La guerra sta finendo…

… sempre che gli Usa e i loro alleati non si mettano di traverso, come fanno tutti i giorni.

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Quello che è successo, secondo me (3) – Francesco Masala

 

Anche quando viene chiusa la bocca, la domanda resta aperta (Stanislaw J. Lec)

 

Nelle Storielle ebraiche, a cura di Ferruccio Folkel (a p.47 dell’edizione Bur del 2000), c’è la seguente storiella:

Moishe viene chiamato in paradiso.

“In terra sei stato un buon Ebreo,” dice l’Eterno “che cosa vorresti che ti regalassi? Dimmelo, lo otterrai subito, ricorda soltanto che il tuo peggior nemico riceverà il doppio di ciò che ricevi tu.”

Sorridendo, Moishe implora:

“Toglimi un occhio”.

Oggi Moishe si chiama Europa, e il nemico, probabilmente, non perderà neanche un occhio.

 

Mentre continua la guerra, è quasi finita, sembra di capire, se oggi al giornale radio della rai si parlava di una persona morta e tre feriti in una cittadina ucraina in un attacco russo, siamo alla frutta.

Anche in Italia ogni giorno muoiono almeno 3-4 lavoratrici e lavoratori mentre stanno lavorando, quasi sempre per pochi soldi .

Aspettiamo che tutta la stampa dica che è un attacco dei padroni, che hanno dichiarato, senza essere provocati, guerra ai lavoratori!

 

Abbiamo letto una cosetta che si chiama deepfake, (wikipedia non ne parla bene), e siccome tutte le cose non sono classificabili buone o cattive a priori, provate ad ascoltare qui quello che Zelensky non ha mai detto, ma se l’avesse fatto avrebbe evitato un miliardo di problemi all’Ucraina. É un video veramente geniale, un attore, che vive di finzione, e che è un burattino nelle mani degli Usa, se qualcuno non l’avesse ancora capito, diventa attore, a sua insaputa, nelle mani di qualche “buontempone”, e gli fanno dire le cose più della sua vita per il suo popolo e meno utili per il suo burattinaio (sarà una coincidenza, ma su facebook e youtube non si può più vedere).

 

Premettendo che un solo morto è un morto di troppo, appena si avranno i dati magari sarebbe utile capire se sono più i morti civili per mano russa (esclusi soldati e nazisti, naturalmente) o i migranti morti nel viaggio verso la fortezza Europa negli ultimi anni, per amore delle statistiche.

 

A proposito di wikipedia qui potete leggere il massacro di Odessa del 2 maggio del 2014 non è più opera dei nazisti, ma forse, come Pinelli, si sono ammazzati da soli per dare la colpa ai poveri nazisti.

 

A proposito dei nazisti, che cose strane fa la storia, durante la seconda guerra mondiale i buoni erano contro i nazisti, anche l’URSS era contro i nazisti, ma sempre cattiva è rimasta, nonostante Stalingrado, un milione di morti, che strano, e adesso le persone in malafede spiegano che Kiev è la nuova Stalingrado).

Adesso i “cosidetti” buoni stanno con i nazisti, li sostengono, li vezzeggiano, danno loro le armi, solo i russi (cattivi come l’Urss) sono contro i nazisti, e non da oggi (leggi qui); se all’Onu, nel 2014, la Russia avesse presentato una mozione per affermare che 2+2=4, la Comunità Europea si sarebbe astenuta e gli Usa avrebbero votato contro (George Orwell ci aveva avvisato).

 

Ps: provate a vedere questo video di Dario Fabbri, credo che si impari qualcosa di utile per capire come va (e andrà) il mondo

 

 

 

 

 

 

 

CINA / ACCUSE & SBERLEFFI CONTRO GLI USA DI JOE BIDEN – Cristiano Mais

 

“Gli Stati Uniti stanno cercando di spingere il mondo verso una grande trappola”.

“Washington ha l’ambizione di creare il caos”.

“Gli Stati Uniti cercano da tempo nemici in tutto il mondo e, anche se non ce ne sono, ne creano uno”.

“Oggi occorre stare lontano dalla follia degli Stati Uniti”.

Non sono i russi a parlare così, e neanche degli anti-americani viscerali.

Si tratta, invece, delle massime autorità cinesi, che stanno prendendo una posizione ben precisa nell’attuale crisi internazionale: molto vicina alla Russia, lontana mille miglia dagli Usa, accusati senza mezzi termini di aver provocato la situazione che stiamo vivendo e di fomentarla ogni giorno di più, perché a loro la guerra fa comodo e cercano di trarne tutti i vantaggi possibili, soprattutto in termini di ‘egemonia’.

Autentici ceffoni quelli assestati sulle facce di bronzo a stelle e strisce, a cominciare da quella del numero uno della Casa Bianca, Joe Biden.

Ecco cosa scrive ‘Global Times’, il sito ispirato dalle autorità di Pechino.

“Dopo tanti vertici con l’obiettivo di rafforzare il ruolo della cosiddetta alleanza transatlantica, gli americani non hanno avanzato alcuna misura concreta per promuovere la pace e i colloqui, nemmeno una dichiarazione pubblica”.

“L’intenzione reale e disperata dell’amministrazione Biden nella crisi ucraina è stata smascherata: trasformare l’Ucraina in una palude in modo che la Russia continui a sanguinare e costringere i russi a cedere e scegliere un regime filo-americano”.

“Anche i diplomatici professionisti a Washington comprendono quanto potrebbe essere pericoloso se il leader degli Stati Uniti chiedesse apertamente un cambio di regime di un’altra grande potenza nucleare e un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: quindi la Casa Bianca deve ridurre al minimo l’incertezza generata dalle parole di Biden”.

Wang Yiwei, direttore dell’Istituto per gli affari internazionali presso la Renmin University of China di Pechino, ha dichiarato al ‘Global Time’s che ‘Biden ha appena detto cosa ha davvero in mente nella crisi ucraina. Tutte quelle sanzioni, stigmatizzazioni e demonizzazioni contro Putin e la Russia hanno un solo scopo chiave: far crollare di nuovo la Russia, come ha fatto l’Occidente con l’Unione Sovietica in passato”.

“Secondo Lu Xiang, ricercatore presso l’Accademia cinese delle scienze sociali, ‘Biden è così frustrato poiché le mosse della sua amministrazione come le sanzioni e l’isolamento contro la Russia non sono efficaci come si aspettava e con le accuse a Putin sta rendendo personali le tensioni Usa-Russia”.

“La Russia è un paese importante che non può essere vittima di bullismo e intimidazioni. Maggiore è la pressione esercitata dall’Occidente, più uniti saranno i russi”.

“Gli Stati Uniti continuano a definire una bugia la richiesta della Russia di de-nazificare l’Ucraina, ma non possono spiegare perché il popolo russo sostiene fermamente il proprio presidente e governo. Hanno visto per anni russi etnici nell’Ucraina orientale uccisi dalle forze militari ucraine come il Battaglione Azov, e l’Occidente ha chiuso un occhio su questo e ignora la rabbia dei russi”.

“Così come gli Stati Uniti hanno cercato di separare i russi da Putin, hanno anche cercato di separare il popolo cinese dal leader del Partito Comunista, e hanno sempre fallito, perché i decisori di Washington non capiscono che la loro ambizione egemonica e le loro mosse ostili verso la Russia e la Cina minacciano i popoli di Russia e Cina, non solo un individuo o un gruppo politico specifico”.

“La situazione odierna è molto diversa dalla Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il governo russo ha un grande sostegno dal suo popolo e l’Occidente non è unito, mentre le maggiori potente europee si tengono a distanza dalla posizione estrema degli Stati Uniti”.

Prosegue l’analisi di ‘Global Times’.

“In qualità di iniziatori della crisi ucraina, gli Stati Uniti stanno cercando di spingere il mondo intero nella loro enorme trappola. Hanno attirato e minacciato i paesi in via di sviluppo, inclusa la Cina, tentando di far condividere alla comunità internazionale le responsabilità e le conseguenze della crisi. Tuttavia, va sottolineato che nessun altro Paese è obbligato a pagare il prezzo della crisi creata dagli Usa e che Washington non è qualificata per fissare limiti per altri Paesi”.

“Durante il viaggio di Biden in Europa, gli Usa e l’UE hanno firmato un accordo sul gas naturale liquefatto, nel tentativo di ridurre la dipendenza dell’Europa dall’energia russa. Ma molti media occidentali hanno espresso pessimismo sull’accordo, perché gli Stati Uniti non hanno abbastanza capacità per esportare più gas, quindi l’accordo sarà in gran parte simbolico. Questo è il rischio strategico che Washington è felice di correre: ha solo l’ambizione di creare il caos ma non ha intenzione di ripulire il pasticcio. Dall’Afghanistan all’Iraq e alla Siria, gli Stati Uniti hanno lasciato il mondo in troppi pasticci”.

“Dopo lo scoppio del conflitto Russia-Ucraina, gli Usa hanno continuato ad intensificare le sanzioni contro la Russia e a costringere il mondo a scegliere da che parte stare, aumentando le difficoltà della ripresa economica globale e causando danni indebiti ai mezzi di sussistenza di tutti i paesi. La gente ora vede che gli Stati Uniti si stanno trasformando in un gigante deforme, con un braccio di sanzioni o addirittura di guerra usato per sopprimere altri che stanno diventando particolarmente sviluppati, e il braccio della pace e dello sviluppo che si sta notevolmente atrofizzando e degenerando. Ciò ha portato   Washington a pretendere di opporsi alla guerra mentre conduceva la guerra su tutti i fronti, e di affermare di mantenere la pace mentre la distruggeva arbitrariamente”.

“Ecco perché avvertire la Cina di non sostenere la Russia è diventata una questione deliberatamente importante a Washington, mentre attira i suoi alleati per rafforzare le sanzioni contro la Russia. Pertanto, continua a soffocare la Cina, che considera la sua rivale strategica, mentre si aspetta che la Cina collabori con essa nel sanzionare la Russia”.

E infine: “Gli Usa cercano da tempo nemici in tutto il mondo e, anche se non ce ne sono, ne creano uno. Potremmo ricordare a Washington che le potenze consolidate spesso non vengono sconfitte dalle potenze emergenti, ma vengono trascinate verso il basso dal costo del mantenimento dell’egemonia. Di recente, gli

Stati Uniti hanno voluto cacciare la Russia dal G20, ma diversi paesi hanno espresso chiaramente la loro opposizione. Il mondo di oggi non è più nell’era in cui alcuni paesi come gli Stati Uniti possono ingannare il pubblico; la maggior parte dei paesi non si unirà al gioco ‘automutilante’ aiutando gli Usa a mantenere la propria egemonia”.

da qui

 

 

 

 

 

                          

ritratto di Putin                    (di Piero Brombin)       Biden bum-bum

 

 

 

Convogli di pace – Monica Di Sisto

 

Un primo convoglio di pace, con mezzi provenienti da tutta Italia e con destinazione Leopoli. L’obiettivo di aprire un corridoio stabile per più missioni che possano, in sicurezza, trasportare aiuti e portare in salvo più persone possibili, con percorsi di accoglienza certi e mirati grazie a relazioni dirette con organizzazioni partner in Ucraina.

Un messaggio comune: «testimoniare con la nostra presenza sul campo la volontà di pace e per permettere a persone con fragilità, madri sole e soprattutto bambini, di lasciare il loro Paese in guerra e raggiungere l’Italia».

E’ l’obiettivo di «Stop the war – Facciamo la pace», azione diretta nonviolenta che porterà il 1 aprile in zona di guerra i rappresentanti di decine di associazioni e realtà italiane. Il cartello è imponente e molto variegato: ci sono le organizzazioni cristiane come la Focsiv, la Comunità Papa Giovanni XXIII e Pax Christi, la Pro civitate christiana di Assisi, i Comboniani, il Cipax, i Focolari e i Beati i costruttori di pace; poi la Cgil e i coordinamenti laici come l’Associazione delle Ong italiane con Arcs, Arci, Un ponte per, Fairwatch, il Cospe di Firenze, Libera e il Gruppo Abele, gli ambientalisti di Extinction Rebellion e Legambiente.

Ci sono le realtà dell’accoglienza come Mediterranea, Arci Solidarietà e Mare aperto. Poi media come Radio Popolare, Italia che Cambia e Comune info e tanti altri ancora. Al momento, tra realtà organizzate e singoli si contano oltre 800 adesioni che vanno dal contributo economico, al mezzo, agli aiuti materiali fino alla presenza fisica.

«Nel chiedere che si proclami immediatamente il cessate il fuoco, che si dia spazio alla diplomazia internazionale e alle Nazioni Unite per la risoluzione della controversia e che si consenta subito alle organizzazioni umanitarie internazionali di intervenire, ognuno di noi può fare qualcosa di più e di concreto per fermare questo scempio», è l’auspicio delle realtà promotrici dell’iniziativa.

«Non c’è più tempo! – spiega l’appello che lancia la carovana -. Da sempre siamo accanto agli ultimi, al fianco delle vittime con azioni umanitarie e iniziative di solidarietà internazionale. Vengono momenti in cui però ‘la pace attende i suoi artefici’ – continua l’appello citando Papa Giovanni Paolo II – e noi non possiamo disattenderla. Non vogliamo restare spettatori e sentiamo l’obbligo di esporci in prima persona».

Domani, 31 marzo, i mezzi che effettueranno la missione partiranno da una decina di città italiane per convergere a Gorizia dove affronteranno un itinerario comune attraverso Slovenia, Ungheria e Slovacchia e attraverseranno la frontiera tra Polonia e Ucraina nella giornata del 2 aprile. Nelle giornate del 2 e del 3 aprile si svolgeranno le operazioni di consegna dei materiali d’emergenza, gli incontri con la società civile ucraina e l’accoglienza dei profughi che viaggeranno col convoglio per raggiungere l’Italia.

«Questo è il nostro modo, concreto e diretto, per dimostrare che le organizzazioni italiane della solidarietà e per la pace non sono ‘né, né’ – è il commento della portavoce dell’Associazione delle Ong italiane Aoi, Silvia Stilli, che è tra gli organizzatori dell’iniziativa e partirà da Roma con una delegazione di dirigenti e volontari delle realtà promotrici -.

Abbiamo chiaro chi sono le vittime, e questa consapevolezza è superiore ad ogni analisi geopolitica. Non bastano le manifestazioni adesso – aggiunge, tra una telefonata, un pacco e un whatsapp dal campo -, occorre esserci, esprimere solidarietà coi fatti a chi la guerra la subisce.

A Leopoli porteremo il messaggio ‘stopthewar’, insieme alla coerente posizione di chi non crede che siano le armi la soluzione ai conflitti, ma la giustizia e la solidarietà».

da qui

 

 

 

scrive Vincenzo Costa

 

Un’intesa tra russi e ucraini sarebbe una sconfitta insopportabile per gli Stati Uniti

da qui

 

 

 

scrive Igor Lopatonok

 

L’Ucraina ha perso la Crimea, la regione del Donbass è diventata di fatto indipendente. In queste condizioni, l’accordo di Minsk è stato firmato nel 2015. Ma questo accordo non è mai stato attuato. Negli ultimi mesi è stato completamente respinto. Naturalmente, i poteri dietro Zelensky hanno imposto l’abbandono dell’accordo di Minsk. Se Zelensky fosse stato uno statista dignitoso e responsabile, avrebbe attuato l’accordo di Minsk. Tuttavia, si è già fatto un nome grazie all’oligarca Kolomoiski e si è accomodato alla presidenza come comico televisivo. Poi è stato eletto presidente con eventi che hanno funzionato come una sceneggiatura cinematografica. Naturalmente, la sua recitazione può essere molto buona. Ma immagina di essere su un aereo. E seduto al posto del pilota c’è un attore che in realtà non è un pilota, ma interpreta bene il ruolo di un pilota! Zelensky è esattamente quel tipo di presidente. È solo un attore che è stato creato come progetto e interpreta bene la sua parte. Ma gli manca l’iniziativa e l’agilità che dovrebbe avere un presidente. Da bravo attore, è bravo ad essere carino con il pubblico ed è benvoluto. Lo paragono a Barack Obama in questo

da qui

 

 

 

BRIEFING – Gian Luigi Deiana

 

guerra e pace: intervallo

 

dopo oltre un mese di scempio (materiale e mentale, orientale e occidentale) alcuni aspetti di questa lucidissima follia cominciano a dipanarsi e a diventare appena chiari;

il primo aspetto riguarda la situazione al momento sul campo, oggi trenta marzo dopo quasi quaranta giorni di guerra: persistono due logiche nella valutazione su chi stia vincendo e chi stia perdendo, cioè la logica russa e la logica nato; di fatto l’invasione russa ha raggiunto e consolidato le mete territoriali a suo tempo dichiarate (donbass, crimea, striscia di marjupol); ha anche dimostrato la presenza di un’intensa collaborazione militare occulta tra ucraina e stati uniti in ambito biologico, chimico e nucleare e ne ha individuato e colpito siti importanti, tanto da poterne portare il peso negoziale sul nodo controverso della neutralità ucraina per il futuro;

quindi, sfrondata dall’enfasi sugli eroismi e sui cataclismi, oggi trenta marzo la concreta situazione sul piatto, o sul tavolo delle auspicabili trattative, non è affatto sfavorevole alla russia, a patto che il disastro si fermi qui in quanto ogni ulteriore acquisizione territoriale non farebbe altro che dissanguare l’occupante; ma la situazione oggi sul piatto è anche favorevole all’ucraina, che uscirebbe a testa alta dal conflitto, beneficiaria di una simpatia diffusa e di fatto adottata in ogni senso nel seno di mamma europa; ma allora, a chi non è favorevole oggi la situazione sul terreno? chi “non” vuole la pace?

è molto semplice: gli stati uniti “non” vogliono la pace “ora”; la nato non vuole la pace, i bonzi dell’unione europea non si stracciano per la pace, ed in modo assolutamente cereo il presidente biden non vuole la pace; non è un caso che mentre attori di prima linea sono stati impediti a mediare, pena sanzioni allargate (la cina e l’india), sono proprio due pilastri nato fondamentali e quindi non ricattabili con sanzioni ad essersi smarcati da questo orrido conclave di facce di cera e ad avere patrocinato autonomamente il processo di mediazione (israele e turchia);

il processo di mediazione, visto oggi in retrospettiva, è maturato in circa trenta giorni e in tre scene assolutamente torbide che più torbide non si può:

nella prima scena uno dei capi della delegazione ucraina è stato “eliminato”, cioè ucciso, dai servizi segreti ucraini stessi; che questi abbiano agito per aver accertato un’attività di tradimento del suddetto negoziatore o per semplice imbeccata della cia è questione di logica elementare: l’esperienza pura dice cia;

nella seconda scena, quella in cui entra come primattore e come garante il magnate ebreo abrahamovic, è piombata, tra le centinaia di scene di distruzione, la teatrale distruzione di un reparto di ginecologia e di un teatro pieno di bambini: su ambedue i casi vi è stato un bombardamento di numeri e di recite per le tv, risultati poi palesemente falsi, nonchè un rimbalzo di responsabilità sul bombardamento non risolto da alcuna indagine terza; vi è però di certo che la “messa in scena” di queste due scene reali ha prodotto come effetto il fallimento del secondo round negiziale, il round israele-abrahamovic;

ora siamo al terzo round: abrahamovic torna al tavolo, ad istanbul, ma protetto dietro le quinte, sancendo in modo incontrovertibile il co-interesse di israele e turchia ovvero di bennett ed erdogan al processo di pace e alla stabilizzazione dell’area, contro l’ostinazione statunitense in senso opposto; infatti? infatti in vista di questo possibile esito di inizio negoziale biden si precipita a bruxelles, in una “scena” di alleati appositamente preparata per il suo personale “colpo di scena”, nel quale gela tutti i medesimi co-attori affermando platealmente che putin è un macellaio e che ne va atteso il rovesciamento; e non appena i cosiddetti alleati si riprendono dal congelamento, manifestando apertamente il disgusto, abrahamovic subisce un torbido avvertimento, la cui paternità è immediatamente sconfessata sia dai mefitici servizi russi che dai malfidati servizi ucraini: abrahamovic è stato misteriosamente avvelenato con dosaggio soft, ma con molta e giustificata strizza di lasciarci le penne: e allora, chi ha avvelenato abrahamovic? chi ha interesse a impedire con tutti i mezzi l’avvio di un processo di pace? chi sta calcolando i tempi di tenuta del copione scritto dagli usa per zelenski e i tempi di tenuta dell’economia russa nella china del default, purchè non prendano consistenza i negoziati?

chi?

se non si sconfigge questa perversione, non resta scampo per alcuno: guai ai vinti, e forse peggio per i vincitori; e a noi, in pieno effetto boomerang delle sanzioni, tocca il campo del peggio;

((vorrei sottolineare per me, per non essere frainteso anche se ciò conta poco, un altro paio di opinioni personali:

– ritengo ripugnante la figura storica di vladimir putin, non solo per la prassi di guerra che adotta di fronte ai problemi ma prima ancora per la fissazione ideologica protorussa o psicopatica che muove questa prassi;

– ritengo che la motivazione che muove i soldati ucraini a combattere sia intimamente e palesemente più sentita di quanto non lo possa essere per i soldati russi, e che questo conti alla fine in modo decisivo sull’usura umana nella distruzione generale;

– ritengo che si stia sottovalutando in modo criminale il peso specifico che in guerre come questa assumono le milizie, da quelle dichiaratamente naziste a quelle semplicemente mercenarie, e osservo che nessun ministro della difesa delle cosiddette democrazie abbia mai manifestato la semplice volontà di veder chiaro su “quanto” questo fenomeno così atroce sia contabilmente coltivato dal comparto finanziario, produttivo e commerciale delle industrie di armamenti che operano nel proprio paese, e a vantaggio delle quali è ormai dirottato il flusso di denaro salvavita noto come pnrr: se putin è la belva, io mi vergogno quasi di più per il mio serpente))

da qui

 

 

 

Armi in Ucraina,”Rifornire i paramiltari aumenta ancora i rischi per la popolazione” – Fabio Mini

 

La cortina fumogena. Kiev, esercito allo sbando: mani libere ai paramilitari. Rifornirli aumenta ancora i rischi per la popolazione

Sembravano teorie del complotto o fantasie dei “filo putiniani”, le valutazioni che fin da prima dell’attacco confutavano la narrazione fornita dall’Ucraina, ma orchestrata e preparata dall’esterno. Alle voci dubbiose di alcuni storici ed esperti occidentali, compresi quelli americani, subito tacciati di filoputinismo, si sono aggiunte in questi giorni voci inaspettate, oltre alla nostra: il bollettino n.27 di Jacques Baud , il colonnello dell’intelligence svizzera, ora analista internazionale di professione con un attivo di decine di libri e rapporti su questioni militari diventati dei “must read” in Europa e nel mondo e il Financial Times del 20 marzo con le molte altre voci di esperti europei raccolte da Sam Jones da Zurigo e John Paul Rathbone da Londra.

