LA LINGUA SEGRETA

Racconto di Giovanna Repetto. A seguire una nota della “bottega”

1

– Sempre intenta a ricamare?

Le dita affusolate di Arcadia correvano veloci sul telaio. I capelli, raccolti in una treccia dietro la nuca, incorniciavano il viso maturo, di una bellezza dolce e discreta. Alzò gli occhi e sorrise al marito che faceva capolino nella sua stanza, nella rocca fortificata degli Idahmaro. – Noi donne non abbiamo una grande scelta di occupazioni. E poi questo non è un ricamo, è un arazzo. Ti piace?

Il tessuto era fitto di disegni minuti sapientemente lavorati a mano. Sul loro pianeta, terraformato da un migliaio di anni, la tecnologia più sofisticata era scomparsa.

– Hai scelto colori bellissimi.

– Se vuoi ti insegno come si fa.

Idahmant, Primo Ufficiale degli Idahmaro, scoppiò in una risata. – Non credo che faccia per me. E comunque non avrei tempo.

– Infatti non ti sei nemmeno tolto la divisa.

L’ufficiale accarezzò le decorazioni al merito che gli ornavano il petto. – Finché non avremo spazzato via quei maledetti Oramhadi, saremo in guerra giorno e notte.

– Sì, – Arcadia posò la spola con un sospiro – e dopo che li avrete spazzati via, come passerete il tempo?

L’uomo restò un momento incerto, ma subito si riprese e le sorrise con malizia. – Ti occuperai tu di riempire il mio tempo, ma non sarà con il ricamo.

Nel suo viso asciutto, ornato da una corta barba brizzolata, gli occhi scuri e profondi si accesero di una luce particolare. Lei gli rivolse uno sguardo scettico.

– Ti dimenticherai mai di essere un soldato?

– C’è una sola circostanza – rispose lui con la voce un po’ arrochita – in cui sono sempre felice di arrendermi.

Allungò le mani per accarezzarle i capelli e si chinò a nascondere il viso nell’incavo del suo collo.

– Non pensi che siamo già nonni? – ridacchiò lei mentre cominciava a sbottonargli la giubba.

Irene, la figlia maggiore, aveva partorito da poco.

– Per te fa differenza?

La risposta fu soffocata da un bacio.

2

Eden se ne stava in piedi sulla terrazza a lasciarsi scompigliare i capelli dalla brezza. Davanti agli occhi teneva un paio di pesanti binocoli, puntati verso ovest. Uno scialle colorato le avvolgeva le spalle.

– Sei qui! – Il marito portava sulla divisa i simboli propri del Comandante degli Oramhadi. Il viso accuratamente sbarbato presentava lineamenti forti e l’espressione decisa di chi è abituato al comando. – Non hai freddo? Oggi è una giornata ventosa.

Eden gli sorrise, voltando appena la testa. Era giovane, con gote fresche e una bella dentatura. I capelli le ricadevano lunghi e folti sugli omeri. – Sto bene. È primavera, e l’estate è prossima.

Oramesh le accarezzò le spalle. – Che cosa guardi? Da quella parte ci sono soltanto nemici.

– E allora? Tu li guardi tutto il giorno, non c’è niente di male se do un’occhiata anch’io.

– Se ti piace! Io guardo gli Idahmaro solo perché devo combatterli, altrimenti ne farei a meno.

– Potresti fare a meno anche di combattere! – ribatté lei voltandosi del tutto con un sorriso di sfida.

Il comandante allungò una mano a carezzarle una guancia. Nei suoi occhi, solitamente freddi, era comparsa un’espressione di tenerezza.

– So che a volte ti manco, la guerra assorbe quasi tutto il mio tempo.

– Dovrà finire, una buona volta.

– Non succederà tanto presto. Noi Oramhadi siamo agguerriti, ma anche gli Idahmaro hanno armi potenti.

Eden allungò le labbra in un broncio civettuolo.

– Non si potrebbe semplicemente smettere di combattere?

– Sciocchina, che uomo sarei se smettessi di combattere?

– Che uomo saresti? Magari mi piacerebbe scoprirlo.

– Sai già che uomo sono – sussurrò lui togliendole i binocoli di mano e stringendola a sé.

3

– Ci sarà una grande battaglia – ogni giorno Idahmant tornava sull’argomento – in coincidenza con l’equinozio.

Arcadia inarcò le sopracciglia, sollevando gli occhi dal telaio. – Un bel modo di festeggiare la primavera.

