produrre quanto più possibile titoli – anzi “prodotti” come vengono definiti con gergo di fabbrica – per salire la scala della carriera accademica.
Qui, al gravissimo scadimento scientifico e culturale, che dà luogo a pubblicazioni seriali di brevi articoli e saggi di scarso valore, si accompagna una subalternità politica assoluta dei giovani ricercatori. Grazie alla riforma Gelmini queste figure, oggi come nel peggiore passato, debbono la propria possibilità di carriera alla fedeltà ai professori ordinari, e soprattutto alla propria latenza politica, al loro carrieristico conformismo.
Infine un altro grande mutamento ha cambiato i connotati degli studenti. Costoro, in linea di massima – e questo appare in maniera parossistica nelle Facoltà umanistiche – non studiano delle discipline per percorrere un itinerario formativo, ma vanno a caccia di crediti da mettere insieme secondo una disposizione cumulativa, finalizzata ai risultati, che distrugge alla radice lo studio quale esperienza di riflessione, acquisizione critica, plasmazione spirituale. I ragazzi oggi non ascoltano lezioni, ma corrono da una cattedra all’altra a raccattare punteggi. E occorre ricordare che mai una generazione era stata così tenacemente avversata, come quella dei nostri ragazzi, ai quali viene impedito di proseguire negli studi con ogni mezzo, dal numero chiuso in tante facoltà all’aumento delle tasse universitarie.
Da questo mondo regredito, schiacciato sotto il peso di una ideologia produttivistica che soffoca ogni visione generale, incatenato alla precarietà, non può più venire alcun moto di ribellione, né tanto meno un conato di revisione dello status quo. E’ necessario che a intervenire sia dunque il ceto politico di governo e lo deve fare al più presto , anche perché molti miglioramenti sono possibili senza esborsi finanziari. E’ necessario abolire l’ANVUR e i suoi criteri di valutazione industriale della ricerca, cancellare i crediti a partire dal lemma finanziario che li designa, rivedere il 3 più 2 e i percorsi delle lauree brevi, riformare i criteri dell’accesso alla docenza, bandendo la precarietà che è il vessillo funesto dell’ideologia neoliberistica, la pestilenza culturale universale da cui dipendono i fallimenti a catena del nostro tempo.
Nell’Università è urgente un’opera demolitrice di delegificazione. Liberiamo i docenti da compiti inutili di controllo produttivistico. Ma forniamo anche risorse per fare accedere una nuova leva di docenti, che ha accumulato studi ed esperienze e vive ai margini. Nel momento in cui l’UE rivede alcuni dei suoi erronei fondamenti costitutivi, occorre ricordarsi che l’Università è una loro vittima, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna”. Non avrei tante speranze, tuttavia, in queste possibilità, se non fosse che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha annunziato un convegno internazionale sul nuovo umanesimo. Dopo decenni di emarginazione dei saperi umanistici dalle nostre università e dalla considerazione pubblica, questa è una novità che sorprende e che ci dà qualche speranza.
Sull’inerzia della classe (e l’innovazione a scuola) – Roberto Contu
Come si fa
Per spiegare cosa intendo per inerzia della classe e provare a dimostrare quanto sia importante averne coscienza soprattutto oggi, mi tocca raccontare un aneddoto che mi è capitato qualche giorno fa. A scuola faccio le ultime due ore, in un quinto anno ottimo, disciplinato, che ho la fortuna di avere da tre anni: la classe ideale. Lavoriamo, andiamo avanti, leggiamo, discutiamo fino alla campanella delle tredici e quaranta. Tornato a casa, lancio la borsa sul divano e poi mi ci lancio anche io, sono distrutto. Entra un secondo dopo mia figlia, al ritorno dalla scuola anche lei e mi fa: «ma che hai fatto? Sei morto!». Le rispondo: «sì, sono stanco morto», e lei: «scusa, non hai le stesse classi dell’anno passato?». «Veramente il quinto ce l’ho da tre anni». «E non sono quelli bravi che mi dici sempre?», mi incalza. «Sì, sono loro» provo a difendermi. Ma lei: «ti sei dimenticato come si fa? Non dovrebbe essere più facile dopo più di due anni insieme? Se sei ridotto così dopo tre settimane non ci arrivi a giugno». Poi mia figlia se ne va in camera sua, lasciandomi solo sul divano, appeso a quel «ti sei dimenticato come si fa?». La domanda non è peregrina, ma comunque la risposta non tardo troppo a darmela: certo che non mi sono dimenticato come si fa, mi dico, tanto più in quella classe dove le cose sono andate bene per due anni. Ma il fatto è che, a forza di stare insieme, a fronte di un rapporto che dura scolasticamente da tanto, in due anni ogni giorno ho dovuto imparare, anzi combattere con l’ostacolo naturale del «come si fa». Scontato no?