 

Genesi e operazioni

A parte la provocazione della Nato nei confronti della Russia iniziata nel 1997 con l’espansione a est, secondo Baud la questione russo-ucraina non è sorta a causa del separatismo o indipendentismo del Donbass. Il conflitto nasce invece da fenomeni interni all’Ucraina e l’Occidente, non la Russia, ha fatto in modo che esso si ampliasse e degenerasse. Dal 2014, con i fatti di Maidan e i massacri in Donbass e Odessa, si dimostra la debolezza delle forze armate ucraine, succube di regimi che non si fidano di esse, che deliberatamente le abbandonano e si rivolgono alla componente paramilitare per l’ordine interno.

L’esercito ucraino, teoricamente forte di quasi trecentomila uomini, era in uno stato disastroso. “Ad ottobre del 2018 il capo procuratore militare ucraino Anatoly Matios riferì che l’Ucraina aveva perso 2.700 uomini nel Donbass: 891 per malattia, 318 per incidenti stradali, 177 per altri incidenti, 175 per avvelenamento (alcol, droghe), 172 per incauto maneggio delle armi, 101 per violazione delle norme di sicurezza, 228 per omicidio e 615 per suicidio.” In compenso, dal 2014 in Donbass operavano le milizie mercenarie ed estremiste che dopo aver trasformato piazza Maidan in una trappola per migliaia di cittadini incluse le forze regolari di polizia si spostarono ad est per massacrare i presunti “separatisti”. “Il ministero della difesa ucraino si rivolse alla NATO per rendere le sue forze armate più “presentabili”. Compito ingrato e lungo. Così, per compensare la mancanza di soldati, il governo ucraino e la Nato hanno rafforzato le milizie paramilitari. Ma non è solo questo e il Donbass è un pretesto. Nel 2014 è anche avvenuto l’intervento russo in Crimea. In pochi giorni e senza sparare un colpo la Russia annette la penisola e mette in sicurezza la base navale di Sebastopoli. Nessuno interviene e il segnale per gli ucraini è che gli americani, la Nato e l’Europa non sono disposti a sacrificare un solo uomo per l’Ucraina. Tantomeno per il Donbass, ma se si trattasse di colpire direttamente la Russia, allora sì, si potrebbe sacrificare l’intera Europa. Tutti ricordiamo il fuck Europe della Victoria Nuland. La Crimea viene sottoposta ad assedio, alla Russia vengono comminate sanzioni e alla popolazione russa della Crimea viene tagliata l’acqua. Dal 2018 in poi le forze armate ucraine ricevono più di un miliardo di dollari in armamenti e “consulenti” e dislocano le forze migliori a sud, dove già operano le bande paramilitari e private sostenute e finanziate dall’oligarca ucraino Kolomiosky, signore e padrone di Dnipro, centro della produzione di armamenti di tutta la ex Urss. “Sono composte principalmente da mercenari stranieri, spesso militanti di estrema destra. Nel 2020, costituiscono il 40% delle forze ucraine e contano circa 102.000 uomini, secondo Reuters. Sono armati, finanziati e addestrati anche da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia. Ci sono più di 19 nazionalità – compresa quella svizzera” – osserva amaramente Baud. “La qualifica di ‘nazista’ o ‘neonazista’ data ai paramilitari ucraini è considerata propaganda russa. Forse, ma questa non è l’opinione del Times of Israel, del Simon Wiesenthal Center o del Centro per il Controterrorismo di West Point”. Tuttavia, la reale natura potrebbe anche essere peggiore: “nel 2014 la rivista Newsweek sembrava associarli di più all’Isis”. Per queste forze, la nostra stampa ha inventato la categoria dei “nazisti patrioti e perbene” che, proclamata da membri della comunità ebraica, non suona affatto bene…

continua qui

 

 

 

Mariupol è caduta (anche se per i giornali non è una notizia) – Daniele Lanza

 

La quasi totalità dei miei colleghi osservatori disquisisce su quale sia il fake più clamoroso o la bufala più iperbolica della guerra d’informazione in corso: io dal canto mio sono partito con una mentalità talmente preparata all’idea del confronto su tutti piani (armato, intellettuale, memetico) che non vi ho fatto nemmeno troppo caso, dando le contraffazioni come scontate (e non si deve invece, perché se anche il fake non riesce a scalfire l’utente preparato, riesce benissimo a fuorviare quello impreparato, che numericamente è 20/30 volte superiore al primo).

Non ho gli strumenti e la volontà per fare analisi comparata e puntigliosa della guerra massmediologica in corso: non faccio – come molti altri (giustamente) fanno – il bollettino delle fake news sulla mia bacheca social. Quello che penso lo posso tuttavia esprimere ora con una riflessione un po’ più ampia, evidenziando un fatto elementare quanto macroscopico…ovvero che una cittadina di poco meno di mezzo milione di abitanti può cadere senza che la cosa venga ammessa ufficialmente: è una testimonianza muta che si esprime da sola nella sua enormità.

Milioni di caratteri riversati sui media in una mezza dozzina di lingue globali, giri di parole interminabili in quello che sembra uno spettacolo circense, fatto di immagini esasperate e piroette verbali decise solo a sottolineare la difficoltà dei russi: una loro grande nave affondata (trovato scritto a caratteri cubitali), conte di morti e feriti 3 o 4 volte superiori al numero reale, per non parlare di quelli che vorrebbero “eliminare Putin” e così via.

NESSUNO o quasi, riporta invece a chiare lettere che Mariupol è caduta in questi giorni (per arrivare al punto, insomma).

Preso il centro cittadino e la sede dell’amministrazione (quest’ultima imboscatasi chissà dove) la battaglia può dirsi conclusa, anche se le operazioni “sporche” di pulizia proseguiranno per molti giorni ancora. Sui notiziari si contano i peli del braccio del mercenario siriano o le tacche sul pacchetto di sigarette del milite ucraino mentre una città di oltre 400.000 abitanti capitola e la cosa non viene citata a chiare lettere da nessuno.

Forse si dà  per scontato – visto il livello di distruzione – che si sia arrivati ad una vittoria de facto delle forze russe? Certo NON la si vuole consacrare con l’onore di un titolo da prima pagina, per motivi di orgoglio nazionale ucraino e per non alimentare indirettamente l’orgoglio filorusso con la notizia di una loro vittoria annunciata col megafono.  Si suppone sia proprio così.

Si suppone che la logica sia: una città NON cade sinché la sua amministrazione non si è arresa e siccome formalmente a Mariupol nessuno si è arreso, allora è come se la città (moralmente) non fosse mai caduta: è soltanto “occupata dall’invasore”.

Logica assolutamente ineccepibile da una prospettiva ultranazionalista ucraina (altro non mi aspettavo): non fosse che tale prospettiva è adottata integralmente, acriticamente, dai media di tutto l’occidente.

Bene. Stando così le cose, a questo punto è lecito proporre una replica in base ad una logica che ad un estremo ne contrappone un altro di segno opposto e che in concreto suona così: una resa FORMALE della città di Mariupol – per quanto umiliante, posso comprenderlo – avrebbe convenzionalmente messo in comunicazione l’autorità militare del Cremlino con la realtà amministrativa locale che rappresenta lo stato ucraino, con lo stabilirsi quindi di un rapporto – per quanto possa esserlo in una situazione di conflitto – tra l’elemento occupante e la realtà legale antecedente.

Al contrario, in ASSENZA di una resa formale, con fuga o latitanza dell’autorità politica locale che rifiuta di incontrare la parte russa, tale autorità politica può considerarsi estinta o rimossa per elementare assenza fisica da essa stessa decisa: la statalità ucraina cessa di esistere per scelta propria, preferendo l’annullamento al disonore della trattativa (il medesimo disonore che per essere evitato ha portato i nazionalisti ad una inutile resistenza ad oltranza che ha determinato un numero di perdite civili svariate volte maggiore di quanto avrebbe comportato una trattativa da subito: si è scelto l’onore sulla pelle della stessa gente di Mariupol che poi, essendo al 90% russa, non avrebbe perseverato fino alla distruzione radicale della propria città…difficile immaginarlo).

Riconosco  per primo, in onestà intellettuale, che dalla logica dell’opposto estremo raramente nasce qualcosa di veramente equilibrato, ma in circostanze come queste (che, ricordiamolo, vanno oltre la politica convenzionale della quotidianità che conosciamo) rimane poco altro da fare: per chi crede in un diritto “naturale” che nasce dalla storia, la giovane statalità ucraina (30 anni di vita) ha annullato la legittimità legale di una sua presenza nella regione di Mariupol, che comunque si concluda il conflitto, non dovrebbe più tornare sotto Kiev in alcun caso.

Mariupol torna al Cremlino con il quale condivide una storia di unità politica che inizia nell’ultimo quarto del XVIII secolo (250 anni complessivi quindi, cui si tolgono i 30 dell’indipendenza ucraina post 1991).

Senza dubbio è estremo pensare questo, un ragionamento da nazionalismo russo, ma non privo di logica (considerando che i russi saranno comunque considerati colpevoli di ogni cosa a prescindere dall’esito finale del conflitto e sanzionati ulteriormente in tutte le modalità che sarà possibile, secondo un canone di guerra totale: se è così allora tanto vale tenersi cosa si è preso e amen. Leggi della storia).

Per quanto riguarda il giornalismo invece: si continui pure a proporre in caratteri cubitali la distruzione di due motociclette russe, e con caratteri microscopici la caduta di un’intera città in Ucraina (!), l’informazione deve essere libera per carità.

Prima o poi i caratteri microscopici divoreranno fisicamente quelli cubitali.

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La guerra che l’Europa ha già perso – Antonio Minaldi

 

In questo momento nessuno può prevedere come evolverà la guerra in Ucraina. Le notizie si susseguono in un’alternanza tra terribili cronache di massacri e devastazioni, e timidi spiragli di pace. Una cosa è tuttavia certa: comunque vada a finire, la nostra vecchia Europa è tra quelli che la guerra l’hanno già persa

 

Dopo due anni di emergenza pandemica, per altro ancora per nulla finita, e con la guerra praticamente sull’uscio di casa, l’economia europea vive un momento di terribile difficoltà. Come è ormai noto a tutti, dagli scambi con la Russia la nostra economia è fortemente dipendente, sia per le forniture di gas che per il grano, i cui prezzi sono infatti enormemente lievitati. Le previsioni più pessimistiche fissano all’8% la possibile crescita dell’inflazione nel nostro paese entro la fine dell’anno. In simili situazioni, e secondo le imperanti logiche neoliberiste, alla BCE non resterebbero che due scelte: o alzare i tassi aggravando la recessione con effetti catastrofici per il nostro debito pubblico, oppure lasciare correre i prezzi per salvare l’economia, ma con gravissimo danno per le classi lavoratrici ormai da decenni non più tutelate dalla scala mobile. Tutti questi effetti non sono di breve periodo. L’inflazione quando parte tende ad autoalimentarsi, e comunque anche una auspicabile fine della guerra non esaurirà i suoi effetti negativi. Le strozzature nel commercio internazionale permarranno e resterà difficile l’approvvigionamento delle materie prime, con perdurante danno per i paesi europei la cui ricchezza si fonda sostanzialmente su una economia di trasformazione.

Ma sul lungo periodo le conseguenze della “sconfitta” dell’Europa non saranno solo di natura economica. E’ fortemente probabile che la conclusione della guerra, anche nella migliore delle ipotesi con lo scongiurarsi degli scenari più catastrofici, lascerà comunque il mondo profondamente diviso. Per la verità, non c’era certo bisogno della guerra in Ucraina per capire che una nuova guerra fredda era all’orizzonte tra due blocchi contrapposti, con gli USA da una parte, e l’emergente Cina dall’altra. La novità sta oggi nel fatto che le ostilità tra la Russia e l’Occidente, come è facilmente prevedibile, rimarranno oltre la durata del conflitto armato, con un quasi scontato riavvicinamento tra le due potenze eurasiatiche. A questo punto, nella geopolitica dello scontro tra superpotenze, al fronte del pacifico si aggiungerebbe il fronte europeo, con i nostri paesi e l’intera UE catapultati trent’anni, e più, indietro nella storia, nella condizione tragica della terra di confine col nemico, con la guerra sempre pronta a deflagrare e con un clima sociale e culturale inevitabilmente imbarbarito e avvelenato.

Una conseguenza di questa nuova situazione potrebbe darsi anche in tempi stretti. Pare infatti che tra le varie soluzioni prospettate per la fine della guerra in atto, ci sia quella di una Ucraina che rinuncia alla adesione alla NATO, ma che viene immediatamente ammessa nell’Unione Europea. La cosa naturalmente presuppone che noi cittadini del vecchio continente dovremmo ignorare, come nulla fosse, il forte inquinamento nazista delle istituzioni di un regime nato da quel colpo di stato del 2014, come si sa, fomentato, organizzato e realizzato da formazioni armate di estrema destra (secondo molti finanziate dagli Stati Uniti, ma questo non è ovviamente dimostrabile). E’ vero che questo tipo di pratiche non sarebbero una novità, visto che in passato la NATO, nello scontro con la vecchia Unione Sovietica, non si fece nessun problema ad annettere tra le sue fila la Spagna franchista e la Grecia dei colonnelli. Ma l’Unione Europea non è solo una semplice alleanza militare come la NATO, ma un progetto politico ed economico che, almeno alle sue origini, voleva essere di ampio respiro, e che oggi, già inquinato dai venti di guerra (attuali e futuri), potrebbe avere con la circolazione al suoi interno del virus nazista, la sua ingloriosa e (per tutti noi) catastrofica conclusione.

A volere approfondire la questione potremmo però anche dire che l’Europa la guerra di oggi l’ha già persa trent’anni fa. All’indomani della caduta del muro di Berlino, quando la NATO, almeno apparentemente, non aveva più alcun senso, l’Europa, ormai liberata dall’incubo nucleare, avrebbe dovuto avere la forza (necessaria nei momenti topici della storia) per affrancarsi definitivamente dalla subordinazione al colosso statunitense. Sarebbe stato necessario avviare un vero processo di fratellanza e di unificazione politica, invece di accontentarsi di una storpia unità economica condizionata dagli interessi della Germania. Va da sé che nell’ipotesi più radicale e conclusiva della nascita degli “Stati Uniti d’Europa”, la nuova formazione sarebbe potuta diventare col tempo una superpotenza imperiale, egemonica e guerrafondaia come le altre che si contendono il dominio nello scacchiere mondiale. Ma credo che questa sfida, con tutti i suoi pericoli, sarebbe potuta essere anche accettata dalle forze antagoniste anticapitaliste e antimperialiste europee (idealmente considerate, al di là delle loro attuali debolezze) in virtù della stessa complessità irrisolta della storia europea. L’Europa infatti è da un lato quella delle conquiste coloniali, delle stragi, dei genocidi e del furto di ogni ricchezza, perpetrati per secoli, in ogni angolo del mondo. Un ruolo che dopo la follia di due guerre mondiali è stato ormai da tempo lasciato agli USA. D’altra parte esiste un’altra Europa, libertaria e rivoluzionaria, con secoli di lotte, rivolte e conquiste alle spalle. Una Europa altra, una Europa che avrebbe potuto scrivere un diverso futuro per sè e per il mondo.

Una storia ed una tradizione che può oggi ancora rivivere in un vero movimento per la pace, contro ogni guerra, ma anche contro ogni oppressione, furto di ricchezze, pretese egemoniche e distruzione delle risorse del pianeta. Un percorso difficile ma non impossibile. In fondo le tradizioni, quelle cattive, ma anche quelle buone, sono dure a morire, e questa è oltretutto l’unica via per salvare la terra (ma anche per la rinascita del nostro continente).

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Fuori dal pantano della geopolitica – Raúl Zibechi

 

La geopolitica riguarda i pensieri e i modi imperiali di vedere il mondo, è al servizio degli Stati più potenti. È nata in questo modo e continua a essere tale, anche se alcuni intellettuali insistono su una sorta di geopolitica delle sinistre, o addirittura rivoluzionaria.

La geopolitica fa la sua comparsa all’inizio del XX secolo tra geografi e strateghi militari del nord, che collegano le realtà geografiche con le relazioni internazionali. Il termine è apparso per la prima volta in un libro del geografo svedese Rudolf Kjellén, intitolato The State as a Way of Life (Lo Stato come una Forma di Vita). L’ammiraglio statunitense Alfred Mahan sviluppò la strategia del dominio navale, mentre Nicholas Spykman delimitò le regioni dell’America Latina dove gli Stati Uniti devono mantenere un controllo assoluto per garantire il loro dominio globale.

La geopolitica ha avuto un grande sviluppo in Germania all’inizio del XX secolo, per raggiungere poi una grande diffusione durante il nazismo. In America Latina, i militari della dittatura brasiliana (1964-85), come Golbery do Couto e Silva, si basarono sulla geopolitica per difendere l’espansione del Brasile, per finire di occupare l’Amazzonia e diventare la potenza egemone regionale.

Non mi interessa approfondire questa disciplina, ma le sue conseguenze per i popoliSe la geopolitica riguarda i rapporti tra gli Stati, e in particolare il ruolo di coloro che cercano di dominare il mondo, il grande assente in questo pensiero sono i popoli, le moltitudini oppresse che non sono nemmeno menzionate nelle analisi geopolitiche.

Molti di coloro che giustificano l’invasione russa dell’Ucraina riempiono pagine denunciando le atrocità degli Stati Uniti. Uno di loro ci ricorda: gli Stati Uniti hanno condotto 48 interventi militari negli anni Novanta e si sono impegnati in diverse guerre senza fine, durante i primi due decenni del ventunesimo secolo. Aggiunge che in quel periodo, gli statunitensi hanno effettuato 24 interventi militari in tutto il mondo e 100mila bombardamenti aerei. Solo nel 2016, durante l’amministrazione di Barack Obama, hanno sganciato 16.171 bombe su sette paesi.

La logica di queste analisi è più o meno questa: l’Impero A è terribilmente crudele e criminale; l’Impero B è molto meno dannoso perché, evidentemente, i suoi crimini sono molto più piccoli. Dal momento che gli Stati Uniti sono una macchina imperiale che uccide centinaia o decine di migliaia di persone ogni anno, perché alzare la voce contro chi ne uccide solo poche migliaia, come la Russia?

È un modo mascalzone e calcolatore di fare politica che non tiene conto del dolore umano, che considera i popoli solo numeri nelle statistiche della morte, o li considera appena carne da cannone, numeri di un bilancio che misura solo i profitti aziendali e statali.

Al contrario, noi, los de abajo, quelli che stanno in basso, mettiamo al primo posto proprio i popoli, le classi, i colori della pelle e le sessualità oppressi. Il nostro punto di partenza non sono gli Stati, né le forze armate, né il capitale. Non ignoriamo che esiste uno scenario globale (dove si muovono) nazioni espansionistiche e imperialiste. Però analizziamo quello scenario per decidere come agire in quanto movimenti e organizzazioni de abajo, che stanno in basso.

In L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto nel 1916 durante la Prima Guerra Mondiale, Lenin analizzò il capitalismo monopolistico come causa della guerra. Non si schierò con alcuna parte e si sforzò di trasformare la carneficina in rivoluzione.

È così che ha lavorato Immanuel Wallerstein. La sua teoria sul sistema-mondo mira a comprendere e spiegare come funzionano le relazioni politiche ed economiche su un pianeta globalizzato, con l’obiettivo di dare impulso alla trasformazione sociale.