Il marito scoppiò a ridere. – Vorresti che lanciassimo fiori agli Oramhadi?

Anche Arcadia rise. – Sì, se loro ci lanciassero fiori in cambio.

L’ufficiale scosse la testa. – Veramente hai delle buffe idee. Per fortuna non tocca a voi donne fare la guerra.

– Per fortuna – fece eco Arcadia riprendendo a muovere la spola sul telaio.

L’uomo fece qualche passo intorno alla stanza, accarezzandosi la barba in un gesto pensieroso, poi si fermò per tornare a guardarla.

– Possibile che tu non riesca mai a staccarti da quel congegno?

– È la mia arma – rispose lei serafica.

– Hai già un arsenale di scialli, di tutte le fogge e di tutti i colori. Devi tesserne uno ogni giorno?

– Più o meno.

– Quando punto il cannocchiale a est, vedo le donne degli Oramhadi che indossano scialli simili. Che cos’è, una specie di gara per vedere chi ne fa di più belli? È questa la guerra di voi donne?

– Può darsi. – Il sorriso di Arcadia era pieno di malizia.

L’ufficiale scosse ancora la testa.

– Hai visto Irene? – domandò poi. – Come sta il piccolino?

– Mangia e dorme. Irene era qui fino a un momento fa, le ho visto dare la poppata. È il nostro Ares che non vedo da qualche giorno. Non lascia mai la scuola?

– Ares ha dodici anni, ormai, l’ho mandato ad addestrarsi con il mio attendente. Crescerà come un vero Idahmaro.

– Gli vuoi bene, vero?

– Che domande! È sangue del mio sangue, darei la vita per lui. Come ti è venuto in mente di chiedermelo?

– Così. Mi fa piacere sentirtelo dire.

4

– Stavolta gli Idahmaro avranno il colpo di grazia. La nostra arma definitiva è pronta.

Eden smise di disporre i fiori nel vaso per offrire al marito uno sguardo incredulo. – Definitiva?

– Lo sarà, e per due ragioni. La prima è che si tratta di una macchina mai usata prima, che spargerà un mare di fuoco sul campo nemico. Non ci sarà scampo per nessuno.

– Vuoi dire nemmeno…

– Nessuno. La loro mala pianta deve sparire dalla faccia di questo mondo. Sparire per sempre. – La mano accompagnò le parole con un gesto secco.

– Ma discendono dai primi coloni del pianeta, come noi. Hanno la nostra stessa radice, e da ogni radice nasce un’unica pianta.

Il comandante digrignò i denti con uno scatto della poderosa mandibola. – Cosa vuoi dire?

– Non mi sembrano così diversi.

Lui strinse i pugni. – Li hai guardati di nuovo? Quei binocoli sono la tua rovina.

Eden alzò il mento con un sorriso impertinente. – E la seconda ragione?

– La seconda ragione è che non lasceremo passare la Festa dell’Equinozio. Agiremo il giorno stesso, così li prenderemo di sorpresa.

Eden rimase a bocca aperta.

– Non era mai successo! La Festa dell’Equinozio è sempre stata una giornata di tregua.

Il comandante emise una risatina soddisfatta. – Infatti non se lo aspetteranno.

– Uhm… – Eden assunse un’aria pensierosa – davvero i tempi sono maturi. Il nostro pianeta conoscerà una svolta.

– Proprio così, vedo che cominci a capirlo.

5

– Certe volte sono perfino gelosa – confidò Arcadia con un sorriso cauto. Sedeva in poltrona davanti a una tazza di infuso, mentre il marito camminava avanti e indietro per la stanza tormentandosi la barba, come era il suo solito.

Idahmant corrugò la fronte. – Credi che perda tempo a frequentare altre donne?

– No, non temo le rivali. È quando parli della guerra che i tuoi occhi si accendono di una passione così impetuosa da sembrare più forte del desiderio d’amore.

L’ufficiale rispose con una risatina. – Sono cose diverse, ma capisco quello che vuoi dire. L’equinozio si avvicina, e verrà il momento di sperimentare una macchina mai usata prima, capace di sputare lava e lapilli come un vulcano.

La donna inarcò le sopracciglia. – Sei sicuro che gli Oramhadi non ne abbiano una simile?

– Può essere. Ma proprio per questo li anticiperemo attaccando nel giorno stesso dell’equinozio.

– Com’è possibile? L’equinozio è sacro, è sempre stato dedicato al riposo e alla festa.

