La “guerra alla finanza sporca” che ostacola gli aiuti umanitari

Le organizzazioni umanitarie che operano in aree a rischio faticano ad accedere ai fondi. È l’effetto di normative anti-riciclaggio e anti-terrorismo e del de-risking bancario.

di Andrea Di Turi (*)

Tutt’e due hanno finalità più che condivisibili: da una parte le normative anti-riciclaggio e anti-finanziamento del terrorismo, dall’altra gli aiuti umanitari, soprattutto in situazioni emergenziali e aree di conflitto. Il problema è che fanno spesso fatica ad andare insieme. Perché le prime finiscono per essere di ostacolo ai secondi.

Nome in codice: “de-risking”

Per comprendere i termini del problema, il concetto da cui partire è quello di de-risking. Letteralmente: “riduzione del rischio”. Ne ha offerto una definizione il dipartimento del Tesoro statunitense nel primo documento in cui ha delineato la sua strategia. Con questa espressione si indica la pratica con cui le istituzioni finanziarie terminano o limitano indiscriminatamente i rapporti commerciali con ampie categorie di clienti, anziché analizzarli e gestirli individualmente in modo mirato in base al rischio.

Le banche, insomma, tendono ad abbandonare – o comunque a non servire in modo adeguato e tempestivo – i clienti quando ritengono che essi siano ad “alto rischio e basso margine”. Perché servirli nel rispetto di normative e regolamenti, come appunto quelli su riciclaggio e terrorismo, è complicato, costoso, richiede tempo e competenze specifiche. E comunque, quanto al ritorno, il gioco non vale la candela. Il punto è che, fra quei clienti, spesso rientrano le organizzazioni umanitarie che operano in situazioni di emergenza o in aree di conflitto. Che ovviamente non riescono a portare avanti le loro missioni se non possono accedere in modo facile e rapido ai fondi disponibili sui loro conti bancari.

L’impatto sull’operatività delle organizzazioni non governative

L’organizzazione non governativa Kinder Usa, che opera in Medio Oriente con programmi a sostegno dell’infanzia, in occasione del terremoto che colpì Siria e Turchia a febbraio 2023 non riuscì a farsi trasferire dalla sua banca con immediatezza i fondi necessari per attivare i programmi di aiuto umanitario. Arrivarono solo dopo un mese. Il trasferimento era finito in una specie di inferno burocratico, innescato dal fatto che nella richiesta di bonifico era stata citata appunto la Siria.

Paesi come la Siria, o la Libia, sono percepiti come fumo negli occhi. Per rispettare le normative e non essere “sgridate”, multate o peggio dalle authority di competenza, le banche, quando si tratta di esaminare operazioni dirette in Paesi ed aree considerati ad alto rischio, diventano iper-scrupolose. Ritardano. E a volte addirittura mollano il colpo, cioè fanno appunto de-risking. Restando sempre in Siria, per esempio, il think tank globale ODI ha realizzato uno studio (prima del terremoto) sull’immane crisi umanitaria prodotta dal conflitto esploso nel 2011. Scoprendo che, a causa del de-risking, i fondi disponibili per le Ong si erano ridotti di almeno il 35%. E rimanevano non disponibili per periodi dai 3 ai 5 mesi in più rispetto a prima.

Gli esempi potrebbero essere tanti, perché il problema è diffuso. Organismi come FATF (Financial Action Task Force), punto di riferimento globale per il controllo del riciclaggio di denaro, raccomandano di proteggere i programmi delle Ong dal de-risking. Uno studio del 2017 citato sulla International Review della Croce Rossa Internazionale rilevava che circa i due terzi delle Ong statunitensi che svolgono attività internazionale erano stati significativamente e variamente impattati dal de-risking: ritardi nei trasferimenti, insolite richieste di documentazione, aumento delle commissioni applicate, chiusura di conti o rifiuto di aprirne.

Se le soluzioni tardano, si va per espedienti

Molte Ong, specie quelle più piccole che non godono di reputazione internazionale, affrontano il de-risking con vari espedienti. Che però comportano maggiore lentezza, opacità, più rischi e più costi. Ad esempio inviano o trasportano contanti, con i rischi facilmente immaginabili in zone di conflitto. Aprono conti in più banche, sperando che almeno una sia disposta a trasferire fondi quando l’emergenza arriva: più velocemente si riesce a rispondere, più vite si salvano. C’è che utilizza i servizi postali, magari in Paesi confinanti con quelli teatro di crisi, sebbene gli importi così trasferibili siano di solito contenuti. Altri utilizzano sistemi di pagamento informali, come le reti hawala, capillari ma poco regolamentati.

Sono state proposte soluzioni – il report “Bank De-Risking of Non-Profit” ne indica alcune – che almeno in linea teorica potrebbero ridurre l’impatto del de-risking, che è nel mirino anche del Financial Stability Board, della Banca Mondiale, di banche multilaterali di sviluppo. Ad esempio, se le banche devono lavorare di più per valutare e garantire la conformità a norme e regolamenti per i trasferimenti in aree ad alto rischio (raccogliendo dati, integrando sistemi di valutazione, formando personale), allora si potrebbero far pagare questi costi aggiuntivi ai donatori che sostengono le Ong. C’è chi insiste sulla necessità di chiarire meglio, semplificare e standardizzare le modalità con cui le banche effettuano le procedure di due diligence. E chi propone di creare piattaforme di pagamento speciali per giurisdizioni ad alto rischio.

Manca però il consenso a livello internazionale per applicare queste soluzioni. Mentre a non mancare sono le crisi a cui spesso le organizzazioni non governative sono chiamate a porre rimedio, o almeno a mettere una pezza. Specie quando gli Stati non sono capaci o non vogliono farlo. Magari perché troppo impegnati nella corsa al riarmo. Che spesso è alla radice di quelle stesse crisi.

(*) Link all’articolo originale: https://valori.it/de-risking-bancario-aiuti-umanitari/

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