Questi sono strumenti utili per i popoli in movimento. Perché la comprensione di come funziona il sistema, lungi dal portarci a giustificare una delle potenze in lotta, ci porta a prevedere le conseguenze per quelli che stanno in basso.

 

Lo zapatismo chiama tormenta il caos sistemico che stiamo vivendo e sostiene che sia necessario comprendere i cambiamenti nel funzionamento del capitalismo. Per quanto riguarda il caos, la conclusione è che dobbiamo prepararci ad affrontare situazioni estreme, mai vissute in precedenza. Abbiamo pensato davvero che le armi atomiche potrebbero essere utilizzate nei prossimi anni?

Per quanto riguarda il funzionamento del capitalismo, sebbene gli zapatisti non lo menzionino esplicitamente – a quanto ricordo -, è evidente che l’uno per cento più ricco della popolazione ha sequestrato gli Stati-nazione; che non esistono mezzi di comunicazione ma di intossicazione, e che le democrazie elettorali sono favole, quando non scuse per perpetrare genocidi. Di conseguenza, gli zapatisti non si lasciano irretire nella logica statale.

Siamo di fronte a momenti drammatici per la sopravvivenza dell’umanità. Dobbiamo alzare lo sguardo e non lasciarci trascinare nel pantano geopolitico. Quando la foschia è così densa da impedirci di distinguere la luce dall’ombra, dobbiamo affidarci ai principi etici per continuare ad andare avanti.

Fonte: La Jornada

Traduzione a cura di Camminar Domandando

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Vincere la pace – Giulio Marcon

 

Chi aggredisce i pacifisti contrari all’invio di armi in Ucraina fa finta di dimenticare che i russi combattono anche con armi che arrivano dall’Italia. Da sempre i pacifisti si battono per limitare il commercio di armi. La Camera invece vuole portare al 2% del Pil la spesa militare, una vergogna.

 

80 sono i milioni che mandiamo ogni giorno a Mosca per comprare il gas russo: più di 2 miliardi e mezzo dall’inizio della guerra. Più di 22 sono i milioni che abbiamo incassato, dalla Russia, tra il 2015 e il 2020 dalla vendita di armi leggere, mitragliatrici e qualche decina di blindo denominati Lince, che magari ora sono usati nella guerra in Ucraina. Dal 2014 ci sarebbe stato l’embargo sulle armi in Russia, fatti salvi i contratti firmati in precedenza.

E così è successo. I vecchi contratti sono andati avanti.

Chi aggredisce i pacifisti perché contrari all’invio delle armi in Ucraina, si scorda puntualmente – e ipocritamente – di ricordare questi fatti: che i russi stanno combattendo anche con armi che arrivano dall’Italia e che stiamo finanziando la guerra di Putin, grazie all’acquisto del gas. Di fronte al business bellico o alla necessità di farsi la doccia calda, la realpolitik la vince sull’afflato etico.

Da sempre i pacifisti si battono -inascoltati- per ridurre le spese militari e limitare il più possibile il commercio di armi. Invece la Camera qualche giorno fa ha votato per portare al 2% del PIL la spesa militare: una vergogna. Il business delle armi non si ferma davanti a nulla. La compagnia Leonardo (la maggiore produttrice italiana di armamenti e per il 30% di proprietà del Tesoro) ha venduto nel 2021 anche caccia da guerra al Turkmenistan (ex Unione Sovietica, governo silente di fronte alla crisi ucraina): si tratta di un paese dove vengono violati i diritti umani, negata la libertà di stampa, praticata la tortura e il lavoro forzato. Negli ultimi 10 anni il governo del Turkmenistan ha speso 340 milioni in armi italiane.

Ora, questi pochi fatti e questi scarni numeri non vengono mai citati da diversi (non tutti) giornalisti e opinionisti presenti alle trasmissioni televisive o autori di commenti su giornali e settimanali. Fanno gli eroi con la pelle degli altri e si erigono a custodi della morale (bellica): conducono una loro personale “guerra di carta”, mentre nella guerra vera muoiono le persone in carne e ossa. La verità (e l’informazione) sono le prime vittime della guerra.

Ecco perchè consigliamo ai nostri lettori di scaricare (gratuitamente) dal nostro sito l’ebook “I pacifisti e l’Ucraina” in cui diamo ospitalità a tante voci e punti di vista, cercando di ricostruire le cause di questo conflitto e di proporre i modi per uscirne: non per vincere la guerra, ma vincere la pace.

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Come Mariupol diventerà un hub chiave dell’integrazione eurasiatica – Pepe Escobar

 

(The Cradle)

La narrativa della NATO è che Azovstal, una delle più grandi fabbriche siderurgiche d’Europa, è stata quasi distrutta dall’esercito russo e dalle forze alleate di Donetsk che “mettono d’assedio” Mariupol.

La storia vera è che il battaglione neonazista Azov ha preso decine di civili Mariupol come scudi umani dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina e si è ritirato ad Azovstal come ultima resistenza. Dopo un ultimatum consegnato la scorsa settimana, ora vengono completamente sterminati dalle forze russe, di Donetsk e dagli Spetsnaz ceceni.

Azovstal, parte del gruppo Metinvest controllato dall’oligarca più ricco dell’Ucraina, Rinat Akhmetov, è infatti uno dei più grandi stabilimenti metallurgici in Europa, autodefinito come “un’impresa metallurgica integrata ad alte prestazioni che produce coke e sinterizzazione, acciaio e -prodotti laminati, barre e forme di qualità”.

Tra una raffica di testimonianze che descrivono in dettaglio gli orrori inflitti dai neonazisti Azov alla popolazione civile di Mariupol, una storia invisibile e di buon auspicio fa ben sperare per l’immediato futuro.

La Russia è il quinto produttore mondiale di acciaio, oltre a detenere enormi giacimenti di ferro e carbone. Mariupol – una Mecca dell’acciaio – era solita rifornirsi di carbone dal Donbass, ma sotto il dominio neonazista de facto dagli eventi di Maidan del 2014, è stata trasformata in un importatore. Il ferro, ad esempio, iniziò ad essere fornito da Krivbas in Ucraina, a oltre 200 chilometri di distanza.

Dopo che Donetsk si è consolidata come repubblica indipendente o, tramite referendum, ha scelto di entrare a far parte della Federazione Russa, questa situazione è destinata a cambiare.

Azovstal ha investito in un’ampia linea di prodotti molto utili: acciaio strutturale, rotaie per ferrovie, acciaio temprato per catene, attrezzature minerarie, acciaio laminato utilizzato nelle apparecchiature di fabbrica, camion e vagoni ferroviari. Parti del complesso della fabbrica sono piuttosto moderne mentre alcune, vecchie di decenni, hanno un disperato bisogno di un aggiornamento, che l’industria russa può certamente fornire.

Strategicamente, questo è un enorme complesso, proprio sul Mar d’Azov, che ora è, a tutti gli effetti, incorporato nella Repubblica popolare di Donetsk e vicino al Mar Nero. Ciò implica un breve viaggio nel Mediterraneo orientale, inclusi molti potenziali clienti nell’Asia occidentale. E attraversando Suez e raggiungendo l’Oceano Indiano, ci sono clienti in tutto il sud e sud-est asiatico.

Quindi la Repubblica popolare di Donetsk, forse parte della futura Novorossiya, e persino parte della Russia, avrà il controllo di molte capacità di produzione di acciaio per l’Europa meridionale, l’Asia occidentale e oltre.

Sarà quindi sicuramente in grado di realizzare un vero boom nella costruzione di ferrovie merci in Russia, Cina e negli “stans” dell’Asia centrale. La costruzione di ferrovie sembra essere la modalità di connettività privilegiata per l’ambiziosa Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino. E, soprattutto, dell’International North South Transportation Corridor (INSTC) sempre più turbo.

Quindi, a medio termine, Mariupol dovrebbe aspettarsi di diventare uno degli snodi chiave di un boom nelle rotte nord-sud -INSTC attraverso la Russia e il collegamento con gli “stans” – così come importanti aggiornamenti BRI est-ovest e corridoi sub-BRI.

Eurasia interconnessa

I principali attori dell’INSTC sono Russia, Iran e India, che ora, dopo le sanzioni NATO, sono in modalità di interconnessione avanzata, completi di meccanismi di elaborazione per aggirare il dollaro USA nel loro commercio. L’Azerbaigian è un altro importante attore dell’INSTC, ma più instabile perché privilegia i progetti di connettività della Turchia nel Caucaso.

La rete INSTC sarà inoltre progressivamente interconnessa con il Pakistan – e ciò significa il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), un hub chiave BRI, che si sta lentamente ma inesorabilmente espandendo in Afghanistan. La visita improvvisata del ministro degli Esteri Wang Yi a Kabul alla fine della scorsa settimana è stata realizzata per far avanzare l’incorporazione dell’Afghanistan alle Nuove Vie della Seta.

Tutto ciò che sta accadendo mentre Mosca – estremamente vicina a Nuova Delhi – sta espandendo contemporaneamente le relazioni commerciali con Islamabad. Tutti e tre, soprattutto, sono membri della Shanghai Cooperation Organization (SCO).

Quindi il grande design nord-sud esprime una connettività fluida dalla terraferma russa al Caucaso (Azerbaigian), all’Asia occidentale (Iran) fino all’Asia meridionale (India e Pakistan). Nessuno di questi attori chiave ha demonizzato o sanzionato la Russia nonostante le continue pressioni degli Stati Uniti per farlo.

Strategicamente, ciò rappresenta il concetto multipolare russo di Greater Eurasian Partnership in azione in termini di commercio e connettività, in parallelo e complementare alla BRI perché l’India, desiderosa di installare un meccanismo rupia-rublo per acquistare energia, in questo caso è una Russia assolutamente cruciale partner, corrispondente all’accordo strategico da 400 miliardi di dollari della Cina con l’Iran. In pratica, il partenariato per la Grande Eurasia faciliterà una connettività più fluida tra Russia, Iran, Pakistan e India.

L’universo della NATO, nel frattempo, è congenitamente incapace persino di riconoscere la complessità dell’allineamento, per non parlare di analizzarne le implicazioni. Quello che abbiamo è l’intreccio tra BRI, INTSC e la Greater Eurasia Partnership sul campo, tutte nozioni che sono considerate anatema nella Washington Beltway.

Tutto ciò, ovviamente, è stato progettato in un momento geoeconomico rivoluzionario, poiché la Russia, a partire da giovedì, accetterà per il suo gas pagamenti solo in rubli dalle nazioni “ostili”.

Parallelamente alla Greater Eurasia Partnership, la BRI, da quando è stata lanciata nel 2013, sta progressivamente intrecciando una rete eurasiatica complessa e integrata di partenariati: finanziaria/economica, connettività, costruzione di infrastrutture fisiche, corridoi economici/commerciali. Anche il ruolo della BRI come co-creatore delle istituzioni di governance globale, comprese le basi normative, è stato cruciale, con grande disperazione dell’alleanza NATO.

È ora di de-occidentalizzare

Eppure solo ora il Sud del mondo, in particolare, inizierà a osservare l’intero spettro del gioco Cina-Russia nella sfera eurasiatica. Mosca e Pechino sono profondamente coinvolte in una spinta congiunta per la de-occidentalizzazione della governance globalista, se non per distruggerla del tutto.

D’ora in poi la Russia sarà ancora più meticolosa nel suo sviluppo istituzionale, unendo l’Unione economica eurasiatica (EAEU), la SCO e l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) – un’alleanza militare eurasiatica di Stati post-sovietici selezionati – in un contesto geopolitico contesto di divario istituzionale e normativo irreversibile tra Russia e Occidente.

Allo stesso tempo, la Greater Eurasia Partnership consoliderà la Russia come il ponte eurasiatico definitivo, creando uno spazio comune in tutta l’Eurasia che potrebbe anche ignorare l’Europa vassalizzata.

Nel frattempo, nella vita reale, la BRI, tanto quanto l’INSTC, sarà sempre più collegata al Mar Nero (hello, Mariupol). E la stessa BRI potrebbe anche essere incline a una rivalutazione nella sua enfasi sul collegamento della Cina occidentale alla base industriale in diminuzione dell’Europa occidentale.

Non avrà senso privilegiare i corridoi BRI settentrionali – Cina-Mongolia-Russia attraverso la Transiberiana e il ponte terrestre eurasiatico attraverso il Kazakistan – quando l’Europa sta cadendo nella demenza medievale.

La rinnovata attenzione della BRI sarà quella di ottenere l’accesso a materie prime insostituibili – e questo significa la Russia – oltre a garantire forniture essenziali per la produzione cinese. Le nazioni ricche di materie prime, come il Kazakistan e molti attori in Africa, diventeranno i principali mercati futuri per la Cina.

In un ciclo pre-Covid attraverso l’Asia centrale, si sentiva costantemente che la Cina costruisce impianti e ferrovie ad alta velocità mentre l’Europa nel migliore dei casi scrive libri bianchi. Può sempre peggiorare.

L’UE in quanto territorio statunitense occupato sta ora discendendo, rapidamente, dal centro del potere globale allo status di attore periferico irrilevante, un semplice mercato in difficoltà nell’estrema periferia della “comunità del destino condiviso” della Cina.

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I pacifisti e l’Ucraina. Le alternative alla guerra in Europa – Giulio Marcon, Mario Pianta

 

L’ebook che racconta la storia recente dell’Ucraina e presenta le vie di una pace possibile, con analisi e testimonianze sull’opposizione alla guerra e la società civile a Mosca, a Kiev e nel resto d’Europa: i conflitti vanno affrontati con gli strumenti della politica, per costruire un ordine di pace.

 

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L’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 – una gravissima aggressione militare – ha riportato la guerra in Europa. Bombardamenti, colonne di carri armati, missili, città distrutte, trincee, migliaia di morti per le strade, milioni di profughi in fuga dal paese. E, fuori dall’Ucraina, in Europa e in Italia, invio di armi, sanzioni economiche, corsa alla spesa militare: governi, parlamenti e media sono scesi tutti sul sentiero di guerra. Una strada che non è in grado di fermare l’aggressione della Russia di Vladimir Putin all’Ucraina, che rischia un’escalation internazionale, che prolunga il conflitto, aumenta le vittime e le sofferenze.

Questo ebook di Sbilanciamoci! dà voce alle ragioni della pace e dei pacifisti. Aiuta a capire le cause – vicine e lontane – del conflitto e gli strumenti per risolverlo. Mette in luce le azioni di coloro che – innanzi tutto in Russia e in Ucraina, ma anche in Italia e in tutta Europa – si sono opposti alle armi e hanno chiesto la fine dell’invasione e una soluzione di pace.

La genesi della guerra in Ucraina è chiara. Il primo motivo sta nella politica “imperiale” e aggressiva della Russia di Vladimir Putin. Per tenere assoggettato il proprio “cortile di casa”, Putin si è avventurato in una serie di guerre e interventi militari: ha prima “normalizzato” la Cecenia, poi c’è stata la guerra in Georgia (2008), poi in Ucraina (2014) e, con il sostegno a operazioni repressive o militari, ha tenuto vincolati alla Russia altri stati satellite (da ultimo il Kazakistan). Questa tendenza “imperiale” verso l’esterno si è coniugata con la stretta del regime verso l’interno, fondata sulla repressione e persecuzione dei dissidenti e sul potere economico di un’oligarchia affaristica.

Il secondo motivo di questa guerra risiede nelle politiche di Stati Uniti ed Europa che hanno puntato a espandere la Nato e la sfera d’influenza occidentale ad est, un’espansione sollecitata peraltro dai paesi ex Patto di Varsavia, impauriti dalla vicina Russia. L’Unione europea, con i suoi accordi di associazione e le domande di adesione, è stata parte di questa espansione, senza disporre di strumenti adeguati di integrazione politica ed economica dei paesi ai suoi confini, all’est come nel Mediterraneo, e senza considerare i più ampi effetti regionali. L’ascesa della Cina – sul piano economico e politico – ha rappresentato un ulteriore fattore importante e proprio con la Cina la Russia ha stretto rapporti e alleanze, fino a firmare venti giorni prima dell’inizio della guerra, un importante accordo di cooperazione. In questo quadro, proporre l’ingresso dell’Ucraina nella Nato – cioè portare le armi della Nato sotto le porte di Mosca – è stato visto da Putin come una provocazione inaccettabile.

Ma non possiamo fermarci alla logica del potere degli Stati, alle strategie militari, tanto più che i trent’anni dalla fine della guerra fredda ci insegnano che la guerra non porta a successi politici: la sicurezza si allontana, le distruzioni si moltiplicano, gli Stati si sgretolano, la società e l’economia sono fatti a pezzi. È la lezione delle guerre dell’ex Jugoslavia, fino alla Siria e alla sconfitta americana in Afghanistan dell’estate 2021.

La tesi dei pacifisti è che i conflitti vanno affrontati con gli strumenti della politica: l’obiettivo è costruire un ordine internazionale fondato sulla sicurezza comune – io non sono ‘al sicuro’ se il mio vicino o avversario non si sente ugualmente ‘sicuro’ – e sul disarmo, rovesciando la corsa alle armi nucleari, convenzionali e al cyber-warfare. Dalla guerra in Ucraina si esce soltanto con il cessate il fuoco, il negoziato, un accordo internazionale che crei le condizioni per una sicurezza collettiva, per la ricostruzione economica e sociale. Per contribuire alla pace l’Europa non deve trasformarsi in una superpotenza militare, ma favorire un’Ucraina neutrale, aprire la strada al disarmo e alla rimozione delle armi nucleari dal continente, proporre un’integrazione economica – all’est e nel Mediterraneo – che non sia soltanto l’annessione dei mercati.

E non dobbiamo dimenticare i molti altri conflitti aperti nel mondo. Solo un mese prima della guerra in Ucraina, nel gennaio 2022 Sbilanciamoci! ha pubblicato un altro ebook, Afghanistan senza pace 2001-2022. Ragioni, documenti, reportage, a cura di Daniela Musina e Delina Goxho che ricostruiva il fallimento dei vent’anni di guerra americana a Kabul, con analisi sugli interventi militari, sulla costruzione della pace, sulla solidarietà della società civile che sono rilevanti anche per il caso dell’Ucraina.

In questo ebook raccogliamo analisi, esperienze e proposte – quasi tutte già pubblicate sul sito sbilanciamoci.info – che vanno in queste direzioni. Iniziamo con la voce di Luciana Castellina, figura di riferimento dei movimenti per la pace in Italia ed Europa fin dagli anni ‛80, che in un’intervista appassionata – si può vedere il video qui – argomenta le ragioni della pace, l’esigenza di far tacere le armi, trovare una soluzione negoziata, imparando le lezioni della storia e del pacifismo in Europa.

La prima parte dell’ebook – la storia e la guerra – ricostruisce la storia dell’ordine internazionale con David Harvey, analizza le dinamiche della guerra con Martino Mazzonis, Francesco Strazzari e Alberto Negri, esamina gli arsenali e la spesa militare con Maurizio Simoncelli e Sofia Basso. Come documentazione, per mettere in luce le contraddizioni della stessa politica Usa, ripubblichiamo alcuni testi di Henry Kissinger, Thomas Friedman, dello stesso presidente Joseph Biden sull’estensione della Nato nell’est Europa e sul caso dell’Ucraina.

All’economia è dedicata una sezione che parte dalla crisi russa dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, esamina le sanzioni commerciali, finanziarie e il caso del gas russo con Monica Di Sisto, Alessandro Messina e Leopoldo Nascia, e considera, con Vincenzo Comito, le possibili conseguenze economiche della guerra in corso.

La pace possibile è la terza parte dell’ebook, con le voci e le ragioni dei pacifisti. Giulio Marcon scrive dei pacifisti italiani di fronte all’Ucraina, racconta le manifestazioni, presenta le analisi della guerra e argomenta le proposte di soluzione del conflitto, di un ordine di pace in Europa. L’urgenza di una campagna europea per la pace e i diritti umani (con un relativo appello) è spiegata da Dmitri Makarov e Mary Kaldor. L’opposizione alla guerra in Russia, nelle molte forme che attraversano la società civile, è analizzata da Maria Chiara Franceschelli, insieme a una testimonianza su un arresto, un appello femminista contro la guerra, un invito a disertare per i soldati russi. Sul fronte ucraino sono analizzate le possibilità di resistenza nonviolenta, con Maciej Bartkowski; si ricostruisce con Donatella della Porta l’evoluzione della società civile di Kiev, segnata da lotte per la democrazia e da spinte nazionaliste; si propone con Norman Paech il modello di “città aperta” per evitare le distruzioni della guerra; si considera il ruolo della nonviolenza con Yurii Sheliazhenko.

Le pratiche di pace e le azioni nonviolente di fronte ai conflitti sono raccontate da Martin Köhler nel caso delle proteste contro gli euromissili americani alla base di Comiso negli anni ‛80, da Giulio Marcon nel caso delle guerre nell’ex Jugoslavia, con le carovane di pace e le iniziative di solidarietà, da Grazia Naletto nel caso dell’accoglienza ai profughi in fuga dalla guerra in Ucraina.

I termini di un possibile negoziato per il cessate il fuoco e un accordo di pace sono proposti da Anatol Lieven.