Idahmant ebbe un sorriso truce. – Ecco, vedi? Loro penseranno la stessa cosa e si faranno cogliere impreparati.

Arcadia scosse i capo e si alzò per andare a prendere il cestino dove teneva le matasse di filo. Il marito la seguì con lo sguardo.

– Quando sei agitata ti metti al telaio – osservò.

– Che altro potrei fare?

– Non dirmi che hai bisogno di un altro scialle.

– Non sono vanitosa come pensi. Questa volta sarà una copertina per la culla di nostro nipote. Irene me ne ha chiesto una leggera, adatta al tempo primaverile.

6

– Per caso hai visto Shanti? – domandò Eden. Sua sorella aveva quindici anni ed era incapace di restare a lungo ferma in un posto.

Oramesh ridacchiò. – Certo, è una delle ragazze più sollecite nel portare i generi di ristoro ai soldati. Ho idea che abbia già adocchiato qualcuno.

– Figurati, è ancora una bambina!

– Ti dico che poco fa stava facendo gli occhi dolci a uno degli addetti alle macchine da guerra.

Eden sbuffò. – Sei troppo malizioso. Se la rivedi dille di venire qui, per favore. Deve aiutarmi al telaio.

– Oh oh, emergenza vanità!

– Non è per me questa volta. Devo tessere una copertina da culla.

Il comandante alzò le sopracciglia in un’ironica espressione di stupore. – È vero che Shanti si dà da fare, ma per la culla mi pare un po’ presto!

Eden lo guardò con una specie di commiserazione, come si guarda un bambino lento a imparare. – Sarebbe presto per lei… ma non per me.

– In che senso? – Oramesh la guardava senza capire, corrugando la fronte.

La giovane scoppiò in una sonora risata. – Amore mio, pensi che i nostri abbracci siano rimasti senza conseguenze?

Il comandante sussultò, sgranò gli occhi, corse verso di lei e la sollevò di peso. Le sue braccia poderose non tradivano alcuno sforzo. – Perché non mi hai detto niente? – la rimproverò, burbero e felice.

Lei rise ancora. – Ma non ti accorgi che te l’ho appena detto?

– Stanotte non riuscirò a dormire – disse infine Oramesh dopo averla riempita di baci. – Passerò tutto il tempo pensando al nome da mettere al bambino.

– Non è detto che sia maschio – obiettò Eden. – E lo sai, il nome della femmina può sceglierlo solo la madre.

7

– Sembrano stranamente tranquilli – disse Idahmant senza staccare gli occhi dal cannocchiale. – Non vedo preparativi per la Festa dell’Equinozio.

– Nemmeno noi siamo in festa – replicò Arcadia al suo fianco. Aveva insistito per assistere alla battaglia insieme a lui, dall’alto della torretta fortificata.

L’ufficiale sbuffò. – È ora di dare il segnale. Stai indietro, al riparo.

Puntò verso l’alto la pistola lanciarazzi e fece partire un colpo.

Si udì un clangore metallico, uno stridio, uno sbuffo smorzato. Poi voci concitate e sommesse.

– Cosa succede? – si lasciò sfuggire Idahmant, al culmine della tensione.

– Non vedo né lava né lapilli – commentò tranquillamente Arcadia.

Un soldato li raggiunse trafelato sulla terrazza.

– Non funziona – ansimò. – La macchina non funziona.

L’ufficiale lo afferrò per il bavero. – Cosa dici, disgraziato?

Sembrava che volesse strozzarlo, quando Arcadia prese il cannocchiale per puntarlo a sua volta sulla striscia di deserto che li separava dal territorio nemico.

– Guarda, Idahmant, guarda laggiù!

L’uomo lasciò la presa sul malcapitato e afferrò lo strumento che lei gli porgeva.

– Non vedo nulla e nessuno.

– Guarda più a sud, verso il bosco.

Era un luogo maledetto, quella selva inesplorata, quell’intrico in cui si diceva dimorassero le creature autoctone del pianeta. Bestie infette e mostruose, pericolose anche al solo guardarle. Da lasciar perdere, almeno finché se stavano nascoste.

Idahmant puntò lo sguardo in quella direzione. Poco mancò che gli sfuggisse il cannocchiale: per la prima volta in vita sua gli tremavano le mani.