L’inerzia della classe
No che non è scontato, e quindi provo a spiegarmi. Due anni con una delle migliori classi mai avute e perciò nella migliore posizione possibile, mi hanno comunque messo giorno per giorno, minuto per minuto, difronte a quella forza vischiosa e sfiancante che definisco l’inerzia della classe. Di che si tratta? Esiste una resistenza naturale, una forza che spinge in senso contrario, una tensione continua con cui fare i conti nella vita di una classe (anche la migliore, figuriamoci le peggiori) e che in genere emerge dopo la prima e sempre più risicata fase in cui la novità lascia ancora docente e studenti sul chi va là. Un’usura naturale alla quale sono sottoposte tutte le strategie didattiche, i canali virtuosi, le lezioni che sappiamo avere più probabilità di successo, fino anche alle battute che sappiamo hanno sempre fatto ridere. Ebbene, l’unico rimedio possibile a questa resistenza, che è scritta nel dna stesso del fare scuola, è di fatto la rimodulazione continua e adattiva di tutta la propria funzione ai minuti, ai giorni, agli anni che passiamo in una classe. Quella roba che insomma l’altro giorno mi ha fatto stramazzare sul divano e che, a dirla tutta, forse ha a che fare con quell’inerzia della vita che tutti conosciamo e che a un certo punto ci insegna che la partita della nostra esistenza non si gioca tanto sulle vette delle grandi gioie o gli abissi dei grandi dolori, quanto sulla fatica di percorrere la pianura del giorno dopo giorno. Beh, scontato anche questo no? Eh sì che siamo già al secondo paragrafo.
La soluzione geniale e istantanea
Ma il punto è, ed è qui che volevo arrivare, che quando poi si parla – da fuori soprattutto – di scuola, a nessuno viene in mente di considerare l’inerzia della classe. Negli ultimi tempi in modo plateale, ma in fondo oramai da anni, chi sta a scuola vive questa situazione un po’ paradossale per la quale, sia che parli il responsabile della grande fondazione (che la scuola la guarda da fuori), sia che parli il grande nome mediatico (che la scuola la guarda da fuori), sia che parli l’esperta o l’esperto (che la scuola la guardano da fuori, magari dopo esserne usciti), si trova difronte al giudizio sempre apodittico, alla soluzione sempre istantanea, alla formula sempre magica (ma come avevamo fatto a non pensarci prima) che di colpo risolverebbe tutti i problemi. E non si tratta nemmeno di entrare nel merito di quanto si vada affermando: capita di vedere lo stesso atteggiamento in chi denuncia la crisi atavica del sistema scolastico in toto come in quelli se la prendono paternalisticamente con quella palla al piede chiamata insegnante, nei fautori del definitivo salto iperspaziale nel digitale come anche nei difensori strenui del ritorno alla scuola della predella della cattedra, in quelli che «lo studente al centro, sparisca l’insegnante» e in quelli che «l’insegnante sono io, che generazione ingrata abbiamo allevato». Insomma a tutta la società, al mondo, all’universo intero sembrerebbe chiaro come risolvere i mali della scuola e fare funzionare le classi, ma soprattutto attraverso una formula istantanea e risolutiva. Ma perché a tutti sembra chiaro tranne a chi a scuola ci lavora magari da trent’anni?
Essere parte non tutto
Delle due l’una. O in effetti la classe docente, ma in generale chi a scuola ci lavora, s’è definitivamente persa e perso tra i fumi dei gessetti e della polvere dei libri o forse chi sta a scuola vede qualcosa che da fuori o non si vede, o meglio, di cui non si fa esperienza. La partita della scuola, ma diciamolo pure, quella dell’educazione, si gioca sul tempo lungo della complessità, l’unico capace di risignificare il tempo brevissimo dei cambiamenti dei ragazzi tanto che, lo confesso, io che dopo sei mesi di digiuno d’aula mi sento di dovere recuperare in fretta e furia il ritardo di comprensione accumulato in questo tempo, mi domando con quanta leggerezza d’animo si possa essere così assertivi nei giudizi addirittura senza mai essere entrati in un aula. I tempi lunghi contemplano dunque quell’inerzia della classe che, a volere essere concreti, impone comunque al docente in buona fede e quindi senza preclusioni di sorta verso nessuna miglioria proposta (ben vengano tutte se valide) la coscienza dell’usura naturale a cui è soggetto ogni approccio progettuale, didattico financo umano che sia: perché nessuna chiave è risolutiva, perché non esiste un’unica chiave e per altro le millanta che servono si sbeccano continuamente. Tutto ciò per essere disfattisti? Tutt’altro, semplicemente invece per sottoporre a tutti coloro che lecitamente o meno si affollano tra le file di chi vorrebbe salvare la scuola, la necessità di un bagno comune di umiltà, o meglio di considerazione più realistica della questione. Perché, finché l’innovatore farà la guerra al giapponese della lezione frontale (ma anche viceversa), il sacerdote del digitale inveirà contro il propalatore di fotocopie (ma anche viceversa), l’esperto o l’esperta vorranno crocifiggere l’antidemocratica classe docente (ma anche viceversa), mi pare che al di là del triste gioco delle parti messo in scena, difficilmente la scuola tutta ne potrebbe trarre giovamento. Di contro l’inerzia della classe ci dice una cosa importante: che la questione si gioca su tempi che non sono quelli di un post o di un tweet e che l’approccio a una questione complessa non può che essere complesso. Semplificando molto, ci dice insomma che i partiti della lezione frontale, delle conoscenze, quello dell’innovazione sempre e comunque, della didattica delle competenze, dovrebbero prendere coscienza, anziché della smania dell’eliminazione reciproca, dell’esigenza di essere parte di un unico sistema perennemente mutante, che potrebbe e dovrebbe rigenerarsi in modo continuo e vicendevole grazie alla dialettica sana tra le parti conservative e innovative che da sempre lo compongono. Che poi, a essere sinceri, mi pare che noi docenti queste cose per i corridoi ce le diciamo continuamente, da sempre.