Infine, due riletture importanti. Le pagine finali dei “Racconti di Sebastopoli” di Leone Tolstoj, sulla guerra di Crimea di metà ottocento e il racconto di Nuto Revelli, da “La strada del Davai”, sulla ritirata attraverso l’Ucraina dei militari italiani dopo la sconfitta nella Campagna di Russia nella seconda guerra mondiale. Due storie di orrori della guerra, nelle terre ora segnate dal nuovo conflitto.

L’ebook I pacifisti e l’Ucraina, le alternative alla guerra in Europa è il risultato del lavoro collettivo di tutta la Campagna Sbilanciamoci! Vogliamo ringraziare tutti gli autori per la loro disponibilità e partecipazione. Ringraziamo inoltre Rachele Gonnelli, che ha curato l’uscita dei testi su Sbilanciamoci.info e la raccolta dei contributi, Francesca Giuliani che ha realizzato il video dell’intervista a Luciana Castellina, Giulia Carpino che ha curato le traduzioni, Mara Petrocelli che ha lavorato sul sito e sui social media, Cristina Povoledo che ha curato la grafica e l’impaginazione, Mario Biani che ci ha dato la copertina, Guglielmo Ragozzino, che ha contribuito a dar forma a questo lavoro.

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IL MILITARISMO NELL’EPOCA DEL LOBBYING – Comidad

 

Il progetto americano di “afganizzazione” dell’Ucraina non poteva essere ignoto allo stato maggiore russo all’atto dell’invasione, dato che era già stato ampiamente anticipato da notizie della stampa occidentale. Il 20 dicembre dello scorso anno il quotidiano britannico Daily Mirror narrava di un piano segreto dei servizi di intelligence statunitensi per addestrare alla guerriglia truppe ucraine in vista di un’invasione russa.
Prima ancora di quell’articolo, il 6 dicembre dello scorso anno, una notizia analoga, e più particolareggiata, era stata pubblicata sul sito del Consiglio Atlantico, che è una sorta di forum ideologico euro-americano fondato nel 1961 in funzione dello sviluppo della NATO. L’articolo dava conto delle spese militari sostenute dagli USA per fornire supporto alla resistenza ucraina in caso di invasione: 2,5 miliardi di dollari dal 2014, e 400 milioni per il solo 2021. L’articolo si soffermava ampiamente sulle tattiche militari e sul tipo di armi da utilizzare in base alle caratteristiche del territorio ucraino per fronteggiare un’invasione. Secondo l’Atlantic Council quelle spese e quei programmi di addestramento però non dovevano risultare segreti, anzi, dovevano svolgere una funzione di deterrenza in modo da rendere insostenibile un’occupazione del suolo ucraino.
Con questa militarizzazione del suolo ucraino, probabilmente la popolazione ucraina c’entra in minima parte. L’afflusso di mercenari stranieri dal 2014 è stato incessante. Ci sono state anche notizie di stampa che illustravano i dettagli del reclutamento di mercenari nei Balcani da parte della ex Blackwater, che oggi si fa chiamare Academi.
Lo scrittore americano Ambrose Bierce, proveniente dalla carriera militare e fondatore, insieme con Mark Twain, della Lega Antimperialista americana, aveva detto che Dio ha creato la guerra perché gli esseri umani imparassero la geografia. In base alla geografia, non si capirebbe il motivo per cui i Russi dovrebbero occupare tutta l’Ucraina, dal momento che possono minacciarne in ogni momento la capitale Kiev partendo dalla vicinissima Bielorussia, ora alleata del Cremlino; e inoltre possono semplicemente sottrarle l’accesso al mare occupando la fascia che va dal Donbass alla Crimea. Anche lasciando Odessa, con il suo prezioso porto, all’Ucraina, la città si troverebbe comunque stretta in un collo di bottiglia. La vulnerabilità geografica dell’Ucraina è tale che una sua “afganizzazione” risulta abbastanza irrealistica e quindi l’ipotesi non giustificava tante spese. A proposito di spese, altrettanto irrealistica appariva l’ipotesi di un’occupazione dell’intera Ucraina, considerando i costi insostenibili per un imperialismo povero come quello russo. Basti pensare che Israele ha potuto permettersi una così lunga occupazione della Cisgiordania perché è l’Unione Europea a sobbarcarsi la spesa del mantenimento della popolazione palestinese e della sua amministrazione.

Probabilmente non è mai esistito un periodo della Storia in cui non si sia “mangiato”, e a dismisura, sulle spese militari. Il problema è che nell’epoca del lobbying vi è stata un’inversione del rapporto, per cui ora il militarismo è in funzione della spesa e non viceversa. Un caso divenuto un classico è la voragine finanziaria dei caccia Lockheed Martin F35, ribattezzato l’aereo più costoso della Storia, tanto che la messa a punto dei suoi innumerevoli difetti di costruzione genera in continuazione nuove esigenze di spesa.
Il caccia F35 è come il virus: adesso siamo già alla quinta ondata, o alla quinta dose. Da questo punto di vista il caccia F35 può considerarsi un grande successo in termini di profitto. Come il siero Pfizer, se il caccia F35 fosse stato efficiente non avrebbe reso tanto. Si tratta della combinazione esplosiva tra i flussi di capitali privati nelle Borse e il denaro pubblico. Nelle spese militari il cliente è lo Stato e quindi i profitti sono assicurati, ed è ovvio che nelle Borse i soldi seguano i soldi. Gli F35 dovrebbero anche completare la servitù militare italiana. Già ora l’Italia è sede di armi nucleari strategiche, e gli F35 sono in grado a loro volta di portare bombe nucleari all’idrogeno indicate allegramente come “tattiche”, le B61 modello 12. “Tattiche” vorrebbe dire che potrebbero essere sganciate sul proprio stesso suolo o in prossimità. Quando si dice la sicurezza.
In Italia ora ci viene anche detto che la decisione di portare la spesa militare al 2% del PIL era stata presa dal 2014, quindi l’invasione dell’Ucraina è stata solo l’occasione, o il pretesto, per giustificarlo. Il 2% significherebbe incrementare la spesa dagli attuali 23 miliardi annui a 35 miliardi. Niente male per le oligarchie del settore, quelle che controllano Iveco, Oto Melara e consimili.
Il paradosso è che le maggiori critiche al sistema dell’incremento costante delle spese militari provengono oggi dall’interno dello stesso militarismo americano, con la denuncia del sistema delle porte girevoli tra Pentagono ed aziende private che fa lievitare i costi per armamenti dalle prestazioni sempre più incerte. Non che in Europa e in Italia le cose vadano diversamente. Nel Project On Government Oversight (POGO) confluiscono anche veterani delle forze armate statunitensi che sono preoccupati per il degrado del loro apparato bellico. La “scoperta” di POGO è che spendere di più in armamenti non significa per nulla essere meglio armati. Vai a vedere che oggi i veri antimilitaristi sono quelli che vogliono l’aumento delle spese militari. Paradossi del lobbying.

da qui

 

 

 

 

L’Italia che MAI disse NO a una guerra: il triste primato con Usa e GB – Marinella Correggia

 

Lo spiegò nei dettagli don Lorenzo Milani, nella sua Lettera ai cappellani militari, marzo 1965: nei 100 anni trascorsi dall’unità, l’Italia aveva sempre e solo impiegato l’esercito nazionale per offendere le patrie altrui. In questa storia bellicosa, un’unica guerra di difesa – e non condotta dall’esercito: la lotta partigiana. Dalla quale nacque l’articolo 11 della Costituzione, con il ripudio della guerra.

Sono passati decenni da quella importantissima lettera che dovrebbe essere studiata a memoria. Ma nel suo piccolo lo Stivale è tuttora il più assiduo fra gli attaccabrighe. Il patrono d’Italia sarà anche san Francesco, ma di certo il dio di questo paese sembra essere Marte, celebrato del resto dall’Impero romano.

E’ stato così anche per gli ultimi decenni, per gli interventi militari condotti dall’Occidente e dai suoi alleati a partire dal 1991 (Iraq), con un intero arsenale di scuse «umanitarie» e «altruiste» e mai per la difesa dei propri confini o per rispondere a un attacco.

Insomma l’Italia condivide con Stati uniti e Regno unito il triste primato di non essersi mai sottratta agli interventi militari diretti o per procura (e lasciamo da parte le numerose missioni di peace-keeping).

Mai negato un aereo da guerra. Mai negato una base per bombardieri. Mai che si sia dimesso un ministro per protesta. Mai che si sia detto no a una destabilizzazione (si pensi alla Siria). Mai che siano state negate armi a paesi in guerra (si pensi ai Saud contro lo Yemen), malgrado leggi a divieto.

Altri paesi occidentali dissero no, qui e là. I paesi neutrali, sempre (comesarebbe bello essere un paese neutrale). Ma perfino membri della Nato mostrarono sprazzi di rinsavimento.

Nel 2003, Francia e Germania si sottrassero all’attacco all’Iraq; e perfino nel Regno unito di Tony Blair (detto anche Tony B-liar per via delle sue colossali menzogne), il ministro Robin Cook si dimise per protesta. Nel 1999, la Grecia non partecipò ai bombardamenti umanitari sulla Serbia. Nel 2011, la Norvegia si ritirò dall’operazione Protettore unificato (!) contro la Libia dopo circa tre mesi. Nel 1991, il ministro della difesa francese Jean-Pierre Chévènement lasciò il governo che partecipava alla evitabilissima guerra contro l’Iraq, uno spartiacque nella storia anche del nostro paese.

Ma anche quando qualcun altro diceva no, l’Italia si mostrava ligia alla guerra. Pronta a ogni bomba, a ogni spedizione.

E stavolta? Roma sceglierà ancora una volta di fomentare una guerra che per la prima volta non si svolge su terre lontane? Paesi come Francia e Germania mostrano posizioni meno guerrafondaie. Dobbiamo proprio appiattirci sulla Polonia?

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L’Ucraina e il futuro dell’Europa – Gian Giacomo Migone

 

Quando il presidente degli Stati Uniti chiama il presidente della Russia “un macellaio” che deve essere rimosso dalla propria carica opta per un prolungamento del conflitto, con i conseguenti orrori in atto. Né le successive interpretazioni da parte dei suoi collaboratori (che rasentano delle smentite) bastano a recuperare, almeno nell’immediato, una conclusione delle ostilità in termini di compromesso. Perché ciò avvenga occorre una presa di coscienza da parte europea – come e al di là delle parole spese da Macron – che questa è una guerra condotta dalla Russia di Putin ma incoraggiata dal Governo degli Stati Uniti, e non solo dal suo presidente. Una guerra che ha due bersagli: l’Ucraina in quanto parte dell’Europa e l’Europa nel suo insieme, da ricondurre sotto il tallone della NATO, dipendente da risorse energetiche più costose fornite o controllate dagli Stati Uniti, riarmata nel quadro dell’Alleanza senza velleità strategiche proprie. Insomma, un rilancio della Guerra fredda, attraverso una conflittualità connivente tra due potenze imperiali, tanto più pericolose perché storicamente declinanti.

Il 30 novembre 1939 Stalin aggredì la Finlandia neutrale, approfittando dell’alleanza temporanea con Hitler, sancita dal patto Ribbentrop-Molotov che, nei mesi precedenti, aveva costituito la premessa per l’inizio della Seconda guerra mondiale. Lo scopo di Stalin era quello di trasformare la Finlandia in uno Stato vassallo, presieduto dal presidente del partito comunista finlandese, allora di fede sovietica, di nome Otto Kuusinen. Tuttavia, la straordinaria difesa finlandese – che utilizzò a suo favore quel “generale inverno” che aveva contribuito alla sconfitta di Napoleone e, in un non lontano futuro, avrebbe contribuito a quella di Hitler e di Mussolini –, insieme con la solidarietà soprattutto della vicina, socialdemocratica e pure neutrale Svezia, costrinse Stalin ad accettare una pace di compromesso. La Finlandia rimase neutrale e indipendente, Otto Kuusinen dovette emigrare a Mosca e Stalin accontentarsi di una piccola parte dei territori finlandesi, per poi dedicarsi alla conquista dei Paesi baltici come beneficio del patto di non aggressione con Hitler, a sua volta impegnato a conquistare la Polonia. Dal punta di vista umano quell’aggressione, dimenticata nelle pieghe della Seconda guerra mondiale, era costata circa 200.000 morti, dei quali la maggioranza di nazionalità sovietica. Dopo circa quattro mesi di guerra, prevalse la parola d’ordine, lanciata dalla vicina Svezia: “Finlands sak aer” (La causa della Finlandia è la nostra).

Di fronte a un’altra guerra d’aggressione, a ottant’anni di distanza, non possiamo che dichiarare il nostro orrore per le vittime di qualsiasi guerra: oggi, innanzitutto civili, migranti ucraini in fuga, anche reclute russe. Le devastazioni causate da Putin ci stanno aprendo gli occhi con molto ritardo anche a quelle vittime nascoste, che tuttora crescono nello Yemen e che, a centinaia di migliaia, sono state causate da interventi militari, in violazione di ogni norma internazionale – le così dette coalitions of the willing (coalizioni dei volonterosi), guidate dagli Stati Uniti – in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, di cui anche noi siamo stati partecipi comprimari e/o fornitori di armi.

Nello stesso tempo non possiamo non fare nostra quella ormai defunta parola d’ordine, ispirata dalla volontà di un popolo che, a grande maggioranza, rifiuta di sottomettersi all’aggressore, rinunciando alla propria indipendenza: in quanto europei, la causa dell’Ucraina è la nostra. Perché l’Ucraina è parte dell’Europa, attaccata anche in quanto tale. Non sfugga il fatto che la Russia di Putin, con la propria aggressione, ha riesumato la divisione dell’Europa che ha caratterizzato la Guerra fredda, nel non abbastanza breve secolo scorso. Come non può sfuggirci il fatto che quanto sta avvenendo in Ucraina restituisce alla NATO una funzione che aveva perso con la caduta del Muro, restaurando, almeno in questa fase, un principio gerarchico, fondato su una presenza militare statunitense, anche nucleare, su territorio europeo che, più ancora che in passato (ricordate il principio della doppia chiave?), sfugge al controllo degli Stati – in primis il nostro – che la ospitano. Come constata la prima pagina del New York Times del 14 marzo: «La guerra in Ucraina ha sollecitato la più grande revisione della politica estera americana […] infondendo agli Stati uniti un nuovo senso di missione e mutando i suoi calcoli strategici nei rapporti con i propri alleati e avversari». Come spiega Alessandro Portelli (Quanto è grande e dove arriva il cuore dell’Europa?il manifesto, 16 marzo), denunciare la graduale espansione della NATO, fino ai confini della Russia, non è per giustificare la politica di Putin, bensì, al contrario, per imputargli un’ulteriore forma di aggressione nei nostri confronti, nel tentativo, per ora riuscito, di reinstaurare un bipolarismo, a un tempo pericoloso e connivente, che riduce l’Europa a terreno di conflitti e di conquista di soggetti militarmente più forti – oggi Russia e Stati Uniti, in prospettiva la Cina – e priva mezzo miliardo di persone di una voce a livello globale.

Per contribuire a far cessare lo scempio in atto di vite umane, l’Europa deve trovare la sua unità politica e prospettiva strategica, ancora pochissimo presente nei consessi di Bruxelles, nella formulazione di un programma di pace che salvaguardi e accolga i fuggiaschi da questa e da ogni guerra (ripartendone equamente l’onere, senza distinzione di provenienza e di colore della pelle) e che riconosca la pronta adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, preservandone l’indipendenza e la neutralità simile ad altri Stati membri, opponendosi alle sintomatiche pressioni per l’adesione anche della Svezia e della Finlandia alla NATO (non a caso incoraggiate da provocazioni di Mosca nei loro confronti) e riconoscendo a quella parte dell’Ucraina a prevalente vocazione e lingua russa diritto di autodeterminazione. D’ora in poi chi pone al primo posto la ricerca della pace dovrebbe ricordare il monito del cardinale Martini, secondo cui è necessario rinunciare a una parte di ciò che si ritiene giusto. Mosca accentuerebbe così il proprio isolamento sancito dall’Assemblea Generale dell’ONU, spingendosi oltre le pretese a suo tempo definite da Stalin a conclusione della propria aggressione alla Finlandia. E la sede naturale per la ricerca di una soluzione pacifica e un ritorno alla legalità internazionale resta quella dell’ONU (cfr. Luigi Ferrajoli su il manifesto del 16 marzo: https://volerelaluna.it/rimbalzi/2022/03/23/per-la-pace-in-ucraina-le-nazioni-unite-in-seduta-permanente/), ove l’orientamento multipolare della Cina potrebbe risultare determinante.

Quanto alla rivendicazione di diritti e libertà umane, esse risultano assai più credibili nella bocca di coloro che protestano e subiscono conseguenti repressioni in Russia che non in quelle dei governanti occidentali. Si riconosca il valore etico e politico della resistenza ucraina, senza aggiungere guerra alla guerra, armi alle armi, con riferimenti impropri a quella, ad esempio italiana, che si sviluppò militarmente contro un esercito nazista ormai in fuga. Piuttosto, si valutino forme di presenza e testimonianza solidale, da parte di governanti, parlamentari e volontari europei, in un teatro ancora di guerra, come prontamente suggerito da Alex Zanotelli e altre persone impegnate per la pace.

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Guerre parallele – Domenico Quirico

 

Ma che guastafeste questo Biden: chiama alle armi, alla soluzione radicale, o Putin o noi, perfino il buon dio che pure è infinitamente paziente non lo sopporta più al Cremlino, con un nemico mortale non ci sono accomodamenti, ucciderlo o farsi uccidere, nessuna via di mezzo. Finalmente venne il Presidente! Le sue parole di guerra e di odio sono di oro zecchino, le nostre, con i distinguo e i controdistinguo, sanno di reticente, di falso. noi dell’Unione europea facciamo la guerra ma accuratamente difensiva, pudibonda, fino a un certo punto e non oltre, per carità. Ci viene comodissimo uno strampalato neologismo mussoliniano: tifiamo per uno dei duellanti ma restiamo «non belligeranti». Molte sono le scappatoie, confidiamo, molte le porte per non andare da nessuna parte.

Adesso non abbiamo più bisogno di Cassandre. Sappiamo ufficialmente. L’Unione europea e gli Stati Uniti combattono in Ucraina due guerre diverse pur dandosi grande manate sulle spalle e giurandosi fedeltà eterna. Perché in guerra siamo già con la Russia e l’idea di poter fermare un simile macello in qualsiasi momento come si spinge il freno dell’automobile è una bella pretesa di ingenui. Allora: l’Europa, con buona volontà e impegno, per quanto le consentono i suoi limiti, si propone di preservare per quanto possibile la indipendenza ucraina, salvare e aiutare i profughi e, elemento cruciale, uscirne limitando i propri danni già vasti. Che sono quelli che derivano dalle forniture di gas e altri utilissimi materiali che, purtroppo, arrivano in gran quantità da quelle latitudini selvatiche.

Gli americani invece… che cosa pescano nel vaso di pandora? Gli americani, come ha spiegato sillabando bene vocali e consonanti e mettendole poi per iscritto Biden, hanno un progetto molto più ambizioso di cui l’Ucraina, è amaro dirlo, non è che lo scenario geografico e a cui fornisce il materiale umano. Il progetto è quello di spazzar via Putin dallo scenario politico mondiale. I mezzi da impiegare si svelano a poco a poco, con l’evoluzione della situazione sul campo, come dicono giudiziosamente i generali. All’inizio era soltanto l’idea di logorare i russi con una gigantesca guerriglia. Da anni, con saggia precauzione, la pianificavano imbottendo di armamenti efficienti gli sgangherati arsenali ucraini. Ecco servito un secondo Afghanistan modello anni Ottanta nel cuore dell’Europa con gli eroici, loro malgrado, ucraini al posto degli eroici mujiaheddin.

Sullo sfondo, non pronunciata esplicitamente ma accarezzata con cura, la possibilità che alla fine di questo ben architettato dissanguamento il capitolo finale lo scriva un efficace intrigo di palazzo: a eliminare il coriaceo dittatore logorato dalla mancata vittoria avrebbe provveduto una mano russa. In fondo il delitto perfetto. Non è escluso che le fertili menti della Cia stiano lavorando per ingaggiare pugnali in Russia disposti a correre il rischio di indossare i panni di Bruto e di Cassio. A rileggere la storia dei Servizi americani si può ben dire che questo «escamotage» è una specialità della casa. È difficile liberarsi della vecchia pelle.

Elemento fondamentale della strategia è sabotare qualsiasi possibilità di negoziato. Con dichiarazioni incendiarie, annunci di escalation chimiche batteriologiche atomiche del nemico russo, minacce, insulti. Una conclusione della guerra che veda Putin ancora al potere, per di più con la realizzazione di qualcuno dei suoi scopi come la neutralizzazione «in saecula saeculorum» della Ucraina o la definitiva russificazione di Crimea e zone collegate e allargate, sarebbe un disastro per gli americani. Quando Zelensky lascia lampeggiare la possibilità di accettare alcune pretese russe pur di salvare quanto resta del suo Paese martoriato, si intravede l’irritazione. Serve perché è l’immagine della resistenza eroica e fino all’ultimo uomo, un abile rivenditore di sofismi oltranzisti. Se accarezzasse l’idea di metter da parte il vocabolario dell’inflessibile, be’, a Kiev gli americani non faranno fatica a trovare i trinceristi del programma unico: ributtiamo i russi a casa loro. A rilegger la storia dell’impero americano non sarebbe la prima volta: si fa in fretta a licenziare e sostituire i dipendenti locali che non si tengono sulla retta via della compiacenza e del rispetto delle regole.

