La giusta distanza…

di Carlo Mazzacurati per capire l’Italia e le migrazioni

di Sonia Cincinelli (*)  

Ci mancherà Carlo Mazzacurati. Ci mancheranno i suoi film, il suo estro, la sua umanità. Regista dai toni lievi e delicati, cineasta glocal, autore borderline. Fra i primi a cimentarsi in un tema tanto complesso quanto scivoloso: i fenomeni migratori nel Belpaese. Dopo «Vesna va veloce» (1997) il regista padovano torna sull’argomento un decennio più tardi. L’Italia è cambiata, l’immigrazione, specie quella nordafricana, è sensibilmente aumentata. In un lembo remoto d’Italia alle foci del Po, c’è un piccolo paese: poche case isolate che una gru sembra avere incongruamente deposto in quel paesaggio piatto e desolato. Su questo scenario evanescente si disegna l’incontro fra Hassan e Mara. Lui è un meccanico tunisino, che con anni di onesto e duro lavoro si è conquistato stima e rispetto; lei una giovane maestra, che una supplenza ha portato lì, in attesa di partire per il Brasile con un progetto di cooperazione internazionale. E poi c’è Giovanni, diciottenne aspirante giornalista, che passa molto tempo ad aggiustare una vecchia motocicletta nell’officina di Hassan ed è qualcosa di più che un testimone della storia che nasce fra loro. Una vicenda che comincia sotto il segno dell’inquietudine, con Hassan che la notte spia Mara nella casa isolata in cui ha preso alloggio e lei, che dopo averlo scacciato, intreccia con lui una relazione.

Il giallo, il thriller e il poliziesco affiorano in poche pellicole in tema d’immigrazione nel cinema italiano. Una di queste è proprio «La giusta distanza» che si dipana come un noir, espletandosi fra ballata di provincia, romanzo di formazione e film di autore per poi colorarsi d’improvviso di giallo. Mazzacurati, pur avvicinandosi al film di genere, mantiene all’interno dell’opera la sua poetica del naturalismo, introduce l’enigma ibridato con la storia d’amore, il realismo del dramma e il mistery legato alla cronaca, non a caso il protagonista è un giovane giornalista.

Il cinema di Mazzacurati è stato un cinema di memorie e di omaggi, che si è portato dietro l’eredità di Antonio Pietrangeli, Pietro Germi, con una costante inclinazione come in Michelangelo Antonioni verso la provincia e i suoi spazi mentali e fisici. Il Polesine di Mazzacurati come il Polesine di Rossellini e dello stesso Antonioni. Mazzacurati era un sofferente per temperamento, un amante della sofferenza che viene descritta nei suoi film. Negli anni la sua poetica si è fatta sempre più calvinista, rigorosa, intransigente da un punto di vista etico e morale. Un cinema di introspezione, che ha perlustrato la profonda provincia nordestina, lì dove la banalità e la casualità del male è più evidente. Non c’è bisogno di serial killer, di omicidi efferati, di sangue che sgorga copioso. Basta poco per sconvolgere le tranquille esistenze del paesino del delta padano. Il cinema di Carlo Mazzacurati è stato questo: emozioni, personaggi di frontiera, un mosaico di affreschi di micro-solitudini, un intimismo mai di maniera, ma profondo, intenso. Mai banale. Ci mancherà.

(*) Riprendo questo post da «Corriere delle migrazioni». Sonia Cincinelli è autrice di «Senza frontiere: l’immigrazione nel cinema italiano», edizioni Kappa, 2009.

 

 

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