8

Oramesh era fuori di sé. Dopo tanto lavoro sulla nuova macchina da guerra, dopo aver concepito l’idea geniale di un attacco a sorpresa nel giorno dell’equinozio, l’ingranaggio si era inceppato senza alcun motivo apparente. Con le mani fra i capelli, si sporgeva dalla terrazza aggettante sulla pianura come se avesse l’intenzione di buttarsi di sotto.

Eden, che aveva voluto essergli accanto al momento dell’attacco, gli posò una mano sul braccio porgendogli i binocoli.

– Guarda, amore mio. Guarda laggiù verso il boschetto.

– Che c’è da vedere? Ci mancherebbero solo il mostri della foresta, a questo punto.

Davvero c’era un movimento in uscita dal bosco. Prima un lieve scostarsi delle fronde, poi ecco un piccolo corteo dirigersi dalla selva verso la striscia di deserto che separava i due territori. Non erano mostri, però, né animali alieni.

Man mano che avanzavano, disponendosi lungo il confine, rivelavano la loro natura: erano donne giovani, vestite a festa, che procedevano a due a due tenendosi per mano. Alcune, con la mano libera, reggevano per il manico un cestino di fibre intrecciate. Altre portavano piccoli strumenti che, scossi ritmicamente, producevano suoni.

Cantavano. E i loro passi, mentre procedevano cantando, assomigliavano a una danza.

9

– Chi sono? – sbraitò Idahmant stringendo il cannocchiale e sporgendosi pericolosamente dalla torretta fortificata degli Idahmaro. – Cosa stanno facendo?

Arcadia sorrise accarezzandogli una spalla.

– Sono donne giovani. Cantano, festeggiano l’equinozio, che c’è di male?

– Ma… ma sono insieme! – La voce gli si strozzò per l’indignazione. – Le nostre e le loro, stanno tutte insieme!

– Sono ragazze brave e allegre, con la stessa voglia di divertirsi. Perché non dovrebbero?

Idahmant staccò un momento gli occhi dal cannocchiale per guardare la moglie, quasi stentasse a riconoscerla. Poi tornò a puntare lo sguardo sulla pianura.

– Ma… c’è anche la nostra Irene! Che cos’ha in quel cestino?

Arcadia sospirò, preparandosi a un discorso lungo e difficile.

– C’è una cosa che devi sapere, Idahmant. Un rito che noi pratichiamo da dodici anni, da quando abbiamo capito che non c’era altro modo per far cessare la guerra.

Noi chi?

– Noi donne. Da anni ci incontriamo alla Festa dell’Equinozio, nel bosco che voi credete infestato dai mostri. Siamo state noi a inventare quelle leggende. – Arcadia si interruppe con una breve risata.

L’ufficiale lasciò cadere il cannocchiale e la guardò con occhi iniettati di sangue.

– Perché questo inganno?

– Per poterci incontrare là dentro, al sicuro, una volta all’anno, quando voi uomini siete troppo ubriachi per accorgervi della nostra assenza. E praticare lo scambio.

– Di che parli?

Il sorriso di Arcadia si fece ancora più tenero, le si inumidirono gli occhi.

– L’altro giorno mi hai detto di amare Ares, e che daresti la vita per lui perché è sangue del tuo sangue.

– E allora?

– Ares è certamente nostro figlio, perché lo abbiamo cresciuto, ma non è frutto del tuo sangue.

Idahmant contrasse la mandibola e strinse i pugni. – Con chi mi hai tradito? – sibilò.

Arcadia alzò la fronte per concludere, impavida, la sua rivelazione. – Non ti ho tradito. Ogni anno, alla Festa dell’Equinozio, noi donne pratichiamo il rito dello scambio. I maschi Idahmaro nati durante l’anno vengono scambiati con i maschi Oramhadi. Ares è stato uno dei primi, dodici anni fa.

Idahmant si era accasciato su una sedia, pallido come un morto. Sembrava che non avesse più sangue nelle vene. Trovò a stento la forza di parlare.

– Tu vuoi dirmi… tu dici che il mio vero figlio è laggiù, nel campo nemico, e che potrei finire per ucciderlo in battaglia?

– Nessuno sarà ucciso. Abbiamo deciso di rivelarvi il segreto dello scambio adesso, prima che i nostri figli raggiungano l’età per diventare soldati.

– No… non posso crederci. Ares mi assomiglia.

Arcadia rise sommessamente.

– Certo che ti assomiglia. Tutti gli Oramhadi assomigliano a noi. E noi assomigliamo a loro. Siamo un unico popolo.

Idahmant si teneva la testa fra le mani. – Tu mi stai uccidendo!