FACTORY SCHOOLS – DISTRUGGONO I POPOLI INDIGENI NEL NOME DELL’EDUCAZIONE
“A scuola, gli insegnanti dicono che siamo sporchi. Ci chiamano porci e cani.”
Rahman, Orang Asli, Malesia
Oggi, circa due milioni di bambini indigeni di varie parti del mondo studiano nelle “Factory School”, ovvero in scuole residenziali finalizzate all’assimilazione, dove gli strappano l’identità indigena e li indottrinano per conformarli alla società dominante.
Ci siamo dati l’obiettivo di mettere fine a queste fabbriche dell’assimilazione. I popoli indigeni e tribali devono mantenere il controllo della loro educazione, che vogliono sia radicata nella loro terra, nella loro lingua e nella loro cultura, rendendoli orgogliosi di loro stessi e dei loro popoli.
Aiutaci a restituire ai popoli indigeni il controllo della loro educazione.
Per le Factory School, l’essere indigeni è qualcosa di “sbagliato”
“L’educazione” fornita nelle scuole per l’assimilazione mira a “correggere” quello che ci sarebbe di sbagliato nell’essere indigeni. Si vantano di fornire ai bambini indigeni i mezzi per avere “successo” nella società dominante, ma la storia dimostra che queste scuole distruggono intere vite, provocano traumi e devastano i bambini, le loro famiglie e le loro comunità per generazioni.
Le Factory School nel passato
Nei secoli XIX e XX, le Factory School erano note in Canada, Australia e Stati Uniti come “Scuole Residenziali” o “Collegi”. Nel solo Canada, vi sono morti più di 6.000 bambini – ovvero uno studente ogni 25.
Il trauma inimmaginabile prodotto da questo sistema ha lasciato in molte comunità una cruda e dolorosa eredità, con alte percentuali di depressione, suicidi e abusi di alcol e stupefacenti.
È inconcepibile che scuole di questo genere possano esistere ancora, ma attualmente se ne contano migliaia tra Africa, Asia e Sud America.
Le Factory School oggi
In queste scuole, i bambini vengono alienati dalle loro case, dalle loro famiglie, dalle loro lingue e culture. Spesso subiscono abusi psicologici, fisici o sessuali. Nelle scuole residenziali del solo stato indiano di Maharashtra, per esempio, tra il 2001 e il 2016 sono morti circa 1500 bambini indigeni, di cui 30 di suicidio.
Distruggere comunità e lingue
Norieen Yaakob del popolo Temiar della Malesia, sopravvissuta a stento dopo essere scappata dalla scuola residenziale in cui si trovava. È stata ritrovata 47 giorni dopo la fuga dall’istituto; gli altri 5 bambini che erano con lei erano ormai morti.
Le scuole per l’assimilazione insegnano ai bambini che le credenze e le conoscenze dei loro popoli sono “arretrate”, inferiori o sbagliate.
A milioni di bambini indigeni è vietato parlare la propria lingua madre a scuola, o sono scoraggiati dal farlo. Ciò minaccia la sopravvivenza delle lingue indigene. La prima causa d’estinzione di una lingua è il mancato uso, da parte dei bambini, della lingua dei genitori. È un disastro, perché le lingue indigene sono fondamentali per capire il mondo in cui viviamo, chi siamo e di cosa possono essere capaci gli esseri umani.
