LA GUERRA DELLE PAROLE (di Julio Monteiro Martins)
Non è ancora possibile a questi mascalzoni irrompere in casa nostra per cercare di indottrinarci. E per fortuna non gli è ancora permesso infilarci nel cervello un chip con la loro diabolica propaganda di guerra. E allora, cosa stanno cercando di fare? Cercano di cambiarci le parole, di sovvertire il nostro vocabolario, fanno guerriglia lessicale, insomma.
Per me, ormai, non è più un problema. A questa età so difendermi molto bene dalle parole pericolose. Le identifico subito, e non le adopero mai più. Ho un cestino della spazzatura pieno di “portaerei”, “truppe speciali”, “kamikaze” e “terroristi”. E lo conservo sempre ben chiuso. Quando mi arriva un “camion bomba” o un “kalashnikov” li piego a metà, poi li schiaccio come faccio
con le bottiglie vuote di acqua minerale, e li butto nel cestino. A volte queste parole arrivano a casa mia urlando, eccitate, ma basta loro un’occhiatina intorno per capire dove si trovano e camminano dritte verso il cestino cadendoci dentro come se svenissero. È successo così con “talebano” e con “intelligence”.
Il problema è la mia nipotina Sara, che spesso vado a prendere a scuola. Lei ha sette anni e fa la seconda elementare proprio qua vicino. Mia figlia lavora, non tutti i giorni, ma quasi, e così la bambina all’uscita dalla scuola trova il nonno felice ad aspettarla vicino al cancello, insieme agli altri nonni. Poi, porto Sara a casa nostra, le preparo da mangiare, mangiamo insieme, chiacchieriamo, e alla fine l’aiuto con i compiti fino al ritorno della sua mamma nel tardo pomeriggio. Sono queste le ore più deliziose di ogni mia giornata.
Però, guardate un po’ cos’hanno provato a fare i mascalzoni: hanno provato a usare la mia nipotina come portatrice di parole contaminate, di un vero dizionario radioattivo. Riempiono il suo piccolo cervello di quelle mostruosità lessicali che non sono ancora riuscito a capire bene da dove le arrivino. Magari dal telegiornale che sua mamma guarda tutte le sere, o forse dalle notizie che interrompono in continuazione i suoi cartoni animati, o forse ancora a scuola, dalle povere maestre che entrano in classe smarrite, sconvolte, traboccanti di aggettivi magniloquenti come un’incoronazione e da nomi propri farciti di “k” e di “y”.
Fatto sta che la bambina, all’ora di pranzo, lascia ogni tanto cadere sul suo piattino un “tritolo”, un “nascondiglio”, un “ultimatum”. E io le spiego subito che probabilmente aveva capito male: non è “tritolo”, ma “triciclo”, né “nascondiglio” ma “nascondino”, e al posto di “ultimatum” sono sicuro che si tratta di un “compleanno”. Lei mi guarda e mi sorride, e all’improvviso sul suo piatto restano solo patatine, carote e bastoncini di pesce.
Ma le parole invadenti insistevano e colpivano forte, e con tanti di quei “mortai” e “Nassiriya” e “Al Qaeda” non bastavano più i miei chiarimenti durante il pranzo. Rimaneva sul tavolo sempre qualche “Bush”, qualche “Bin Laden”, insieme alle briciole della torta di verdura.
Allora mi è venuta l’idea della lavagna. Ho messo accanto alla libreria una lavagna, con un gessetto rosso e uno bianco. Tutte le volte che Sara pronunciava una di quelle parolacce, io la scrivevo sulla lavagna in rosso, e la lasciavo lì. Fino a che, dopo aver finito il compito a casa, andavamo insieme a guardare la nostra lista di parole brutte, la cancellavamo e la sostituivamo con un’altra più simpatica, scritta con gessetto bianco.
Le tre prime parole erano “esplosione”, “martirio” e “catastrofe”. Le abbiamo cancellate e abbiamo scritto “zucchero filato”, “liquirizia” e “popcorn”. “Reticolato” è diventato “stracciatella”; “violata” è cambiata in “violetta”; “kamikaze” in “pulcinella”; “morte” era a volte “coccodè”, a volte “trottola”, a volte “bombolone”; e “bara”, logicamente, diventava “Sara”.
Mia figlia, quando ha visto la lavagna per la prima volta, mi ha detto: “Ma, papà, queste sono cose che esistono davvero”. “Eh no, che non esistono. Prima di tutto, non sono mica ‘cose’, sono solo parole, non vedi? Poi, dove vuoi che esista un ‘grande spirito di sacrificio’? In cima agli alberi? In fondo al lago? Dimenticato sulla panchina del giardino? Queste sono solo parole brutte, avvelenate, sai? Se le cestiniamo, vedrai che respiriamo tutti meglio.”
Sì, perché io, alle parole brutte, non lascio scampo. Conosco le parole. Eccome! Le prendo al laccio, come un buttero a cavallo nella macchia (ma ditemi voi, non è molto meglio “buttero” di “marine”?).
Sì, sì. Le parole con me non hanno vita facile. Se si comportano male, se si sporcano, se mordono, se impazziscono, ho il mio gessetto già puntato su di loro, certo meglio di quanto non riescano i mascalzoni puntando su di noi i loro missili terra-aria. Ho detto “missili terra-aria”? Mah… Forse pensavo solo al “micio”, che quando è spaventato salta sul muro del giardino.
Lucca, il 20 Novembre 2003
Julio Monteiro Martins è direttore della rivista Sagarana. vedi: http://www.sagarana.net/speciale/index.html
Gran bell’articolo, anche poetico, direi.