A Washington sanno benissimo che per loro, come per Putin, l’Ucraina cinicamente non vale in sé niente, è popolata di uomini senza importanza. Facendola a pezzi l’autocrate russo si rivolge proprio a Biden, una esibizione di forza brutale per ottenere una trattativa diretta, esplicita tra i Grandi che coinvolga anche l’alleato cinese. Dovrebbe il vertice riscrivere l’Ottantanove nefasto, definire le aree di influenza, i vassalli e le zone grigie con la Russia restaurata così nel suo ruolo sovietico-imperiale. Sarebbe la fine dell’ordine americano del mondo che è conseguenza proprio della dissoluzione dell’Urss (la fine della Storia) e dello sfruttamento americano della lotta infinita al terrorismo. Ma trattare con Putin vorrebbe dire ammettere che gli Stati Uniti sono una potenza debole, ormai una potenza come le altre.

Nelle ultime mosse di Biden fa capolino un pericoloso aggiornamento di questa strategia dei tempi lunghi. Gli americani hanno fretta ora di liquidare il Satana di turno. Sembrano disposti a alzare il livello dello scontro, si affaccendano a dimostrare che le trattative e i rinvii son tutte ciance che Putin sfrutta a vantaggio del suo orgoglio insolente. Insomma gli americani sembrano aver accettato l’idea che valga la pena menar le mani, di persona, direttamente. Si sente odore di battaglia e di permesso di sparare. Come annunciatori di irrimediabile tempesta li precedono gli europei oltranzisti, la Gran Bretagna, regno disunito che nel ruolo di servizievole anglosassone trova ancora un simulacro di potenza, e i polacchi che cercano di saldare gli innumerevoli conti aperti con tutte le Russie, zarista, staliniana, putiniana.

E l’altra Europa? le sua rotta fatalmente divergerà sempre più da quella americana. Poi al momento decisivo, dovrà o allinearsi o ognuno cercherà di assicurarsi l’evasione con mezzi propri.

da qui

 

 

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Donne e bambini legate ai pali dal regime di Kiev. Sull’incredibile giustificazione de la Stampa – Agata Iacono

 

Per giorni abbiamo ricevuto queste immagini di bambini, donne, famiglie intere legate ai pali, denudati, picchiati, umiliati alla gogna.

 

Poiché abbiamo sempre controllato mille volte ogni fonte, rinunciando a pubblicare se non confortati da molteplici verifiche, (è arduo districarsi tra mille bufale di guerra), oggi, finalmente, La Stampa ci offre la conferma ufficiale.

 

Mentre Zelensky fa il suo show al Parlamento italiano, tra comparse plaudenti all’ingresso in guerra dell’Italia “per difendere l’Europa dall’invasione russa e difendere i valori della democrazia occidentale”, nelle città ancora in mano alle truppe ucraine cosa sta succedendo?

 

La tecnica di inversione semantica della manipolazione linguistica chiama “deportati” i bambini, le donne, le famiglie che riescono a usufruire dei corridoi umanitari russi, sfuggendo al blocco delle brigate neonaziste che, secondo moltissime testimonianze dei rifugiati, ne stanno facendo scudo umano. Molti altri video mostrano civili ucraini uccisi brutalmente alle periferie delle città da cui stavano fuggendo.

 

Chi sono, quindi, i bambini e le ragazzine, legati ai pali avvolti dalla plastica, fissati da grossi nastri adesivi gialli (in altre foto e video che evitiamo di pubblicare – ma che mette proprio la Stampa – vengono abbassati i pantaloni e i volti deturpati)?

 

Ce lo spiega La Stampa, così, semplicemente, senza neppure tentare di giustificare lo scempio e la violenza che si consuma nelle città ancora in mano agli ucraini.

Scrive la Stampa mostrando un video “che contiene immagini sensibili”:

 

“Il pugno duro dell’Ucraina contro i saccheggiatori, il consigliere del ministro degli Interni: “Uccisi sul posto o legati a pali”

 

Il consigliere del ministro degli Interni dell’Ucraina Vadim Denisenko ha affermato di non considerare “selvaggio in tempo di guerra il maltrattamento dei saccheggiatori che vengono colti in flagrante, legati ai pali, filmati e i cui video vengono pubblicati su Internet”.  Denisenko ha dichiarato: “Non credo che legare e mettere alla gogna un predone sia considerato selvaggio in tempo di guerra. Purtroppo le forze di polizia non bastano. La polizia non può arrivare sempre in tempo”. Secondo il consigliere del ministro degli Interni dell’Ucraina, il saccheggiatore dovrebbe capire che “otterrà ciò che merita”. “Prima sarà legato a un palo, poi sarà imprigionato per 15 anni. Tali azioni hanno un effetto maggiore sui saccheggiatori rispetto alla minaccia di una punizione penale. La punizione ‘qui e ora’ è un sistema preventivo che funziona”, ha detto ai giornalisti.  Sul tema era intervenuto anche l’ambasciatore ucraino a Londra, Vadim Pristaiko, in un’intervista al Times agli inizi di marzo. Come riporta il quotidiano inglese “i saccheggiatori nelle città ucraine saranno fucilati sul posto per il timore che la Russia utilizzerà tattiche d’assedio e innescare rivolte e far morire di fame il paese”. La paura del governo di Kiev è che i cosiddetti saccheggiatori siano in realtà sabotatori russi infiltrati in Ucraina già prima dell’inizio dell’invasione per mettere in ginocchio la popolazione e l’approvvigionamento di beni di prima necessità”.

 

Quindi questi bambini legati ai pali e fucilati sul posto sarebbero “rom o saccheggiatori di beni di prima necessità”?

 

Anche se questa versione fosse corretta, stiamo parlando di bambini e ragazze che hanno fame o che sono perseguitati per ragioni etniche.

 

Non vi fa orrore? Lo capite cosa avete applaudito ieri in Parlamento?

 

E se questi ragazzini invece di rubare un tozzo di pane stessero tentando di scappare dal sequestro delle truppe neonaziste per farne scudi umani?

da qui

 

 

 

L’ AMERICA HA TUTTO DA GUADAGNARCI L’EUROPA HA TUTTO DA PERDERCI – Tommaso Di Francesco

 

«Putin è un macellaio…non può stare al potere». La frase che Biden ha detto, subito divisiva tra Europa e Stati Uniti, è perfino condivisibile ma allo stesso tempo assolutamente inaccettabile.

È condivisibile perché chi bombarda in modo «chirurgico» le città sa di colpire indiscriminatamente i civili, seminando terrore utile ai fini della guerra.

Uccidere anche un solo bambino che altro è se non opera di un macellaio? E purtroppo, secondo l’Onu, i bambini ucraini uccisi finora sono più di 140. Ed è probabile che sicuramente il popolo russo non sia proprio contento del suo presidente che ha scelto la guerra come soluzione della crisi ucraina a costo della vita di civili ucraini, ragazzi russi mandati al fronte a morire e di milioni di profughi.

Dov’è allora l’inaccettabile? Nel fatto che a pronunciare questa accusa sia un presidente degli Stati Uniti che nella sua vita politica ha votato a favore di ogni guerra americana bipartisan, di destra e di sinistra, diretta o indiretta, che ha disseminato di mattatoi l’intero Medio Oriente.

Dove le vittime civili sono state centinaia di migliaia, da stragi sotto bombardamenti aerei o da massacri per sanzioni micidiali. Parliamo delle tre guerre contro l’Iraq, dell’Afghanistan occupato per 20 anni, della Palestina, della Siria, della Libia, dello Yemen in corso. Un universo di centinaia di migliaia di morti, sempre secondo fonte Onu.

Crimini impuniti. Che conosciamo – così come sappiamo la verità sui crimini in Cecenia grazie al sacrificio di Anna Politkovskaja e a Novaja Gazeta che ieri ha chiuso per le imposizioni della censura russa – solo grazie al lavoro di controinformazione di WikiLeaks, il cui protagonista, Julian Assange non a caso sta in galera pronto ad essere consegnato alla giustizia Usa, la stessa che nega validità alle Corti penali internazionali.

Chi dunque dice macellaio a chi?

MA L’IMPROPRIETÀ dell’accusa vale, forse di più, anche per la seconda parte della frase di Biden. Il segretario di Stato Blinken si è affrettato a dire che no «gli Stati uniti non hanno alcuna strategia di cambio di regime per la Russia», il cancelliere Scholz afferma che «Biden non ha detto» quello che invece tutti hanno sentito, ma più forte contro le parole di Biden si schiera Macron perché «io parlo con Putin», vale a dire tenta una trattativa, e perfino quelle di Erdogan, il Sultano atlantico: «Se bruciamo tutti i ponti come faremo a trattare?».

In contropiede Draghi che solo poche ore prima, ringraziando il papa che ha chiamato «pazzi» i leader europei che aumentano le spese militari, dichiarava: «Io cerco la pace, io parlerò con Putin».

ECCO IL PUNTO, dalla dichiarazione di Biden emergono due scelte occidentali contrapposte: con il macellaio non si tratta, avanti fino all’abbattimento di Putin, con Putin si deve trattare per fermare la guerra nel cuore d’Europa.

Nessuno s’illuda. Biden non si è sbagliato, non trova le parole per dirlo, ma ha rivelato quello che pensa e vuole fare l’Amministrazione americana: trasformare l’occasione ucraina come resa dei conti con il nemico russo.

Anche come avvertimento all’indecisa Cina. La guerra quindi non solo non deve fermarsi ma approfondirsi.

FINALMENTE ABBIAMO capito il motivo di tanta ilarità, delle sue risate, degli ammiccamenti sganasciati, dell’allegria di Biden, prima tra i leader UE e poi tra i militari americani nella base polacca. Dagli a ridere… Perché? Perché l’invasione russa dell’Ucraina è considerata in ambiente atlantico la più grande vittoria della Nato – dopo tante sconfitte – dalla Siria, alla Libia, a Kabul – dalla guerra «umanitaria» vittoriosa del 1999 contro la piccola Jugoslavia di Milosevic.

E ora il problema è fare con Putin quello che venne fatto con Milosevic che, è bene ricordarlo, cadde un anno e mezzo dopo la fine della guerra ma per iniziativa violenta di nazionalisti ben peggiori di lui.

I russi dovrebbero autodeterminarsi, ma siamo all’etero-determinazione americana dei popoli che tra l’altro scatena la repressione di Putin: torna l’esportazione della democrazia.

ALTRO CHE TRATTATIVA di pace, altro che bandire la guerra dalla storia come chiede inascoltato il papa. L’importante è dissimulare – è l’arte della guerra – le decisioni e alimentare il più possibile il conflitto armato aspettando dunque la «rivolta russa»? È a questa sceneggiatura alla quale dovremmo partecipare come comparse con l’invio di armi e l’aumento di un terzo delle spese militari?

Fatto sconcertante, questo progetto USA dovrà ricadere sulle spalle europee e nello spazio strategico dell’Europa. Un Afghanistan allargato, devastante per ogni progetto futuro, ormai residuale, di un’Unione Europea (altro che Next generation EU e lotta alla pandemia) ricompattata in armi intorno all’asse transatlantico.

CHI VUOLE L’INVIO di armi all’Ucraina – piena da anni di depositi di armi e di addestratori Nato, come confessa il segretario Stoltenberg – ha chiaro che a dire «No» sono proprio gli Stati Uniti? Che infatti non consegnano le armi vere, quelle decisive, a gran voce richieste da Zelenski che accusa l’Occidente di mancanza di coraggio: gli aerei e i carri armati, la no-fly zone rivisitata alla polacca con il governo di Varsavia che insiste per l ’invio di aerei e per il «peace keeping» ma della Nato. Attenzione, perché ognuna di queste scellerate proposte sarà tentata. Vale a dire la terza guerra mondiale tutta intera, non a pezzi: perché Putin con l’atomica non è Milosevic.

O PRENDONO IL SOPRAVVENTO le logiche del negoziato, a salvaguardia dell’Ucraina ma anche dell’Europa messa a repentaglio dall’avventura dell’aggressione all’Ucraina della Russia ma anche dal disegno sotteso finora ma ormai evidente, degli Stati Uniti; oppure siamo coinvolti e in guerra.

I LEADER EUROPEI DEVONO spiegare ai propri governati com’è che la promessa di tenere fuori dalla guerra il Vecchio Continente è naufragata e quanto è stata grave la responsabilità di avere delegato la sicurezza e la politica estera dell’Unione all’Alleanza atlantica che pure secondo gli strateghi della sicurezza Usa, come Kissinger e Kennan, non doveva assolutamente allargarsi a Est, né tantomeno coinvolgersi in Ucraina. Non salvaguardando così gli accordi di Minsk con l‘indipendenza ma anche la neutralità di Kiev, che gira e rigira, tornano alla fine come contenuti realistici di ogni mediazione. Non a caso garantito solo dal “tappo” di Angela Merkel: dopo di lei il diluvio. Perché dal disastro di quegli accordi è scaturita una guerra civile durata dal 2014 e ora la ferocia di questa nuova scellerata guerra d’aggressione decisa da Putin.

Non c’è alcuna equidistanza nel denunciare questo clima di piombo e morte che ci sovrasta. E se c’è è chiaro che c’è un aggressore e un aggredito, non siamo né-né. Ma contro-contro. Contro entrambe le volontà di distruzione.

Noi rifiutiamo questa guerra. Che va fermata con attori che recitino la loro parte autorevole, autonoma e indipendente, non quella altrui.

(dal “Manifesto” del 29 marzo 2022)

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Ha ragione Biden – Enrico Galavotti

 

In effetti ha ragione Biden nel suo discorso di Varsavia: questa è una guerra tra il bene e il male. Solo che lo è a parti rovesciate. Cioè anche se Putin non è il bene assoluto, di sicuro Biden sta facendo male all’intero pianeta. È lui il folle criminale di guerra su scala internazionale, che considera le alleanze militari più importanti degli stessi alleati (per es. la NATO molto più importante della UE). È lui, con l’occidente che gli va dietro come una pecora, ad appoggiare in tutte le maniere un governo filonazista come quello di Kiev, un governo che svolge solo il ruolo di grimaldello per scardinare il più potente impero energetico della storia umana.

Biden ha dimostrato soltanto di essere un grandissimo ladro, un truffatore che vuole imporre a tutto il mondo l’uso del dollaro, poiché è solo in questa maniera che può tenere in piedi un Paese col più alto debito pubblico del mondo, in procinto di andare in default. E oggi senza l’uso delle armi, il dollaro sarebbe già crollato, poiché gli USA non sono più la locomotiva del capitalismo mondiale.

Putin non è “un dittatore che cerca di ricostruire un impero”, poiché l’impero ce l’ha già e dell’Ucraina non gli sarebbe importato nulla se non avesse massacrato tantissimi filorussi nel Donbass in nome del nazionalismo filonazista e non avesse permesso di farsi occupare dagli americani, che non vedono l’ora di puntare i loro missili nucleari sulle principali città russe.

Piuttosto è Biden che cerca di ricostruire un impero che sul piano produttivo è già stato scalzato dalla Cina, e che ora ha perso l’appoggio anche del mondo islamico del Medio Oriente, e che trova due continenti, asiatico e africano, ostili alle sanzioni economiche contro la Russia. Gli USA possono contare soltanto sull’appoggio del mondo anglosassone (Europa, Canada e Oceania), oltre al Giappone, che ha il terrore di ciò che la Cina gli può fare, vendicandosi di tutte le orribili cose che ha subìto nel passato: tutto il resto gli è contro e costituisce una larga maggioranza.

Gli USA sono diventati il cancro dell’umanità, che tutto il Sudamerica conosce da almeno due secoli. Un’operazione speciale di pulizia etica (e militare, se necessario) andrebbe fatta contro un governo che minaccia le sorti dell’intera umanità. Dovrebbero farla gli stessi americani, se ne fossero capaci.

Ha ragione Biden: dobbiamo prepararci “a una lunga battaglia per la libertà”. Il resto del mondo deve far proprie le parole di Giovanni Paolo II che Biden stesso ha usato per rivolgerle contro la Russia: “Non abbiate paura”. Soprattutto non bisogna aver paura dell’art. 5 dello Statuto della NATO, che nega a questa alleanza la sua natura difensiva, in quanto obbliga tutti gli aderenti a entrare in guerra a prescindere dalla loro volontà.

Biden ha già dichiarato guerra alla Russia, e l’ha fatto con l’appoggio dell’occidente. Non vuole nessuna pace, nessuna risoluzione del conflitto ucraino: vuole solo vincere la “sua” guerra, come ogni presidente americano è costretto per tradizione a fare.

E quando afferma che “non è il popolo russo il nostro nemico”, è solo un grandissimo ipocrita, poiché tutte le sue sanzioni economiche colpiscono proprio il popolo russo. Questo è un popolo che si deve svegliare, deve smetterla di scimmiottare lo stile di vita europeo, che, come i fatti han dimostrato, non ha da insegnare più niente a nessuno.

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‘buoni e cattivi’ show – Enrico Euli

 

Allora i tuoi sogni non saranno più così tranquilli. Tu vedrai nelle tue notti il capitale, come un incubo,che ti preme e minaccia di schiacciarti. Con occhio spaventato lo vedrai ingrossarsi, come un mostro dalle cento proboscidi, che avidamente ricercano i pori del tuo corpo per succhiarne il sangue. E finalmente lo vedrai assumere proporzioni smisuratamente gigantesche, nero e terribile nell’aspetto, con occhi e bocca di fuoco, trasmutare le sue proboscidi in larghissime trombe aspiranti, entro le quali vedrai scomparire migliaia di esseri umani: uomini, donne, fanciulli. Dalla tua fronte colerà allora il sudore della morte, perché la volta tua, della tua moglie e dei tuoi figli starà per arrivare. Ed il tuo ultimo gemito sarà coperto dallo sghignazzare allegro del mostro, felice del suo stato, tanto più prospero, tanto più inumano…(Carlo Cafiero).

 

A chi blatera di ‘regressione della civiltà’, si augura che questa ‘follia’ finisca e trae fariseicamente buoni auspici dalle finte trattative sempre in corso e mai in corso (e che si svolgono a solo vantaggio dei sedicenti mediatori) vorrei ricordare che le civilizzazioni sono sempre state fondate sulla violenza e sulla guerra; e che la guerra non è una follia, ma è una strategia razionalmente perseguita e preparata nel tempo.

Non stiamo retrocedendo, stiamo avanzando: nel senso che abbiamo sempre seguito e secondo le premesse profonde che proseguiamo ad esaltare ed imporre ai popoli.

Se le ‘libere democrazie’ non volessero più giungere al punto a cui siamo, e volessero differenziarsi davvero dalle autocrazie, basterebbe una semplice mossa: abolire unilateralmente la guerra e gli eserciti, le industrie d’armi e il loro smercio.

Questo sarebbe l’unico contributo alla storia e alla pace che potrebbero dare oggi.

Ed invece, per difendersi dalle autocrazie e per difendere la libertà e la democrazia, scelgono ancora una volta la guerra ed il riarmo.

E così dimostrano che non imparano dalla storia, che non sono diverse e che non sono né libere, né democratiche.

In quella che chiamavano libertà e pace (l’ordine mondiale nato dalla fine della guerra fredda) gli Stati Uniti e la Russia stanno perdendo la guerra contro la Cina e -irreversibilmente-declinando. L’Europa unita, politicamente, non è mai esistita e continua a non esistere.

Ora Stati Uniti e Russia si fanno la guerra per tentare di vincere la prossima pace (o nuovo ordine mondiale).

Chi vincerà questa guerra e resterà superstite potrà confrontarsi, o almeno così credono- ma a spese di quasi tutti noi- contro il potente mostro cinese.

Possiamo essere certi che gli Stati Uniti non accetteranno di perdere la guerra e di perdere la faccia.

In caso di sconfitta la loro logica è da sempre quella del ‘muoia Sansone con tutti i filistei’.

E noi -i filistei- in mezzo, a far solo da companatico per il loro gustosissimo panino.

 

Cercare di combattere la violenza colla violenza è voler spegnere il fuoco col fuoco, è inondare un paese per abbassare il livello del fiume che straripa, è scavare un buco per avere terra da colmare un altro…(Lev Tolstoj).

Se la Russia, o chiunque altro non fosse alleato degli Stati Uniti, avesse fatto la metà di quel che gli USA e la Gran Bretagna hanno combinato nel mondo e in Ucraina negli ultimi vent’anni, la Nato avrebbe già usato da tempo le armi contro di lei.

La linea rossa della belligeranza attiva è già stata ampiamente superata dall’Occidente in armi, ma la Russia -per ora- non sta attaccando la Nato.

Mentre è evidente che la Nato sta già attaccando una Russia che avrebbe già da settimane sconfitto militarmente l’Ucraina se non stesse già combattendo di fatto contro la Nato intera.

State certi che, se scoppierà un conflitto nucleare, riusciremo ancora una volta a dimostrare che stiamo reagendo e che non saremo stati noi ad aggredire.

Sarà una magra consolazione per i superstiti, se ci saranno, di entrambe le parti.

