La lotta delle Soulaliyate
di Oumaima Azzelzouli (per «Global Post – Morocco News» 19.7.2012); traduzione di Maria G. Di Rienzo.
Rabat, Marocco. Quando la famiglia di Rkia Bellot vendette la terra che i suoi membri coltivavano in comune, ognuno dei suoi otto fratelli ebbe una parte del ricavato. Rkia, una donna nubile, non ebbe nulla. Questo perché la terra della sua famiglia faceva pare dei 37 milioni di acri che in Marocco sono governati dall’orf o legge tribale. Le donne non sposate o vedove della famiglia, chiamate collettivamente Soulaliyate, diventano spesso miserabili non appena la terra è venduta.
Rkia Bellot, ora 66enne, voleva un destino migliore per se stessa e lanciò una campagna contro questa pratica, con l’aiuto di una ong nazionale. La sua lotta per ottenere diritti sulla terra per le donne ha incoraggiato altre Soulaliyate a confrontarsi con il sistema giudiziario marocchino e le antiche tradizioni, ma la lotta può diventare difficile per i milioni di marocchine spossessate dalle leggi tribali, poiché sono poco istruite, poco informate e hanno contro le loro stesse famiglie.
«Il Marocco è in una posizione assai contraddittoria» dice Bellot: «Da un lato il regno ha firmato tutte le convenzioni internazionali che parlano di eguaglianza fra uomini e donne. Dall’altro, abbiamo ancora casi come questo, con le donne che non hanno alcun diritto sulla propria terra». L’ingiustizia era particolarmente profonda, per Bellot, che era stata di sostegno all’intera famiglia dalla morte del padre, avvenuta quando lei aveva vent’anni. Pure, i suoi fratelli non le diedero nulla, dicendo che avevano le mani legate dalla legge tribale.
La città natale di questa donna è Kenitra, un porto situato 25 miglia a nord della capitale del Paese, Rabat. Dopo la vendita della terra, gli uomini della famiglia di Bellot costruirono belle case per se stessi, ma le loro parenti single, finite in mezzo alla strada, furono relegate in una baraccopoli alla periferia di Kenitra, in case di fango con i tetti di metallo non fissati, case che collassavano se solo la pioggia era abbastanza forte. Oggi la baraccopoli non esiste più, ma le donne hanno ancora problemi se chiedono che i loro diritti siano garantiti.
I guai di Aziza Innouch, anche lei parte delle Soulaliyate, sono cominciati l’anno scorso quando suo padre è deceduto. Aziza, vedova con tre bambini, viveva nel villaggio di Ain Cheggag e ha lavorato la terra di proprietà della famiglia per tutta la vita. Quando alla morte del padre ha chiesto al fratello di poter avere la propria parte dei terreni, lui ha rifiutato. Aziza vive ora in due stanze di cemento con i bimbi, ed essendo senza terra è costretta a fare qualsiasi lavoro trovi al villaggio: di solito lavori agricoli sui campi dei vicini. Il lavoro è duro e anche difficile da trovare, perché gli agricoltori preferiscono impiegare donne più giovani di lei.
Aziza Innouch e altre donne della tribù, alcune delle quali sono state minacciate di morte e persino incarcerate per aver chiesto diritti sulle loro terre, hanno tentato di portare i loro casi al Consiglio cittadino, ma tutte le loro richieste scritte sono state ignorate. Allora hanno deciso di confrontarsi direttamente con il caid, o capo villaggio, ma non è andata meglio: «Il caid usa paroloni, non capiamo neppure quel che dice». Aziza ha pensato che avrebbe avuto miglior fortuna in tribunale, ma in aprile, nel giorno stesso in cui avrebbe dovuto presenziare all’udienza nella città di Fez, suo fratello è arrivato in tribunale con un documento che accusava Aziza di violenze contro la loro madre. La Corte ha detto che il documento presentato forniva i termini per imprigionare Aziza, ma il fratello avrebbe lasciato cadere le accuse se lei ritirava la causa sull’eredità. E così lei ha fatto.