– Anzi, ti regalo la vita.

– Una vita di disonore.

– Disonore! – Lo guardò con occhi fiammeggianti, il viso atteggiato a un accorato rimprovero. – Davvero ti vergogni di non uccidere?

10

– E così… – Oramesh non credeva alle proprie orecchie, mentre la moglie sciorinava il suo racconto – tu sostieni che gli Idahmaro hanno una macchina da guerra uguale alla nostra, e che nessuna delle due ha funzionato a causa del sabotaggio. Com’è potuto succedere?

– Le ragazze più giovani, quelle che portano i generi di ristoro ai soldati, hanno versato miele negli ingranaggi.

– Tua sorella Shanti! – accusò il comandante.

– Tutte le ragazze, nell’uno e nell’altro campo – assicurò Eden senza scomporsi.

– Tradimento! – ringhiò Oramesh guardandola torvo. – Ora mi toccherà ucciderti.

Eden non diede segno di spavento.

– Non solo me. Voi soldati dovrete uccidere tutte noi donne Oramhadi, perché tutte abbiamo partecipato all’impresa. E dopo… dopo non vi resterà altro che unirvi alle donne Idahmaro! – Scoppiò a ridere, concludendo la frase.

– È tutta una pazzia, siete delle sciagurate fuori di testa. Scambi di neonati, sabotaggi, e cos’altro? – Il petto poderoso era scosso da un respiro ansante che tradiva la sua agitazione. – Come faremo a continuare questa guerra?

– La guerra finisce qui. Ci riuniremo in un unico popolo, com’era in origine.

– Ah! – Oramesh rise cupamente. – E chi governerà quest’unico popolo? Scoppierà un’altra guerra prima di poterlo decidere.

Eden assunse un’espressione autorevole. – Non serve, è già tutto deciso. Saremo noi a governare.

Il comandante sgranò gli occhi, speranzoso. – Noi Oramhadi?

– Noi donne. Per lunghi anni abbiamo imparato a parlare fra noi, discutere e poi metterci d’accordo. Non ci sarà nessun bisogno di spargere sangue.

– E noi… e noi che cosa dovremmo fare – domandò Oramesh con un risolino di scherno – secondo i vostri piani?

– Abbiamo già pronta un’occupazione adatta per il vostro sfogo.

Lui la guardò con diffidenza. – Sarebbe?

– Un grande torneo di giochi, sfide atletiche e lotte incruente. Ma non ci saranno bandiere: ognuno gareggerà per sé stesso.

– E tu credi che gli Idahmaro sarebbero d’accordo?

– Proprio in questo momento le loro donne li stanno informando, come noi informiamo voi.

– Dunque siete voi donne il nostro nemico, e noi siamo gli sconfitti!

– Non sono parole utili, queste, a definire la realtà. Diciamo che noi donne abbiamo imparato a organizzarci e vi offriamo con tutto il cuore questa nostra competenza.

Oramesh era ancora ben lontano dal mostrarsi convinto. Ma c’era una curiosità che più di tutto lo attanagliava.

– Voglio sapere una cosa. E non mentire! Non avreste potuto organizzare tutto incontrandovi solo una volta all’anno nel bosco. Come facevate a comunicare per tutto il resto del tempo?

– Già, non l’avete mai capito! – Eden sorrise con una certa soddisfazione. – Noi abbiamo sempre comunicato con i nostri scialli e con le coperte stese alle finestre. Con i simboli raffigurati sui tessuti. È questa l’arte che noi donne abbiamo sempre condiviso e tramandato da una generazione all’altra, fin da quando eravamo un unico popolo. Questa è la nostra lingua segreta.

UNA BREVE NOTA DELLA “BOTTEGA”

Il racconto di Giovanna Repetto si collega a I frattali imperfetti e il giorno del malfattore di Daniela Piegai e a «La stretta di mano del Führer» di Diego Rossi (pubblicati nei due sabati precedenti). Tutti usano la fantascienza come grimalello per scardinare il futuro prossimo, così vicino al nostro presente (ma, a volte, ancora indecifrabile). La “bottega” si offre di ospitare una serie di racconti, in quest’ottica, contro le vecchie-nuove guerre e intorno ad altri domani possibili. Grazie a chi parteciperà … o anche solo leggerà. Le parole sono davvero poco nei momenti più drammatici – come oggi – eppure ogni volta riscopriamo che possono servire: nell’agire dell’oggi e nell’immaginare futuri.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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