Ma ancor prima che questo avvenga dobbiamo considerare i rischi già in corso, i boomerang che già si abbattono su noi tutti:

  1. Più la Russia trova difficoltà a marciare su terra, più resistenza armata troverà, più tempo passa e più sale l’escalation nelle tipologie di armamenti utilizzate;
  2. Maggiore è la resistenza e maggiori sono odio e brutalizzazione verso la cittadinanza sia a distanza sia quando la guerra entra nei luoghi abitati; per difendere la capitale si è scelto di far devastare il suo hinterland e di abbandonare a se stesse le città dell’est e del sud;
  3. Più distruzione viene prodotta e maggiore è la disperazione ed il numero dei profughi, la consistenza dell’esodo. La ‘macchina dell’accoglienza’ si trasformerà a breve in una ‘macchina da guerra’ in mano degli stati, ma anche di sciacalli senza scrupoli;
  4. Distribuire armi a vanvera, non solo agli eserciti regolari, ma anche ai semplici cittadini e ai miliziani irregolari e mercenari, determina una situazione fuori controllo, anche da parte dei governi, ora ma soprattutto nel prossimo futuro. (pensate a quel che sta accadendo in Libia, in Iraq o andate a vedere il film Flee, per capire come questo sia già avvenuto con i talebani in Afghanistan).

Questi fattori distruggeranno la nazione ucraina e la renderanno un inabitabile deserto, straziato da scontri permanenti tra fazioni armate, diviso tra potenze straniere che se la contendono, sfruttata e colonizzata nelle sue risorse, formalmente esistente ma di fatto impotente e suddita.

Libanizzazione, balcanizzazione, coreizzazione: esattamente l’opposto di quel che diciamo di volere. Questa sarà la vittoria di Putin e/o di Biden, qualunque sia la conclusione di questa guerra (che comunque non potrà finire lì).

 

É caduto un bottone

dalla giacca gonfia di un politico.

Ma i bottoni ancor son tanti,

come il suo cibo. (Cristian A. Grosso)

Ma, dopo i cattivi, parliamo dei buoni.

In primo luogo, l’amatissimo eroe Zelensky.

Sembrano passati secoli quando era solo un comico che suonava il piano con il suo virilissimo membro, a mani alzate.

Ora non le alza più, combatte e sferra discorsi e colpi sotto la cintura a chiunque non gli dia retta.

Ora è certamente un buon attore, con ottimi sceneggiatori.

Peccato che non l’abbiano invitato alla cerimonia degli Oscar.

Risulta perfetto nella competizione narrativa in corso: appare vincente rispetto ai russi, almeno nei nostri media e nelle nostre menti.

Ma cos’ha di buono nella realtà (e non ad Hollywood)?

Ha fatto di tutto per non giungere ad un Ucraina pluralista ed interculturale, tradendo gli accordi di Minsk.

Ha fatto alleanza con forze neonaziste ed ha sciolto tutti i partiti comunisti e filorussi.

Sta facendo massacrare la sua popolazione, in nome della nazione e dello stato.

Però è fotogenico.

 

In secondo luogo, parliamo di chi assiste ed accoglie in Europa (governi, volontari, Ong).

Ci troviamo di fronte alla più grande mobilitazione umanitaria di tutti i tempi, direi.

Che non ha precedenti, visto che sino ad ora siamo andati avanti a respingimenti ed accoglienze mal gestite e forzate.

Tutto davvero commovente, ma…

Come mai siamo diventati improvvisamente tutti così buoni?

Non lasciamoci confondere: al di là delle buone intenzioni di molti volontari e dei benefici effetti nell’emergenza immediata, ritorneremo cattivi a breve.

Come sempre, gli stati utilizzeranno i profughi come arma politica per le loro convenienze interne ed internazionali: merce di scambio, strumenti di ricatto, forza di pressione.

Le organizzazioni umanitarie e di accoglienza si accontenteranno di godere dei frutti del loro opportunismo parassitario, senza fare nulla per evitare il male a monte.

Le popolazioni ospitanti non tarderanno a lungo prima di iniziare l’ennesima guerra tra poveri, quando capiranno quanto guerra e riarmo impoveriranno anche coloro che si illudono ancora di essere al sicuro e di poter accogliere altri più sfigati di loro.

Chi non lavora per abolire la guerra e l’ingiustizia lavora per il mantenimento della guerra e dell’ingiustizia.

Chi non lavora per riconoscere la catastrofe e continua a non nominarla se non per dire che siamo sempre solo sull’orlo, vuole la catastrofe.

Chi non ostacola il sorgere di sempre nuove emergenze, trae profitto, approfitta dell’emergenza.

Tolleranza, integrazione, umanitarismo, solidarietà: sono solo belle parole che nascondono il male.

Ce lo ricorderemo, quando le bombe non saranno più (soltanto) alla tv.

PS: Le citazioni sono tratte da ‘Le vene, l’anima, il sangue, l’anarchia’ del giovanissimo algherese Cristian Augusto Grosso (Catartica, 2020)

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Usb. Sciopero 31 marzo porto di Genova. No alle navi della morte e al traffico di armi – Coordinamento nazionale Porti USB

 

Verso la mobilitazione generale operaia del 22 aprile a Roma, il Coordinamento nazionale lavoratori portuali USB lancia una giornata di lotta per il 31 marzo a Genova: sciopero di 24 ore nel porto di Genova, dalle ore 6 presidio presso il Ponte Etiopia, alle 10:30 assemblea operaia presso il CAP di Via Albertazzi.

Il prezzo del conflitto lo pagheranno i lavoratori con licenziamenti e carovita. Non un centesimo, un fucile o un soldato per la guerra. Blocchiamo i nostri porti al traffico di armi. È l’ora della variante operaia. Come lavoratori portuali non abbiano nessuna intenzione di restare indifferenti di fronte ai nuovi venti di guerra che tornano a soffiare in Europa.

Questo conflitto, che ha una genesi che va ben oltre la ricostruzione di comodo dei nostri media nazionali e dei nostri politici, come ogni guerra nella storia, avrà delle pesanti conseguenze per tutti i noi. A pagarne le spese saranno proprio i lavoratori e le lavoratrici. In Ucraina e Russia ovviamente, ma anche nei paesi europei, attraverso l’aumento del costo dei beni energetici come gas e petrolio e delle spese militari. Tutto ciò porterà a contraccolpi devastanti per il nostro Paese. I licenziamenti di massa e le ristrutturazioni, che non si sono mai fermate, andranno avanti senza sosta. Milioni di lavoratori, già in difficoltà a seguito della crisi pandemica, si ritroveranno con aziende chiuse e stipendi più bassi. Con l’aumento del carovita e nessun adeguamento salariale complessivo a partire dai minimi tabellari, il potere di acquisto sarà ridotto drasticamente. Il prezzo della benzina che ha raggiunto cifre record (2,50€ per litro) e non accenna a fermarsi, inciderà anche sulla mobilità dei lavoratori e sul costo dei prodotti finali, a partire anche da quelli alimentari.

Tutto ciò mentre il nostro Governo, utile servo della Nato e degli interessi americani, cerca di trascinarci ancora di più nel conflitto con l’invio di risorse economiche e l’adozione di sanzioni. Politiche che alimentano solo il conflitto. Perché è nostra convinzione che l’economia di guerra e i traffici d’armi che questa determina sono una delle principali cause dei conflitti e della loro deflagrazione quando le classi dirigenti li alimentano, operando in palese spregio delle leggi nazionali secondo cui l’Italia ripudia la guerra e si astiene da ogni fornitura e supporto militare alle parti belligeranti.

Quello che dovrebbe essere un punto fermo della vita politica e civile del nostro Paese, da decenni ormai è stato completamente messo in soffitta in ossequio a interessi industriali e geopolitici del tutto estranei ai lavoratori.

Il tema della guerra e quello del lavoro sono strettamente collegati. Tenerli separati sarebbe un errore, soprattutto per noi lavoratori portuali che lavoriamo a stretto contatto con le merci e non vogliamo essere complici della guerra movimentando armamenti di qualsiasi tipo e qualsiasi destinazione nei nostri scali.

Per questi motivi il coordinamento nazionale dei portuali USB ha deciso di lanciare una giornata di mobilitazione a Genova in occasione dell’arrivo nel porto della nave saudita Bahri carica di armamenti statunitensi.

In queste settimane i nostri lavoratori hanno effettuato un lavoro di monitoraggio negli scali in cui siamo presenti, denunciando qualsiasi movimento di armamenti, da Genova a Livorno, passando per Trieste e Civitavecchia. All’aeroporto di Pisa i lavoratori USB si sono già rifiutati di caricare armamenti su un aereo civile che, sulla carta, avrebbe dovuto trasportare aiuti umanitari.

Abbiamo deciso di convergere su Genova il 31 marzo promuovendo anche un’assemblea nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici impegnati su questi fronti. Un momento importante di lotta e confronto che servirà anche per confermare la nostra adesione alla mobilitazione del 22 aprile a Roma quando i lavoratori dell’industria, del commercio, della logistica, del trasporto e dei porti scenderanno in sciopero e porteranno direttamente di fronte ai palazzi del potere, la loro rabbia e la loro determinazione.

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Mariupol, la foto della donna torturata con una svastica sul ventre – Maurizio Vezzosi*

 

Nel sotterraneo di una scuola di Mariupol utilizzata fino a pochi giorni fa come base dal battaglione Azov ho fotografato insieme ad un collega il corpo esanime di una donna – la cui identità è per il momento ignota – a cui sono state inflitte numerose torture. Sul ventre della donna – tra i trenta e quaranta anni – c’è una svastica realizzata tramite numerose ferite da taglio ed evidenti ustioni.

 

Sul basso costato della donna si nota un ematoma da compressione con la forma di uno scarpone: il particolare suggerisce che le torture siano state inflitte mentre la donna era viva e che i torturatori fossero almeno due. Le braccia della donna sono state legate dietro la sua schiena con del nastro isolante: il particolare non è visibile in questa foto, ma osservabile dal fianco sinistro della donna. Il sacco di plastica ed il nastro isolante sul collo della donna suggeriscono che sia stata uccisa per soffocamento.

 

 

Nota: La descrizione che ho riportato sintetizza le mie impressioni e quelle del mio collega su quanto è stato possibile osservare sul posto, impressioni sottoposte al giudizio di esperti di medicina legale che ne hanno visionato il materiale fotografico. Ho evitato di specificare di quale scuola si tratti per ragioni di sicurezza ed ho voluto intenzionalmente sfocare una parte della foto. Ho evitato, fino ad oggi, di mostrare immagini particolarmente cruente e di soffermarmi in descrizioni di questo tipo, nonostante il contesto. Ritengo superfluo esplicitare i motivi di questa eccezione. Al momento non ho a disposizione altre informazioni sulla vicenda.

 

*Post Facebook del 31 marzo 2022

 

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Essere Rom vuol dire di solito essere discriminati, disprezzati senza motivo, perseguitati,   non raramente malmenati. Solo perché si è Rom. E’ il pregiudizio antizigano.. Non importa  che la musica zigana abbia fortemente improntato la musica colta europea, come testimoniano Franz Liszt, Antonìn  Dvo­ràk, Béla Bartòk;non importa che una raccolta di splendide poesie Garcia Lorca l’abbia intitolata Canti Zigani; non importa  che fra i Rom vi siano artisti, intellettuali e poeti, artigiani provetti. Sei Rom: sei sporco, brutto e cattivo.

Figurarsi in guerra. Figurarsi i Rom in zone di guerra. Figurarsi i Rom in Ucraina di questi giorni.

Ce ne ha parlato Dijana Pavlovic, intellettuale, attrice, attivista della causa Rom e Sinti, presidente di KETHANE (Insieme) un’associazione di Rom e Sinti che si batte per i diritti di queste minoranze linguistiche.

Ce ne ha parlato raccontandoci quel che sta accadendo a Rom e Sinti in Ucraina in questi giorni partendo dal caso concreto e reale di una famiglia e chiedendoci quindi di sostenere gli sforzi della sua associazione per raccogliere i fondi necessari a portare anche Rom e Sinti fuori dall’inferno dell’Ucraina. Lo facciamo convintamente, allegando  il testo che ci ha inviato. Confidiamo che sarete generosi come lo siete tante volte stati e state con le nostre raccolte.

Se vogliamo la PACE dobbiamo diffondere solidarietà ed amicizia. Date dunque  un contributo per la Pace.

Cittadinanza e Minoranze.

 

LE   DONAZIONI VANNO INVIATE PER BONIFICO BANCARIO A

KETHANE ITALIA APS

IBAN: IT77J0306909606100000184873

 

 

Ciao

ti chiediamo aiuto per la famiglia di Rubinta, una famiglia allargata  rom di Kharkiv . Sono  più nuclei familiari con 10 bambini. Ci hanno contattato una settimana fa. Kharkiv era sotto le bombe da giorni e loro erano in una cantina, terrorizzati. Non mangiavano da 2 giorni. Ci hanno detto che non vogliono separarsi dagli uomini a costo della vita. Anche perché alcuni sono anziani e alcuni malati. Già il primo giorno della guerra a tutti gli uomini erano stati tolti i passaporti e i documenti in modo che non potessero uscire dal Paese. Solo al papà di Rubinta è stato lasciato il passaporto perché anziano.

Ci hanno raccontato che, anche se per legge gli uomini con 4 e più figli potrebbero uscire e non  sottostare alla legge dell’arruolamento, come  succede a tutte le famiglie non rom che hanno più di 4 figli. Per farsi portare fuori dal  dal Paese bisogna pagare, 500 euro a uomo e in questa famiglia ce ne sono 4, e 200 euro a persona per donne e bambini

Dopo esserci assicurati che erano consapevoli dei molteplici rischi che correvano mettendosi in viaggio  in viaggio, abbiamo mandato loro via Western Union i fondi raccolti da Kethane con la nostra campagna.

La famiglia di Rubinta dopo qualche giorno è arrivata a Leopoli e da lì alla frontiera con la Polonia. Solo che lì il prezzo è aumentato: 1500 euro a uomo.

Due famiglie con due uomini hanno pagato con i soldi che avevano e hanno attraversato il confine.

Invece, l’altra parte della famiglia, Rubinta con il  marito e 6 bambini, sua sorella e il marito con  i loro 4 figli sono ancora alla frontiera. Ci hanno raccontato che non possono avere cibo e aiuti umanitari perché sono rom, che il figlio più grande di 16 anni mentre beveva un bicchiere di tè un soldato si è avvicinato, gli ha tolto il bicchiere e lo ha picchiato. Rubinta ha registrato la scena con il suo telefono e i soldati le hanno spaccato il telefono. I bambini piccoli sono raffreddati e con la febbre perché dormono alla stazione ferroviaria è fa molto freddo. Si son rivolti alla   Croce Rossa per chiedere aiuto e cibo senza risultato.  La notte scorsa sono andati a dormire alla stazione di autobus a Leopoli perché non si sentivano al sicura a dormire alla stazione ferroviaria alla frontiera. Li, Rubinta e suo padre sono stati avvicinati dalla polizia che ha chiesto perché gli uomini non stavano combattendo. C’è stato un battibecco e la polizia ha arrestato il padre di Rubinta. Nella caserma gli hanno minacciato di togliergli il passaporto  ma alla fine lo hanno rilasciato.

Ci hanno chiesto aiuto. Altri soldi per attraversare il confine e mettersi al sicuro.  Tornare indietro vuol dire rischiare la vita.

Ti chiediamo di aiutarci con quello che puoi per salvare questi 10 bambini con i loro genitori e il nonno.

Dijana Pavlovic

LE   DONAZIONI VANNO INVIATE PER BONIFICO BANCARIO A

KETHANE ITALIA APS

IBAN: IT77J0306909606100000184873

 

 

 

Polonia. «Rifiutati e aggrediti» i profughi rom in fuga dall’Ucraina

 

La denuncia è stata lanciata dal giornalista Paolo Lambruschi sul quotidiano Avvenire e ripresa dall’associazione Carta di Roma

 

Una denuncia e un appello sono stati riportati dal sito della Carta di Roma, l’Associazione nata per dare attuazione al protocollo deontologico giornalistico per una corretta informazione in tema di migrazioni che vede la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) tra i soci fondatori e nel direttivo.

La denuncia è stata lanciata dal giornalista Paolo Lambruschi sul quotidiano Avvenire ed è stata raccolta dall’Associazione che chiede una corretta informazione in tema di rifugiati e richiedenti asilo.

Lambruschi, dunque, racconta una tragedia nella tragedia: quella dei profughi rom ucraini, discriminati in Polonia. Una denuncia che arriva dagli attivisti umanitari.

«Qui i rom faticano ad essere accolti», affermano.  Privi di documenti, «sono costretti – scrive il giornalista di Avvenire – ad accamparsi e vengono presi di mira da bande neonaziste».

I profughi rom ucraini sono dunque discriminati in Polonia perché «Faticano a essere accolti, più spesso non riescono a uscire dai centri perché nessuno li vuole. In ogni caso è meglio che tacciano la propria origine e non rivelino dove si trovano per evitare aggressioni.

«Il nostro Paese – spiega Ela Mirga, artista polacca – sta offrendo una grande prova di generosità in questa tragedia accogliendo oltre due milioni di profughi. Ogni giorno ai valichi di confine arrivano circa 100 profughi ucraini rom ed è un problema. In Ucraina prima dell’invasione russa ne vivevano circa 400mila. Molti sono privi di documenti e spesso non sanno dove andare: sono stati costretti ad accamparsi e presi di mira da bande neonaziste nei giorni scorsi. Ma il problema è che molti sono bloccati dentro i centri».

Prova a chiarire la situazione Joanna TalewiczKwiatkowska, antropologa culturale polacca, docente all’istituto di studi interculturali all’università Jagellona di Cracovia e collaboratrice del museo di Auschwitz.

Attivista di diverse organizzazioni polacche per i diritti civili che tutelano i rom ed essa stessa membro della comunità, dallo scoppio della guerra gira per Varsavia, Cracovia e altri centri minori dove sono arrivati molti profughi ucraini rom. Che attualmente, pur nella difficoltà di tenere una contabilità, sono circa duemila. «La situazione era già tesa in Ucraina – ricorda al giornalista Lambruschi – infatti nel 2018 ci sono stati pogrom e omicidi. Queste tensioni si sono spostate oltre confine quando è iniziata la guerra. In molti Paesi dell’Europa orientale i rom sono vittime di aggressioni a causa di stereotipi razziali, di xenofobia e odio in rete. Nei centri di accoglienza polacchi, quando gli altri ospiti li vedono, le tensioni scattano immediatamente. Le accuse sono le solite, il più delle volte senza prove: rubano, rivendono all’esterno gli aiuti, ne ricevono troppi. Dove sono? Per ragioni di sicurezza non posso dirlo perché rischiano di venire aggrediti. Stanno in luoghi riconvertiti all’accoglienza come teatri, scuole, musei».

Quanto alle accuse, la ricercatrice smentisce seccamente. «Non è vero che ricevano troppi aiuti perché stanno arrivando famiglie numerose con persone anziane e malate. Il problema principale spesso è la mancanza di documenti, ma come per molti altri profughi. Nei primi giorni del conflitto è arrivata la prima ondata di ucraini benestanti con documenti e con mezzi propri. Questo è successo anche per i rom, non siamo diversi dagli altri. E nessuno infatti se n’è accorto. Poi sono arrivate le persone più povere o quelle che sono state giorno sotto le bombe negli scantinati con i bambini a Kiev o a Kharkiv e poi sono fuggite in treno. Alcune di queste persone sono anche rom, anche loro hanno sofferto le conseguenze della guerra e sono fuggite senza documenti o senza soldi. Oppure appartengono alle classi sociali più vulnerabili. E sono cominciate le discriminazioni. Sono tutti ladri? Alcuni lo sono. Ma tra i profughi ci sono anche i delinquenti e i mafiosi ucraini e nessuno dice nulla».

Oltre alle tensioni interne ai centri, la docente rileva difficoltà nel farli accogliere. «Ci sono stati diversi casi. Sono dovuta intervenire con le autorità per far entrare in un centro di Varsavia un’anziana malata di Parkinson, e una famiglia con dodici bambini e due sole donne che le accompagnavano mentre i mariti erano rimasti in Ucraina. Erano accampati. E poi molti non riescono a uscire dai centri di accoglienza perché per loro non c’è posto. La Polonia sta facendo qualcosa di straordinario nell’accoglienza dei profughi ucraini. Ma i rom non li vuole nessuno e sono costretti a restare nei centri».

Cosa chiede?  «Lancio due appelli. Il primo è alle comunità rom dei Paesi dell’Unione Europea. Aiutiamoci. Finora abbiamo organizzato trasferimenti in autobus solo verso Svezia e Germania. Il secondo è alle autorità polacche perché lancino una campagna contro l’antitziganismo, il razzismo, la xenofobia e le parole di odio. In questo clima ho paura anche per me e per la mia famiglia».