Trasformare le “passività” in “patrimonio attivo”
Le scuole per l’assimilazione esistono per trasformare i bambini indigeni e tribali – che hanno lingue e culture proprie – in arrendevoli lavoratori del futuro. “Trasformiamo costi in contribuenti, passività in patrimonio attivo” vanta la più grande Factory School del mondo.
Spesso sono sponsorizzate dalle industrie estrattive e da grandi aziende. Queste compagnie aspirano a trarre profitto dalla terra, dal lavoro e dalle risorse indigene, e le Factory School costituiscono il modo più economico per assicurarsi questo utile nel lungo termine.
In India e in Messico, le industrie estrattive sostengono scuole che insegnano ai bambini ad apprezzare le attività minerarie e a rifiutare il legame che esiste tra il loro popolo e la loro terra, in quanto “primitivo.”
Alcuni stati usano il sistema scolastico come strumento per inculcare il patriottismo e sedare i movimenti indipendentisti, come nel Papua Occidentale, dove il governo indonesiano sta cercando di “indonesizzare” gli indigeni papuasi, e reprime violentemente il dissenso.
Un altro movente è la conversione religiosa. In Bangladesh e in Indonesia, l’attività missionaria islamica punta molto sulla scolarizzazione indigena; in Sud America diverse confessioni cristiane dirigono scuole missionarie residenziali. I fondamentalisti induisti, in India, targettizzano i bambini indigeni per convertirli tramite la scolarizzazione.
Una perdita per tutta l’umanità
Questo disprezzo per le conoscenze e le culture indigene finisce per distruggere i popoli indigeni e le loro culture e conoscenze uniche.
A casa, i bambini indigeni imparano tecniche e conoscenze complesse e sofisticate, che permettono loro di vivere bene nella loro terra e di farla prosperare per il futuro. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale. Se i bambini indigeni non potranno più imparare nelle loro comunità e nelle loro lingue, nel corso di una sola generazione potremmo perdere migliaia di anni di saggezze collettive, di conoscenze e visioni uniche.
La soluzione
I popoli indigeni e tribali devono poter gestire la propria educazione. L’educazione deve essere radicata nella terra, nella lingua e nella cultura dei popoli indigeni stessi, e fornire ai bambini un’educazione solida e un profondo orgoglio in loro stessi e nel proprio popolo.
Facciamola diventare realtà per tutti i bambini indigeni – prima che sia troppo tardi.
Cosa fa Survival?
Denunciamo il problema
Dobbiamo far conoscere al mondo l’entità dell’impatto delle Factory School per contribuire a mettere fine a questo sistema brutale.
Promuoviamo il cambiamento
Facciamo pressione sui governi e sull’ONU per far chiudere queste scuole ovunque.
Promuoviamo una soluzione
Raccogliamo esempi di scuole e programmi educativi positivi, dove i bambini studiano nelle loro terre, con le loro famiglie e nelle loro lingue. Li stiamo condividendo il più possibile per dare speranza e ispirare cambiamenti.
Non ci arrenderemo finché ogni comunità indigena e tribale non potrà scegliere per i propri bambini un’educazione che rispetti le loro famiglie, la loro cultura, la loro lingua e il legame con la loro terra – e che dia loro più di quel che toglie.
Come puoi aiutarci?
Report di Survival
Leggi il nostro report illustrato sulle Factory School
https://www.survival.it/scuoleperassimilazione
Un bel dossier sul «Diritto allo studio» nel numero di «Left» in edicola. Ecco il sommario e l’indice.
L’istruzione deve essere sempre una priorità, come la salute pubblica. Eppure da marzo nulla di concreto è stato fatto per organizzare alternative alla Dad e per mettere in sicurezza i trasporti pubblici “superdiffusori” del virus.
Ma il mondo della scuola non si arrende.
Studenti, associazioni e docenti: «Vi raccontiamo come si può trasformare il lockdown in un’opportunità. Per tutti»
GLI ARTICOLI
«Se naufraga la scuola» di Elisabetta Amalfitano
«Trasformiamo il lockdown in un’opportunità» di Francesco Somaini
«Vieni a studiare in Puglia» di Daniela Caterino
«Abbandono scolastico, i numeri di un’emergenza» di Leonardo Filippi
«L’istruzione alle prese con il puzzle delle Regioni» di Donatella Coccoli
«Riaprire le scuole? Meglio sconfinarle» intervista di Simona Maggiorelli a Massimiliano Tarantino
«Contro la povertà educativa porte aperte al territorio» di Diana Donninelli
«L’arte di immaginarsi diversi da ciò che si è» di D. Don.
«Creativi nelle difficoltà, la forza degli adolescenti» intervista di Federico Tulli a Nella Lo Cascio
«Anche Macron inciampa sur l’école» di Juliette Penn
«Gherardo Colombo: Salvare la scuola per salvare l’Italia» di Federica Farina e Ilaria Usai.