Bellot dice di essere passata attraverso le stesse frustrazioni: «I capi tribali non facevano che dire: non ci possiamo fare nulla, è la legge della tribù. Ma io fatto ricerche sino a che non sono stata sicura al 100% che si trattava solo di una palese ingiustizia». L’avvocato da lei contattato a Rabat le disse che c’erano ben poche speranze di farcela, allora Rkia Bellot si rivolse altrove, all’Associazione democratica delle donne marocchine (Addm) che lavora per i diritti umani delle donne in tutto il Paese.
L’Addm fece propria la causa di Bellot: cominciò a istruire le donne di Kenitra e coprì i costi di viaggio quando le Soulaliyate partecipavano a sit-in o dimostrazioni di fronte al Parlamento a Rabat. Mano a mano che esploravano l’estensione dei problemi relativi alla terra di queste donne, si sforzarono di includerne altre da tutto il Marocco, ma in un Paese dove il tasso di analfabetismo delle donne rurali si aggira attorno all’80% questo presentava spesso dei problemi: «In maggioranza non sanno leggere e scrivere, perciò gli attrezzi comunicativi devono essere aggiustati caso per caso» dice Said Khadija Ouelammou, che dirige a Rabat l’ufficio dell’Addm che si occupa delle Soulaliyate. Sebbene l’associazione fornisca a esse un sostegno considerevole, ci tiene a chiarire che non parla a nome delle Soulaliyate. In ogni villaggio, l’Addm identifica una donna Soulaliyate che possa agire come tramite fra l’associazione e la comunità: questa leader locale si organizza come crede meglio e l’Addm sostiene le sue scelte.
Rkia Bellot portò 500 Soulaliyate di fronte al Parlamento nel 2007. E continuò a protestare sino a che, tre anni più tardi, il ministero degli Interni emanò una circolare – un ordine governativo – diretta ai capi tribali, in cui si riconosceva il diritto delle Soulaliyate a una parte dei profitti qualora la terra comune delle loro famiglie fosse venduta. I successi di Bellot e delle sue amiche si sono guadagnati l’attenzione internazionale. Di recente Michelle Bachelet, direttrice esecutiva dell’Agenzia Donne delle Nazioni Unite, in visita in Marocco, ha dedicato loro un discorso specifico: «Voi, le Soulaliyate, siete riuscite a mobilitare i media e l’opinione pubblica contro le violazioni dei vostri diritti. Mi congratulo con voi per l’ottenimento di riconoscimento ufficiale per i diritti delle donne».
Aziza Innouch e altre Soulaliyate dicono però che c’è ancora molto da fare. Numerose comunità hanno semplicemente ignorato la circolare del ministero degli Interni. Innouch dice che non starà zitta sino a che la sua storia non sarà udita e lei non riceverà la sua parte di terra. E’ in contatto con l’Associazione democratica delle donne marocchine e sta imparando le parole di cui ha bisogno per confrontarsi con il capo villaggio. Ha in programma di mettere in piedi un’associazione che riunisca le Soulaliyate locali per incontrare il Consiglio tribale e assicurare a esse i diritti ereditari.
Non ci sarà una vera soluzione al problema, dice Bellot, se non c’è la volontà politica del governo. Perciò sta chiedendo, con l’Addm, una legge nazionale che sarebbe ovviamente più rispettata della circolare ministeriale: la legge proposta dalle donne permetterebbe alle Soulaliyate di avere accesso egualitario alle proprietà comuni, garantirebbe loro il diritto di usare la propria parte delle stesse come preferiscono e il diritto a un adeguato compenso quando le terre sono vendute. Rkia Bellot assicura che non si fermerà sino a che il governo non agirà nel modo giusto, ma dice anche che vede segnali di speranza: uno di essi riguarda la piccola comunità di Ain Chefak, giusto fuori Fez. Il gruppo ha deciso in proprio, dopo le proteste delle Soulaliyate locali, di rendere più equa la vita nel villaggio e non usa più le leggi tribali.
E cosa ha condotto le donne di Ain Chefak a chiedere diritti sulla propria terra? «Avevamo sentito la storia di Rkia Bellot».
BREVE NOTA
Le traduzioni di Maria G. Di Rienzo sono riprese – come i suoi articoli – dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/ – Il suo ultimo libro è “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo”: una mia recensione è qui Voci dalla rete alla data 2 luglio 2011. (db)