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Lettera al Presidente del Consiglio Mario Draghi da OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR

 

Promosso da: Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Si’, NOstra

 

Al Presidente del Consiglio Mario Draghi

Egregio Presidente,

siamo d’accordo con Lei quando in Parlamento e in altre sedi pubbliche  ha enunciato l’esigenza non solo di affrontare le emergenze, a partire dall’approvvigionamento del gas, a fronte dell’invasione russa in Ucraina e alle misure di pressione per costringere uno storico fornitore a scegliere la tregua e la pace anziché di proseguire la guerra di aggressione, ma soprattutto di puntare ad accelerare le misure per la transizione ecologica dell’economia  con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi. Sono passati pochi mesi da importanti sedi internazionali che avevano la questione climatica come centro della discussione e oggi siamo precipitati in una situazione pericolosa, che provoca lutti e devastazioni in Ucraina e distorce gravemente l’attenzione dagli obiettivi climatici che dovrebbero riguardare tutti noi, tutti i Paesi della terra, in un grande impegno corale di collaborazione e cooperazione. Esattamente l’opposto della guerra come mezzo di regolazione delle contese.

Per questo ci rivolgiamo a Lei consapevoli che l’Italia deve assolutamente accelerare nella transizione ecologica, utilizzando al meglio le risorse del PNRR.

Se la situazione è cambiata e occorrono decisioni radicali è inevitabile che le scelte del PNRR e la sua realizzazione vengano ripensate riguardo agli aspetti finanziari, alle localizzazioni, a partire dalla priorità del Mezzogiorno, e soprattutto a tempi di attuazione precisi e verificabili. Per questo sono indispensabili drastiche norme di semplificazione, visto che quelle decise sono o non attuate o inadeguate.

Intendiamo richiamare la Sua attenzione sui ritardi, le incertezze, le lacune che rischiano di fare mancare l’obiettivo del cambiamento ecologico dell’economia italiana.

La cabina di regia del PNRR non sembra avere adempiuto al compito di rendere chiare e forti le scelte al paese; e, in particolare, non sembra avere funzionato un rapporto indispensabile con tutte le soggettività istituzionali e sociali, dalle Regioni ai sindacati, per passare al complesso delle associazioni ambientaliste che hanno avanzato proposte precise su cui non ci sono fino ad ora risposte.

È condivisibile l’iniziativa per porre in sede europea le nuove urgenti questioni energetiche che sono davanti a tutti i Paesi europei, sia pure con modalità e forme diverse da Paese a Paese. Se è chiaro l’obiettivo, anche i sacrifici immediati e transitori acquistano un significato diverso, altrimenti si rischiano reazioni negative e il prevalere di timori, paure, inevitabili in una fase di guerra aperta.

La prima proposta che ci sentiamo di avanzare è che il Governo promuova in tempi brevissimi una Conferenza nazionale in cui fare il punto sulla situazione, sulle modifiche degli interventi, ascoltando le proposte e gli obiettivi che vengono avanzati dai soggetti istituzionali e sociali. Queste proposte potrebbero diventare parte di un impegno comune, a partire dal Governo, delle aziende a partecipazione pubblica – che sono tenute a comportamenti ispirati ad una nuova disciplina degli obiettivi comuni –, delle forze sociali (imprese e sindacati), delle associazioni ambientaliste, delle comunità energetiche e di quanti hanno competenze e storia che motivano la validità del loro ascolto.

Un esempio, per intenderci. Si è molto parlato di semplificazioni e superamento di vincoli burocratici, ma finora non si sono fatti veri passi avanti. Anzi, si configura come un serio autogol il blocco delle energie rinnovabili ai livelli di 10 anni fa, mentre restano inevase preziose candidature dei privati ad investire risorse nel settore eolico off shore, in quello terrestre e nel fotovoltaico. Ad esempio, è grave che le lentezze burocratiche e le ordinanze di alcune Sovraintendenze contribuiscano ad un effetto nimby contro le energie rinnovabili, mentre il contrasto alle infiltrazioni mafiose e all’illegalità sono compito degli organi investigativi e della magistratura.

In ogni nuova costruzione o ristrutturazione radicale, a partire da quelle associate al bonus del 110 %, il PNRR deve prevedere l’obbligo del ricorso al fotovoltaico e all’efficienza nell’uso dell’energia, con una priorità su tutto il patrimonio edilizio pubblico.

Proposte come queste possono diventare realtà se i tempi di realizzazione diventano stringenti e l’allaccio alla rete è garantito entro la conclusione dei lavori.

Bisogna uscire dalla contraddizione per cui da un lato si parla di rinnovabili ma in realtà si agisce per il gas, il carbone, o peggio.

Interventi per alleggerire le conseguenze dell’aumento dei prezzi del gas e del petrolio, delle carenze di forniture conseguenti alla guerra sono indispensabili, ma l’obiettivo strategico è il quadro europeo, che ha fissato nel 55% la riduzione entro il 2030 dei gas climalteranti.

Per questo occorrono proposte precise come la riscrittura in tempi rapidi del Piano integrato energia clima (Pniec) giustamente proposta da Greenpeace, Lega Ambiente e WWF.

Il Pniec riscritto deve prevedere un nuovo piano di risparmio energetico che accompagni gli investimenti nelle energie rinnovabili. In passato, sulla scorta di studi Enea il Piano di “efficienza energetica 2010/2020, divenuto indirizzo comune di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil prevedeva il risparmio di 51 Mtep di combustibili fossili, 207 milioni di tonnellate di CO2 in meno, 1.600,000 nuovi posti di lavoro nel decennio. Obiettivi che vanno ripresi ed aggiornati (poco è stato realizzato) anche per il loro eccezionale valore occupazionale.

Il nuovo PNIEC deve indirizzare Amministrazione pubblica, Enti e Istituzioni preposte insieme a tutta le imprese, grandi e PMI, in un percorso rapido di massima elettrificazione nei diversi impieghi – industria, trasporti, usi domestici – con energia elettrica fornita prioritariamente e sempre più da energie rinnovabili (FER).

Ciò implica che il nuovo Piano fissi al 2030 per le fonti rinnovabili l’obiettivo ambizioso di 90 nuovi GW (basta pensare alla Germania che programma 150 nuovi GW in più) all’insegna dell’urgenza di far fronte alla minaccia del cambiamento climatico in una prospettiva di rapida indipendenza dal gas russo e, più in generale, da idrocarburi e fonti fossili. In conformità con la raccomandazione Next Generation EU di realizzare il 40% degli obiettivi energia/clima entro il 2025, il Piano deve valutare gli aspetti industriali, economico-sociali e finanziari perché si possa procedere nel prossimo quadriennio a un ritmo 8/9 GW all’anno di nuovi impianti FER, rispondendo così anche alla richiesta di “Elettricità futura”, che ha chiesto al Governo di autorizzare 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022.

Un tale sforzo produttivo necessita di adeguati finanziamenti per tutto il periodo previsto, procedendo, ad esempio, con detrazioni fiscali di entità uguale a quelle dei superbonus.

Insomma, Signor Presidente, pensiamo che le conseguenze della guerra debbano spingere a trovare provvedimenti ancora più urgenti e tempestivi e la sapienza politico-istituzionale di realizzazioni energetiche fondamentali per il Paese e per la lotta al cambiamento climatico, con il massimo coinvolgimento dei cittadini, come consente la ricchezza delle forme di partecipazione che la nostra democrazia mette a disposizione.

Per l’Osservatorio: Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Gianni Mattioli, JacopoRicci, Massimo Scalia, Gianni Silvestrini

29/3/2022

 

 

 

Azione di pace nonviolenta in Ucraina, 1 aprile 2022

 

Le immagini delle vittime, dei bambini terrorizzati o degli anziani spaesati che ci giungono dall’Ucraina e da tutte le altre zone di guerra spesso dimenticate, dilaniano le nostre coscienze. La guerra è una follia, è il cancro della convivenza tra le nazioni e la negazione dell’umanità.

Nel chiedere che si proclami immediatamente il cessate il fuoco, che si dia spazio alla diplomazia internazionale e alle Nazioni Unite per la risoluzione della controversia e che si consenta subito alle organizzazioni umanitarie internazionali di intervenire, ognuno di noi può fare qualcosa di più e di concreto per fermare questo scempio.

Non c’è più tempo! Da sempre siamo accanto agli ultimi, al fianco delle vittime con azioni umanitarie e iniziative di solidarietà internazionale. Vengono momenti in cui però “la pace attende i suoi artefici” e noi non possiamo disattenderla.

Non vogliamo restare spettatori e sentiamo l’obbligo di esporci in prima persona.

Con i rappresentanti della società civile nonviolenta e pacifista e di altre realtà impegnate nella costruzione della pace, entreremo in territorio ucraino per testimoniare con la nostra presenza sul campo la volontà di pace e per permettere a persone con fragilità, madri sole e soprattutto bambini, di lasciare il loro Paese in guerra e raggiungere l’Italia.

Invitiamo pertanto tutte le organizzazioni impegnate per la costruzione della pace e per la solidarietà internazionale a dare la propria adesione, a prendere parte alla delegazione e a promuovere una serie di azioni di mobilitazione.

Per tutte le informazioni e per sostenere l’iniziativa clicca qui

da qui

 

 

 

 

 

 

Un movimento europeo contro la guerra – Stefano Galieni

 

Un forum, non un’assemblea, come prima tappa per dar vita ad un obiettivo ambizioso, un Movimento contro la guerra che coinvolga l’intera Europa, quella i cui governi hanno deciso senza colpo ferire che, all’invasione criminale di Putin in Ucraina si potesse rispondere in una sola maniera, ovvero inviando armi al governo ucraino. L’incontro che darà il via a questo percorso si tiene domenica 3 aprile a Roma, presso il Centro congressi dell’Hotel The Hive, in Via Torino 6, a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, a partire dalle ore 10.00. L’incontro è stato organizzato da DemA (Democrazia e Autonomia), il movimento formato da Luigi De Magistris, ManifestA, la componente parlamentare che sta rappresentando le forze di sinistra contrarie alla guerra, Rifondazione Comunista e Potere al Popolo. Molte/i gli ospiti provenienti da altri Paesi europei: dalla Francia arrivano Gabriel Amard, deputato per l’Unione popolare e responsabile del giornale L’Insoumission di La France Insoumise mentre per il Belgio ci sarà Michele Daniele, assistente al Parlamento europeo del Ptb – Pvda. Sarà a Roma anche Katerina Anastasiou, sia in qualità di responsabile esteri del Kpo (il Partito Comunista Austriaco) che di esponente di Transform Europe. Due testimonianze, arriveranno, per differenti e comprensibili ragioni, in video, dalla Turchia con Ertuğrul Kürkçü, presidente onorario dell’Hdp e dalla Russia con Alexander Batov, esponente di una forza di sinistra, Rot Front e contrario all’invasione, Ione Belarra, segretaria generale di Podemos e ministra dei Diritti Sociali. Mentre scriviamo sono in corso contatti febbrili per avere anche esponenti provenienti dalla Germania e da altri che si potrebbero aggiungere in queste ore. Ci saranno poi gli esponenti delle organizzazioni promotrici in Italia ed altre/i autorevoli interlocuzioni. L’evento sarà trasmesso in diretta streaming, anche perché la sala non contiene più di duecento persone. Ci si può già prenotare per aver garantito l’accesso inviando una mail a europeagainstwar@gmail.com

Ma al di là degli aspetti organizzativi sono estremamente importanti le ragioni politiche per cui si è convocato questo Forum con cui si vorrebbe, come già detto, dar vita ad un percorso. L’appello (www.rifondazione.it/primapagina/?p=50064 ) con cui è stato lanciato l’incontro, è per forza di cose articolato. Proprio il rifiuto di una logica binaria e/o “campista” è il terreno su cui ci si intende confrontare. Nella condanna inequivocabile all’invasione russa in Ucraina, giudicata come criminale, non è accettabile che, chiunque provi ad articolare un ragionamento più complesso venga bollato come putiniano. Non solo in Italia, da questo punto di vista, si è arrivati a forme di isteria tale da creare liste di proscrizione per chi non si adegua al pensiero dominante. Nei talk show si invitano, ogni tanto, coloro che pongono problemi come l’espansionismo ad est della Nato e la necessità del suo superamento, coloro che propendono per il disarmo, che chiedono soluzioni diplomatiche e non la fornitura di armamenti all’Ucraina per giungere ad una lunga e sanguinosa guerra. Ma chi eleva pensiero critico è, appunto tacciato di “connivenza col nemico”, al massimo di essere “anima bella”. Il furore bellicista, maggioritario in Parlamento ma non nel Paese, non può essere messo in discussione, al punto che si arriva a silenziare le parole sagge del Papa, aggredire storici, opinionisti, persino comici, spingere verso una russofobia che supera i limiti del grottesco. Chi, come molti di noi, da tanti anni condannano duramente le politiche nazionaliste di Putin, il regime di repressione del dissenso imposto nel proprio Paese, si trova a ricevere lezioni di democrazia da leader politici ed editorialisti che fino a pochi mesi fa osannavano l’invasore dell’Ucraina come un fervente difensore dei “valori occidentali”. L’appello e di conseguenza il movimento che si intende costruire, si schierano, semplicemente, dalla parte dei popoli: quello ucraino, martoriato dalla guerra, quello russo, represso e impoverito anche dalle sanzioni, quelli europei, che già cominciano a pagare il costo di una folle scelta guerrafondaia. Chi si ritroverà domenica al Forum fa una scelta di pace come unica alternativa possibile, alla smilitarizzazione del mondo. Che si seguano le parole di Pertini, quel “svuotare gli arsenali riempire i granai”, pronunciato quando giurò da Presidente della Repubblica e che i 104 milioni giornalieri di aumento previsto delle spese militari in Italia si destinino invece alle tante emergenze sociali mai affrontate nel Paese: sanità, scuola, casa, lavoro, pensioni, redditi. Tra gli effetti tragici e micidiali dell’invasione, il più visibile in Europa è legato all’arrivo di milioni di profughi, per ora in gran parte fermi nei paesi confinanti l’Ucraina, ma che oramai cominciano a raggiungere anche l’intero Continente (in Italia ne sono arrivati già 75 mila per il 90% donne e bambini. Il movimento che si vuole costruire intende coniugare pace e accoglienza. Sarà un movimento dalle parole chiare e prive di ambiguità nelle scelte da operare quanto capace di includere, essere plurale, porsi l’obiettivo di dare rappresentanza alle tante e ai tanti che, in questo mese di oscena guerra, si sono riattivati, sono scesi in piazza, hanno esposto senza ipocrisia la bandiera della pace. E il forum è un passo, come lo sono state le tante manifestazioni che si sono svolte e si stanno svolgendo in vari paesi europei. Un continente di uomini e donne pensanti che non sono disponibili a rimanere inerti di fronte ad un confronto fra potenze che si combatte, senza remore, con i corpi degli altri e che insieme al conflitto in Ucraina guardano a donne, uomini e bambini in fuga da guerre altrettanto sanguinarie ma che non trovano posto in Europa.

da qui

 

 

 

 

 

 

 

Pace, nonviolenza, internazionalismo: tutto sbagliato, tutto da rifare? – Gigi Bettoli

 

Iperboli. Pensieri sull’albero

Il titolo non è solo letterario (“Il barone rampante” di Italo Calvino, letto da ragazzo in uno dei tanti ricoveri ospedalieri… per le polmoniti, non ho certamente atteso il covid). E’ anche reale, perché questi pensieri li ho rimuginati arrampicato tra i rami a fare il giardiniere.

Ma come, mentre il mondo precipita, si teme la guerra atomica – forse: il nostro ex vicepresidente regionale Gianfranco Moretton irride nella sua newsletter chi prende sul serio la minaccia… in fondo, non sediamo tranquillamente su un pacco di atomiche ad Aviano da decenni, come nulla fosse? – e milioni di profughi sono in fuga, e ti interessi degli alberi?

Ebbene sì, se l’umanità, specie parassita ed imperialista che sta sovraffollando e distruggendo il pianeta, vuole suicidarsi, permettetemi di dedicarmi alla cura di altre specie viventi. A partire dalle piante, che non hanno mai fatto la guerra a nessuno. Inutile perdere tempo con chi non vuol capire.

In ogni caso, avvertendo che chi abbia poco tempo può passare direttamente alla terza parte, pure le iperboli hanno un riferimento letterario. Anche se l’ho capito tardi, quando ho fatto un esame in cui ho studiato Joyce e Woolf e, visto che il tema era lo stream of consciousness (flusso di coscienza), mi sono reso conto di essermi sempre espresso così; anche se purtroppo con molta meno fantasia.

 

Iperbole 1. Botanica, ideologia e coscienza di classe

Ho imparato a lavorare sugli alberi, con moderazione e dilettantismo – certo, il periodo è avanzato: ma sono sempre stato pigro (pur costretto al superlavoro da un Super-Io tiranno, pieno dei complessi di colpa del piccolo borghese “traditore di classe” e di una formazione cattolico-attivistica trasformata in marxismo); e poi pure la salute consiglia di non esagerare – grazie agli anni passati in Coop (allora anche Service) Noncello, allora la più grande cooperativa sociale italiana di inserimento lavorativo di persone svantaggiate e disabili.

In particolare, è stato personalmente cruciale un corso di formazione negli anni ‘80, tenuto da esperti naturalisti, atto a formare le future squadre da impegnare nella manutenzione di parchi naturali. Che non ci hanno mai assegnato, ovviamente… ci tornerò al punto 2.

Del corso, ricordo sempre un episodio che mi è rimasto di difficile digestione. Alla fine, hanno “ovviamente” dovuto darci un inutile voto, assegnando un imbarazzante “10” ai quattro responsabili delle due cooperative coinvolte: Gianni e Giorgio de “Il Seme” ed Ezio & me di “Noncello”. Solo un “9” ad un socio di Noncello che, ogni qual volta il naturalista accademico ci illustrava con dovizia di particolari la vegetazione autoctona, aggiungeva ai nomi scientifici in latino la precisa terminologia locale, nel friulano di Cordenons. Solo ora mi rendo conto che, se avessimo registrato tutto, avremmo restituito un patrimonio linguistico e culturale inestimabile.

Il socio votava comunista, anche se si esprimeva in modo tale che una volta (l’uomo rappresentava perfettamente quella gran massa di proletari che, dagli anni ‘90, hanno iniziato a votare in maggioranza leghista, grillino, fascista … e comunque a destra), glie ne ho chiesto la ragione. La risposta è stata: la mia famiglia è sempre stata povera; io ho anche avuto un sacco di problemi, fino a pensare di farla finita, prima di incontrare i servizi e la cooperativa; ma per chi altro dovrei votare, se non per il Pci?

Iperbole 2. Giardinaggio e politica reale.

Lavori nei parchi non ce ne hanno dati, a dispetto del fatto che sarebbe stata una bella occasione di inserimento lavorativo qualificato. Sempre confinati nei fossati stradali, a tagliare rovi. Con qualche eccezione, che avrebbe fatto curriculum ovunque altrove: come i sentieri montani ad Andreis e ad Erto Casso, per esempio, o le manutenzioni delle grandi alberature stradali ad Udine. Dove la differenza tra i viali realizzati da Noncello e da altri appaltatori, si vedeva, eccome:

 

 

Ovviamente le foto non sono quelle, anche se l’ottimo comunicatore cooperativo Josè Alberto Chicayban Monteiro de Castro (noi cooperatori sociali siamo nobili, talvolta non solo nell’animo) a quel tempo fece un servizio inequivocabile.

 

Ma perché le specie vegetali, ed in particolare i platani, vengono così maltrattati? Con conseguenze spiacevoli – dalle malattie prodotte dalle “capitozzature” al marciume nei tronchi, mai cicatrizzati e disinfettati con il dovuto mastice – fino alla caduta mortifera di rami e, talvolta, dei pesantissimi tronchi sulle auto di passaggio?

Per ragioni economiche: si taglia all’altezza della piattaforma che possiede l’appaltatore (di solito 8 metri, quando esistono piattaforme che raggiungono i 26-27 metri della forma dell’albero); per accumulare più legna da vendere come combustibile; per far veloci, e risparmiare sulla manodopera.

Insomma, anche le piante sono vittime della speculazione e della lotta di classe tra umani, così come gli animali e gli umani stessi. E non solo in Amazzonia o nel Borneo.

Non è una novità, se pensiamo che, agli albori del socialismo, quando l’estetica simbolista assumeva a simbolo del progresso il sole radioso che sorgeva ad oriente, i rapporti tra le classi potevano venir rappresentati con metafore animali, come fece il trevigiano Vittorio Gottardi 1.

A Pordenone, in ogni caso – a parte esperimenti finanziati totalmente dai fondi europei, senza spese a carico del comune – non se ne fece niente. Erano i tempi in cui a dominare sui lavori pubblici era il capo ripartizione e, contemporaneamente, potentissimo presidente della Società Operaia. Gli appalti andavano sempre a quelli, come documentai meticolosamente come revisore dei conti municipale, fino ad arrivare ad un’inusitata “relazione di minoranza”, inviata alla Corte dei Conti (che ovviamente non fece nulla).

Qual era il meccanismo? Per regolamento economale, il funzionario non poteva spendere autonomamente più di 1.000.000 di lire al giorno ma, facendo una verifica puntuale sui documenti contabili, risultava che le bollette, ovviamente tutte inferiori di poco al milione, erano più d’una al giorno per lo stesso lavoro, spesso per più giorni, tanto che si arrivava nel complesso ad assegnazioni di lavori pari ad appalti che avrebbero dovuto essere ad evidenza pubblica. E le ditte assegnatarie erano sempre quelle: un vivaista, due elettricisti, un fabbro, e via discorrendo.

