La logica del campo di concentramento
di Josep Fontana (*)
Di recente ho letto una serie di nuove ricerche sull’olocausto e i campi di concentramento, tra le quali spicca «KL», il gran libro di Nikolaus Wachsmann, e mi sono reso conto di come, allo stesso modo della maggioranza delle persone, fossi vittima dell’errore di ritenere che questi campi fossero un luogo di sterminio. Non lo erano, erano organizzazioni industriali gestite con criteri economici peculiari ma molto razionali con il fine di ottenere i massimi benefici.
In realtà, tutto il sistema di dominazione nazista era pensato secondo questi princìpi. L’occupazione dei territori dell’Est, Polonia e Russia, è stata organizzata al fine di ottenere la massima produzione di alimenti di cui dotare gli eserciti tedeschi. Allo stesso modo, nel Terzo Reich, gli oltre sette milioni di prigionieri e lavoratori forzati stranieri avevano il compito di produrre. Quando, alla fine della guerra, i polacchi che lavoravano nei campi tedeschi fecero ritorno nel loro Paese, non c’era più nessuno per coltivare la terra, tant’è che gli alleati si videro costretti a far lavorare anche i prigionieri di guerra per alleviare la fame.
Tutto, perfino l’annientamento degli ebrei, fu pensato con criteri di redditività. Il protocollo della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, che pianificava l’eliminazione finale degli ebrei d’Europa, prevedeva la deportazione di undici milioni di loro verso una destinazione indefinita, in Russia o anche oltre. Disposti in lunghe colonne, separati in base al sesso, sarebbero stati utilizzati per costruire strade. «Non c’è dubbio – sottolinea il protocollo – che, come conseguenza della selezione naturale, se ne perderà un gran numero. Quelli che rimarranno in vita avranno bisogno di un trattamento adeguato, perchè rappresentano senza dubbio la parte più resistente e si potrebbero trasformare nel germe di una rinascita ebraica (nella storia ci sono già stati esempi del genere)».
NELLA FOTO Alcuni internati omosessuali, riconoscibili dal triangolo rosa, nel lager di Sachsenhausen. Foto: dizionario Zanichelli
La miglior dimostrazione della razionalità economica la troviamo però nei grandi campi di concentramento dove, secondo i calcoli di Wachsmann, morirono 1.700.000 persone (meno di un terzo dei 6 milioni di vittime dell’olocausto). Il segreto della loro redditività consisteva nell’utilizzare fino allo sfinimento i lavoratori, il cui mantenimento costava molto poco e che venivano sterminati quando cessavano di essere utili, così come, negli asili delle fabbriche, veniva sterminata la maggior parte dei figli delle lavoratrici. Eliminare i costi improduttivi garantiva un’alta competitività.
Auschwitz-Birkenau è stato l’esempio più emblematico dell’olocausto industriale. Era costituito da tre unità: Auschwitz I era un centro di produzione industriale con uffici delle SS e industrie di armi. Era però anche un centro di sperimentazione medica, dove i professori universitari praticavano la vivisezione. Auschwitz II Birkenau era il grande campo di sterminio e Auschwitz III Monowitz, forniva lavoro alla grande fabbrica di caucciù sintetico delle IG Farben. C’era inoltre un sistema che comprendeva una cinquantina di campi ausiliari dislocati in Slesia, con fattorie, miniere di carbone, cave, allevamenti ittici… La vita attiva dei lavoratori-schiavi di questo sistema industriale era breve, dato che finiva quando non rendevano più in modo adeguato e venivano mandati a Birkenau per essere soppressi. Nell’insieme del sistema dei campi di concentramento, Auschwitz ha contribuito con 1.100.000 morti a raggiungere un totale di 1.700.000.
A qualcuno potrà sembrare strano che faccia queste considerazioni in uno spazio destinato alla riflessione sulle questioni del mondo in cui viviamo. Queste letture mi hanno però fatto pensare alle analogie tra la logica dei campi di concentramento e le politiche di austerità che ci impongono. I fondamenti sono gli stessi: minimizzare i costi del lavoro ed eliminare lo spreco di risorse che determina il mantenimento di coloro che non sono più in condizione di produrre. La riduzione dei costi salariali è stata raggiunta attraverso una misura geniale, la «flessibilizzazione del lavoro» che, mentre lascia i lavoratori senza difese di fronte alla disoccupazione, risparmia agli imprenditori i fastidi che prima causavano le controversie per un giusto salario (che senso ha parlare di “salario minimo” quando ci sono contratti a 0 ore?).
L’eliminazione di quelli che non sono più produttivi viene realizzata in forma discreta con la riduzione delle pensioni. È una procedura più lenta, che sicuramente sarà più efficace nel futuro (ad esempio con i ticket dei medicinali) però molto più pulita che bruciare qualcuno in un forno. Per completare le similitudini al modello originale, abbiamo verificato che gli attuali creditori tedeschi non sono privi, rispetto agli europei del sud, della stessa convinzione di superiorità razziale che aveva fatto dire a Goebbels che i polacchi «sono più animali che umani».
Mi preoccupa quello che succede nel campo di concentramento in cui è stata trasformata la Grecia, perché quello che potrebbe succedere – considerando la situazione della Spagna, dove il volume del debito pubblico è attorno al 99 per cento del Pil (300 miliardi di euro debito in più da quando Rajoy è andato al potere) – è semplicemente un disastro, qualora dovessero crescere i bassi tassi di interesse attuali, che consentono di far fronte alla situazione senza troppi problemi.
Chissà che non sia stato per questo che, nella stessa settimana, Fmi e il signor Luis de Linde, governatore del Banco de España, ci hanno dato lo stesso tipo di consigli. Dove Fmi chiedeva la riduzione dei salari (con un licenziamento ancor meno costoso) e di limitare i nostri costi di sostentamento (alzando l’Iva e riducendo le spese dello Stato per la scuola e la sanità), il signor Luis de Linde, pieno di entusiasmo, è andato perfino oltre; chiede una nuova riforma del lavoro (quali altri diritti si possono togliere ai lavoratori?) e ci avverte di non farci illusioni: non potremo vivere con le pensioni quando saremo vecchi.
Non è ancora esattamente il campo di concentramento, però man mano che imparano gli somiglia sempre più.
(*) Recuperato da «Comune-info» (traduzione Daniela Cavallo). Fonte: sin permiso. Josep Fontana fa parte del Consiglio Editoriale di SinPermiso, è docente emerito di Storia e dirige l’Istituto universitario di Storia Jaume Vicens i Vives dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona. Maestro indiscusso di diverse generazioni di storici e scienziati sociali, ricercatore di fama internazionale e, fra le molte altre cose, pioniere nell’introduzione nel mondo editoriale spagnolo della grande tradizione storiografica marxista britannica contemporanea, Fontana è stato una delle più emblematiche figure della resistenza democratica al franchismo.