Tutto finì nel nulla: a quel tempo, il procuratore Tito non aveva ancora arrestato con un blitz il segretario della Provincia, inaugurando la stagione pordenonese di “mani pulite”. Due sindacalisti autonomi, a mia insaputa, denunciarono i fatti alla magistratura, ma la cosa fu insabbiata da un maresciallo dei carabinieri, che diede un parere che oserei definire “incongruo”. In Consiglio Comunale fui lasciato solo (qualcuno fece girare la voce, incontrollabile ovviamente, che il funzionario fosse andato dal sindaco Alvaro Cardin, minacciandolo di orientare altrove i voti che sosteneva di controllare grazie alla SOMSI, se non fosse stato difeso… ed infatti non solo rimase lì, ma fece anche qualche anno oltre il massimo della carriera, visto che era “insostituibile”).

Prima di partire lancia in resta per quell’inchiesta, chiesi due pareri a persone di fiducia. La professoressa Teresina Degan, mi rispose ironicamente: “Rùbelo?”, frase che ripeté poi più volte negli anni. Un ex amministratore della SOMSI, più particolareggiatamente, mi narrò come, una volta l’anno, gli artigiani pordenonesi fossero convocati per una cena, in cui il tovagliolo di ognuno veniva farcito con una busta. Lui, invece, pur avendo rappresentanze associative, scelse di non andarci più.

Anche per questo pagano i poveri alberi. Se le voci e le battute valgono quello che valgono (spesso meno che nulla), le carte sono ancora negli archivi, in attesa che qualcuno, prima o poi, vada a smuoverne la polvere.

 

  1. Pace, nonviolenza, internazionalismo: dopo il 1989 l’orologio cammina a rovescio, e siamo tornati all’Ottocento della cannoniere

La guerra, come si usa dire, ha una prima vittima: la verità. Anche perché è difficile stabilirla, la verità, in mezzo alla opposte propagande, e menzogne connesse. Con gli anni ‘90 e la “prima guerra del Golfo,” inoltre, i meccanismi di controllo dell’informazione si sono amplificati, tra giornalisti “embedded” ed eliminazione dei testimoni scomodi. Fenomeni non nuovi, ma ora amplificati.

Dobbiamo tener conto del cambio di epoca politica. Come per i tempi geologici si parla ormai di Antropocene come nuova (e forse ultima, almeno per gli umani) epoca, per quelli storici, dopo il Novecento dell’assalto al cielo, siamo regrediti al tempo degli imperialismo coloniali pre “Grande Guerra”. Nel senso non che non ci siano guerre – ce ne sono di più – ma in quello che è sparito un vero movimento sociale internazionale che si opponga alle guerre.

Quello che è certo è che siamo oggettivamente in guerra, che la Costituzione italiana è stata ulteriormente violata, e che l’Europa è solo un compartimento della NATO, privo di una qualsiasi politica estera (scelta blindata dall’allargamento alla Gran Bretagna ed ai regimi ex sovietici).

Come nel 1914 con la propaganda sul “martirio del Belgio” (accompagnata da deputati belgi impegnati in Italia per scardinarne la neutralità, meglio se socialisti, per mettere in difficoltà il Psi pacifista), si utilizzano argomenti a favore dello “interventismo democratico”, quando non “rivoluzionario”. Tacendo i dati più contraddittori: dalle milizie neofasciste internazionali presenti – ovviamente – da ambedue le parti del fronte (i fascisti non sono al governo anche in Israele?) ai partiti politici ucraini di opposizione messi al bando.

Come sia andata a finire nel 1914-15, lo sappiamo: Mao, anni dopo, avrebbe commentato argutamente “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”: ma la frase aveva senso quando avevi un partito organizzato e disciplinato, come quello bolscevico di Lenin, altrimenti ti tieni solo la confusione, che poi è il quadro attuale. (Anni fa, alla presentazione di un libro di Emma Goldman allo “Zapata” di Pordenone, la curatrice arrivò perfino a criticare i bolscevichi perché avevano sottoscritto la pace di Brest-Litovsk con la Germania: come se non fosse stato il pacifismo la scelta prioritaria ed il motivo del successo della Rivoluzione d’Ottobre: manchiamo ormai sui “fondamentali”).

Il movimento pacifista non esiste più (anche se i sondaggi, per quello che valgono, denunciano un’opposizione maggioritaria al coinvolgimento bellico da parte dell’opinione pubblica).

Se da una parte ci sono eccellenti sintesi, come quella di Moni Ovadia 2, dall’altra siamo di fronte all’inutile agitarsi delle Marce della Pace Perugia-Assisi (con una piattaforma in cui non figura né il rifiuto dei rifornimenti militari all’Ucraina né l’aumento delle spese militari italiane ed europee) oppure a tesi confuse, come quella dell’ex giornalista comunista Pierluigi Sullo 3. Il quale fa finta di non sapere che proprio movimenti come quello Zapatista in Messico e quello Kurdo nel Vicino Oriente hanno posto a base della loro politica il superamento della dimensione statale.

E, per quello che contano ormai termini come “destra” e “sinistra”, assistiamo al fenomeno devastante del Partito Democratico con l’elmetto.

Sembra (ed in realtà siamo) di fronte ad un arretramento cronologico secolare.

Si parla di identità nazionale come fossimo ai tempi di Mazzini e Garibaldi; di resistenza come fossimo ai tempi della “guerra civile europea” degli anni ‘10-’40; di democrazia come non fossimo di fronte allo scontro tra due (più di due, se consideriamo anche Polonia & c.) “democrature”; di guerra come non fossimo nell’era nucleare.

Sono saltati tutti i criteri analitici, per tornare a criteri di lettura superati, astorici, autodistruttivi. Il Novecento è stato demonizzato, dimenticato, cancellato, con tutta la sua carica di emancipazione e pratiche “ecocompatibili”, con la sopravvivenza della specie umana e del pianeta, come la nonviolenza.

Dopo decenni, scopriamo che il pacifismo ha perso la bussola, che la politica ha riscoperto le armi e che ogni analisi di classe (quella secondo cui la guerra è il primo dei meccanismi di violenza, espropriazione degli umili ed accumulazione originaria dei dominatori) è stata polverizzata.

Scusate se, come il Barone Rampante, tardo testimone dell’Illuminismo, lascio soli tutte e tutti quelli che vogliono arruolarsi nelle opposte fazioni, e torno ad arrampicarmi sull’albero.

 

1L’Operaio Italiano, n. 14 anno III del 14 luglio 1900, pp. 4-5, La parabola del cucùlo, di Vittorio Gottardi.

2https://www.micromega.net/orizzonti-senza-guerra/

3https://volerelaluna.it/opinioni/2022/03/29/il-massacro-della-guerra-e-le-ragioni-della-resistenza/?fbclid=IwAR1dwcUsewZEruon9a-VllaQJE8psO0mBYpOgk1NOVdT6n7vjYdW07_GaNk

da qui

 

 

 

DRAGHI E LA NUOVA RINCORSA AGLI ARMAMENTI: LA SCONFITTA DELL’UMANITA’ – Umberto Franchi

 

 

La guerra in Ucraina che potrebbe sfocare in una guerra mondiale atomica,  l’allargamento della guerra  in vari Paesi del Mondo con ben 60 conflitti in atto, la moltitudine  dei segni di distruzione che troviamo nella rincorsa agi armamenti (anche atomici) presenti nel Mondo ed in Italia, il terrorismo,  il dilagare della criminalità, gli omicidi nel lavoro, gli omicidi nella vita anche familiare, l’estensione  delle   violenze presenti in ogni luogo… tutto questo accade oggi in Italia e nel Mondo .

 

La realtà sugli armamenti, ci fa vedere lo scenario apocalittico , sapendo   che viviamo con oltre 20.000 testate atomiche presenti nei diversi arsenali del Mondo,  che ci fanno  capire quanto siamo pericolosamente vicini all’autodistruzione …

 

Ogni persona, individualmente è dotata dall’istinto di autoconservazione, ma la salvezza dell’Umanità non sembra  dipendere dal buon senso,   che invece  si è molto indebolito,  sia a livello individuale ma soprattutto  nei governi e nelle potenze che   guidano le sorti del Mondo .

 

Il principio della preoccupazione per la propria tranquillità di pace e serenità  interiore,  non supera l’egoismo delle potenze imperialiste… anzi  sembra che sia venuta meno l’influenza dell’etica del rifiuto morale contro la guerra e che tutte le manifestazioni per la pace,  siano destinate a fallire nei suoi obbiettivi.

 

Ma sbaglia chi pensa che la causa della guerra in Europa  stia nella teoria del “Putin impazzito” ,con la classe dei borghesi , tra cui il governo italiano a guida Draghi, che colgono l’occasione per armarsi fino ai denti… con i 100 miliardi  della Germania ,seguita dall’Italia con i suoi 42 miliardi di armamenti all’anno.

 

In Italia , la posizione di Draghi sulla necessità dell’aumento delle spese militari fino al raggiungimento del 2% del PIL   è una assurdità per tre motivi :

 

  • I ceti più subordinati italiani, sono disperati dall’aumento dei prezzi, delle bollette, delle tariffe … dal fatto che la sanità pubblica vede i pronto soccorsi collassati e la medicina territoriale inesistente con il triste primato mondiale di 158.000 morti per covid… dai plessi scolastici all’80% fuori legge rispetto alla sicurezza… con pensioni e salari di fame… ed il governo non trova un euro, mente trovano 14 miliardi l’anno per armamenti…;
  • L’Italia non solo non “tocca palla” in termini di diplomazia al fine di raggiungere un accordo Russia/Ucraina, ma    continua ad inviare rifornimenti bellici all’Ucraina divenendo nei fatti una nazione belligerante per procura…  mentre si è adeguata alla  richiesta USA/NATO di portare il PIL armamenti al 2%, quando   su 30 Paesi aderenti solo 10 di loro (tra cui l’Italia) hanno   accettato la richiesta Usa/Nato  di arrivare al 2%  ;
  • L’Italia ,purtroppo , ha già inviato le armi in Ucraina , ma evidentemente Draghi (anche se non lo dice) sostiene l’aumento delle spese di circa il 40% in armamenti in vista di un futuro esercito europeo che si affiancherebbe a quello della Nato , e non in sostituzione… aumento che è stato mitigato (non bloccato) solo dall’intervento d Conte , ottenendo la dilatazione delle spese entro il 2028 ;

… il  fatto che l’Ucraina sia la vittima dell’aggressione Russa,     non dovrebbe però mai fare dimenticare che la guerra non si ferma incrementando le armi, ma al contrario da come l’Europa e l’Italia riesce a sviluppare la diplomazia , sapendo che esistono anche  delle richieste e motivazioni russe sui motivi della guerra,  con cui (volente o dolente) bisogna fare i conti dando delle risposte tramite la diplomazia… e  che invece  Draghi con il suo  appiattimento  sulla Nato,    al massimo riesce a parlare  con Putin di come andrebbe pagato il gas in dollari e non in rubli

 

Credo che In questo contesto ,  Draghi  sia succube degli USA e non ha avuto nemmeno il coraggio di criticare o distinguersi dalla posizione di Biden , quando (come Capo di Stato Usa)  ha detto cose scellerate su Putin e la necessità della sua sostituzione alla guida della Russia .

 

Ma Draghi non è il solo  ad avere posizioni sbagliate , quasi tutti nel governo ed opposizione hanno portato il cervello all’ammasso “Atlantico”… ed   anche la posizione di Letta e del PD è appiattita su Draghi che ha le medesimi posizione di Fratelli d’Italia della Meloni.

 

Siamo quindi in presenza di un nuovo nazionalismo continentale che oltre a mantenere le alleanze (ed i costi) militari con la Nato, cerca di sviluppare un proprio esercito ed ulteriori armamenti che sarebbero  utili solo a coinvolgere le masse, soprattutto giovanili,  in nuovi massacri imperialistici.

 

si pone con forza la necessità primaria  di non essere intruppati nella preparazione della guerra mondiale attraverso la Nato  e nemmeno in nuove alleanze dell’imperialismo Europeo.

 

Le classi dominanti da tempo usano i lavoratori come mezzi per i propri profitti ed hanno ridotto i ceti subordinati a vivere in uno stato sociale degradato ,  che vede  disuguaglianze vergognose con i ricchi che si arricchiscono ancora di più durante le guerre  a danno dei ceti medio/bassi  che diventano sempre più poveri…

 

Dobbiamo quindi capire che i  nemici sono  in casa nostra.

 

Essi sono al Governo ed all’opposizione…  il nemico non è solo di Draghi,  ma è fatto  anche dai i partiti filoatlantici che vanno dal PD alla Lega a Forza Italia ai Fratelli d’Italia.

 

Molti della mia generazione  da oltre 30 anni hanno  manifestato , lottato e speso gran parte della propria vita   per un’idea di giustizia sociale e di pace … ma non possiamo  fare a meno di constatare  che le guerre in Europa, Asia ed in Africa non sono mai state fermate  segnando una sconfitta per tutta l’umanità, mentre  la realtà  in Italia e nel Mondo  è andata avanti con lo scarto tra i rediti da lavoro ed i redditi da capitale , con l’ aumentato e  un’esplosione di disuguaglianze tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri… mentre ad oggi la Nato complessivamente spende in armi 24 volte di più di quello che spende la Russia.

 

Sono quindi  le classi lavoratici che devono ribellarsi  e  pretendere  dall’Italia  la cessazione dell’invio di armi in Ucraina, la negazione  degli incrementi degli armamenti richiesti dalla Nato al 2% del PIL , mentre Draghi e l’Europa  dovrebbero  sviluppare la democrazia ed anche richiedere un’attivazione dell’ONU  , per favorire una trattativa con un possibile accordo che sia il frutto di una mediazione accettabile da entrambi le parti.

 

 

 

scrive Donatella Di Cesare

 

NOI COMPLESSISTI. Oggi il mio articolo su Il Fatto quotidiano – Si dimentica spesso che la parola propaganda non vuol dire solo diffondere, ma anche consolidare, fissare. Tutto deve essere ricondotto a schieramenti e fronti, ridotto a principi e dogmi. Guai a farsi domande, esibire incertezze! Perché la propaganda perlustra, seleziona e discrimina. Tanto più se, come durante questa nuova guerra mondiale del XXI secolo, è intenzionalmente militarista.

Non è un caso che ogni discorso debba iniziare – pena l’espulsione perpetua dallo spazio pubblico – con l’autodafé ormai celebre: “c’è un aggressore e un aggredito”. Questo è il fatto oggettivo, il “ragionamento basico”, che deve essere riconosciuto coram populo. L’autodafé, meglio se pronunciato con tono contrito, è il certificato temporaneo di anti-putinismo, il lasciapassare per potersi esprimere nel mondo della libertà di parola. Questo salvacondotto, tuttavia, dura poco e basta anche solo un “perché” o un “come mai” per finire di nuovo proscritti o diventare bersaglio in vario modo del furore bellicista.

Il deteriorarsi del dibattito pubblico nelle democrazie occidentali non è un fenomeno di oggi. Lo aveva già scorto Leo Löwenthal, esponente della Scuola di Francoforte, che con acume analizzò l’America degli anni Cinquanta, dove disagio e disorientamento avrebbero aperto le porte non solo al maccartismo, ma anche all’ascesa di una destra autoritaria. Di recente questo fenomeno si è acuito al punto che si parla di “grande regressione” per indicare brutalità e rozzezza che imperversano nella sfera pubblica. La bolla di internet non ne è il motivo, ma contribuisce all’odio aperto, alle fantasie di violenza, agli insulti osceni.

La guerra – si sa – è rivelatrice. Fra l’altro ha messo in luce, ancor più della pandemia, questa regressione che mina al fondo la democrazia rischiando di cancellarla. La violenza schematica sta già nel voler stabilire l’inizio, nel fissare il principio. Meglio, poi, se è tutt’uno con il Male impenetrabile. “La violenza putiniana che viene dal cielo…”. C’è uno fuori di testa, un matto, un folle oppure – e propagandisticamente è lo stesso – un tiranno, un dittatore, che ha deciso di dirottare il corso storia umana, le sue magnifiche sorti. Guai a interrogarsi su quel principio, ad andare oltre guardando al contesto, provando a esaminare le cause. È pericoloso, anzi ambiguo e infido, già quasi un cedimento al male, un compromesso con il nemico. Mica risaliamo a chissà quando! In tutta tranquillità si può ignorare il “resto”, perché quel che conta è solo sentirsi nel giusto. C’è il male e il bene, l’autocrate e le democrazie, la repressione e la libertà. Ringrazia piuttosto di essere da questa parte, perché dall’altra saresti già in galera. E dunque taci! Smetti di fare domande fastidiose e riconosci il fatto oggettivo che in sintesi è: A ha invaso B. Punto. Altrimenti detto: il grosso ha picchiato il piccolo. E tutti non potranno fare a meno di essere con quest’ultimo.

In questa nuova concezione della storia che, alla faccia di Hegel, ben si adatta alla foga regressiva, non c’è assolutamente nulla da capire. C’è appunto solo da allinearsi nell’ordine bellico, favorito da schemi ideologici. Non vorremmo certo che la gente discuta le cause della guerra mondiale nel cuore dell’Europa, che le conosca davvero! Tutt’al più si possono buttare lì un paio di paragoni perché si senta sollevata: Putin = Hitler, combattenti ucraini = partigiani italiani, ecc. Non importa se la storia non sia quella novecentesca, se la potenza nucleare muti il significato stesso di guerra. Viva la pigrizia mentale condita di malafede. La semplificazione investe anche l’interlocutore che ha comunque torto e va perciò delegittimato a priori. Anche qui non c’è nulla da capire. Sarà tutt’al più un neneista di sinistra. Dice sciocchezze e amenità. Merita sarcasmo, scherno, se non disprezzo, astio, aggressività. Da tempo il livore anti-intellettuale non emergeva in forma così esasperata. Poi magari c’è chi rimpiange “gli intellettuali di una volta”, anche perché non sono qui a importunare.

In tutto questo non stupisce che perfino la “complessità” sia stata presa di mira e sia, anzi, assurta a stigma. Come se si trattasse di un esercizio inutile o di una confusione pretestuosa. Eppure, sappiamo che uno dei grandi pericoli oggi è, al contrario, la semplificazione, la scorciatoia (come quella complottistica) per venire a capo di un mondo difficile da interpretare. Non è più la natura a essere impenetrabile, ma è ormai la storia umana a divenire per noi sempre più enigmatica. Si è spezzato il filo della narrazione. Di qui l’ansia per il futuro che non è mai stato così incerto. La reazione, però, non può essere quella dei nostalgici di una leggibilità del passato. Mai come ora è necessario quel che la tradizione occidentale ci ha insegnato: dalla domanda di Socrate, che proprio salvaguardando la democrazia metteva in forse le certezze dei suoi concittadini, fino al sospetto di Marx, di Nietzsche, di Freud, che vuol dire meno falsa coscienza, più avvedutezza. Studio, interpretazione, giudizio sono la base della democrazia. Non servono solo gli esperti, che peraltro non sono mai neutrali. Altrimenti tutti i cittadini sarebbero deresponsabilizzati nelle scelte politiche – come l’invio di armi – che li riguardano direttamente. Occorrono invece le domande, e tanto più se sono spiazzanti, perché ci aiutano a cambiare prospettiva, a vedere quel che accade sotto una nuova angolazione trovando magari la via d’uscita dalla trappola.

Un computer è un meccanismo complicato; qualcuno l’ha progettato e aprendolo si può veder l’intreccio di parti. La storia umana è invece complessa, perché agiscono molte dimensioni. Applicare gli schemi A – B è grottesco. L’illeggibilità del mondo, di cui parlava Hans Blumenberg, è oggi sotto gli occhi di tutti. Gridare “all’armi” limitandosi a mettere l’elmetto sulla mente, come fanno alcuni, non serve davvero. Non abbiamo bisogno di paraocchi, ma di confronto aperto, dibattito critico, spazi interpretativi comuni. Questi sono i valori democratici occidentali.

Noi complessisti cerchiamo di farcene carico in questo momento grave in cui vengono richieste solo adesioni empatiche alla guerra. La libertà di pensiero è il diritto alla complessità. Anche il diritto di comprendere il male, di decostruirlo, senza per questo giustificarlo. Certo, poi riconosciamo di essere pur sempre complessisti molto imperfetti, non abbastanza vigili, non sempre capaci di capire. Ma se ci fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre in corso avrebbero potuto essere evitate.

da qui

 

 

 

pare che in Russia la zeta sia un simbolo pro Putin,speriamo che in Italia nessun cretino proponga di censurare un eroe della nostra infanzia.

 

 

Redazione
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Un commento

  • MARCIA POPOLARE CONTRO LA GUERRA PER LA PACE E IL DISARMO
    AEROPORTO MILITARE DI DECIMOMANNU (CAGLIARI)
    Sabato 9 aprile 2022: concentramento alle ore 15 alla stazione di Decimomannu, marcia fino all’ingresso dell’aeroporto militare.
    Coordinamento Provinciale di Cagliari “Prepariamo la Pace”
    A Foras – Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna.
    https://www.facebook.com/events/460739575839580

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