La lotta di classe del sistema immunitario
di Gianluca Ricciato
Per essere lì alle otto devo mettere la sveglia almeno alle sei meno un quarto.
E mi deve andare bene che la metro deve passare entro dieci minuti, cosa che spesso non succede. Allora per non rischiare decido di non fare colazione a casa, di iniziare a cornetti e farine bianche già dalle sei di mattina.
Il bar sotto casa è aperto acca ventiquattro, come si dice, e non è un modo di dire. Si passano la staffetta ragazze varie, un tipo albanese, barman locali maschi dal carattere diffidente. Mi hanno visto un po’ tutti, a tutte le ore. D’estate spesso arriva la polizia alle tre di notte e fa un gran casino, la sento chiaramente dalle finestre aperte del quarto piano che affacciano sulla pensilina del bar. Ha l’insegna a luci rosse non a caso, ha accanto un finto bingo che funziona da ricettacolo di magnaccia e altra gente losca – alle dieci di mattina vedi uscire dalla porta stangone biondo platino impellicciate che vengono appunto a fare colazione al bar – e poi ha una sala videopoker nascosta da una tendina nera che dovrebbe coprire le malefatte che si compiono là dentro.
Mentre mangio la treccia ai cereali e pera, atto inaugurale della mia giornata fatta di fiorellini messi intorno alle gabbie per sopravvivere, la ragazza dietro al bancone si lamenta delle zingare nella metro. Con il collega albanese. Chiudo gli occhi e addento l’ultimo morso di treccina digrignando i denti. Hanno appena attaccato tutt’e due dandosi il cambio con gli altri due che nel frattempo stanno ancora in giro nel locale sfumacchiando e raccogliendo i cocci della notte.
Eppure serve a svegliarmi, più della colazione sana che avrei dovuto prepararmi in otto minuti a casa. Sì mi potevo anche svegliare alle cinque e fare colazione con calma, ma considerando che ho messo la testa sul cuscino alle due per finire di preparare la lezione, già così è un mezzo suicidio. E non avevo alternative, dovevo studiare e poi una volta ripetute le cose che non leggevo dagli anni universitari, c’è quella parte di me che non si ferma e vuole capire come non diventare l’automa che entra in classe e spiega cose pallose di cui non frega niente a nessuno, e che inizieranno a odiare. E allora metà del tempo se ne va a inventare strategie educative per farli appassionare, video, canzoni, giochi di gruppo e boutades varie. Del resto l’unico momento bello della mia giornata è quando entro in classe, chiudo la porta e sto con loro, mandando affanculo tutti gli adulti zombi come me con cui devo interfacciarmi tutto il giorno. Con loro ritorno umano. L’unico momento bello della mia giornata, anzi della mia vita in questo periodo.
Intorno alla gabbia maleodorante del mio quartiere che pure sarebbe un quartiere bene, c’è il parco che attraverso subito dopo colazione per arrivare in metro. Ci passo alle sei e un quarto con i lampioni ancora accesi e l’aurora che innesca la luce nell’emisfero boreale in cui mi trovo. Mentre lo attraverso penso sempre di essere altrove. Come quando a fine giornata mi capita di scendere nel negozio-taverna accanto al parco, prima di tornare a casa. Anzi mi butto con una pietra al collo in quella taverna seminterrata, faccio il giro delle quattro pareti dove stanno i vini indigeni di tutta Italia, alla fine prendo sempre gli stessi con i massimo cinque-sei euri che posso spendere, o il mio Negramaro, o un Teroldego, o qualcosa del centro Italia. Poi guardo i prodotti locali italiani a prezzi da boutique che non mi posso permettere, e finisco con il prendermi un pacco di pasta o un farro monococco o una cicerchia marchigiana, nella speranza che questo possa servire a qualcosa, che possa aiutarmi.
Ma questo la sera, intorno alle sette, quando sono tornato da una riunione pomeridiana, oppure quando dopo le lezioni di mattina e lo studio pomeridiano sono costretto a uscire in quartiere a procacciarmi la sopravvivenza, che in realtà di solito si riduce a pizzette.
Pizzette, tante pizzette, cornetti, pane. Farine bianche come se piovesse, anzi nevicasse. Buone, per carità, fiorellini nella pancia della mia giornata.
E manca ancora tanto, troppo, mancano tredici o quattordici ore al momento in cui potrò entrare nella tavernetta e sperare di trovare l’aperitivo con un pezzo di formaggio e un assaggio di rosso italiano che forse elemosinerò, se mi andrà bene.
Il parco è finito, sono le sei e ventotto, tardi, tardissimo.
La piazzetta quadrata sei piani sotto la quale passano le rotaie dei treni metropolitani, è piena di pezzi di cadaveri di biciclette rotte. Sono le bici del servizio comunale che dovevano dare la svolta alla mobilità sostenibile, cosa che nelle campagne elettorali funziona sempre da qualche anno a questa parte. Il greenwashing che attiva pensieri buoni nel cervello degli automi.
Iniziano le scale mobili, una rampa, il check-point attraverso i due ventenni in mimetica, mandati qui in città dopo il Bataclan, ad ogni angolo di ogni entrata di mezzo pubblico, per la pubblica quiete terrorista. La seconda rampa, la terza, la quarta. La prima volta che ho fatto questa discesa negli inferi mi sono sentito male, pensavo che fosse uno scherzo. Invece era vero, l’hanno fatta davvero là sotto, e hanno costruito davvero questi inutili anfiteatri di cemento su questa nuova linea, con cinque entrate sullo stesso marciapiede. E i milioni di euro spesi per questo.
Inizio anche io a camminare sulle scale mobili, come un riflesso condizionato che segue altre persone che mi sfrecciano accanto. Quando arrivo al piano infernale della metro, vedo il treno che sta per chiudere le porte, ci sono circa cinquanta metri in rettilineo da fare, anche percorrendoli in dieci secondi non ce la farei. La frittata è fatta. Iniziano i cinque, o dieci, o venti, o venticinque minuti più drammatici della giornata.
Chissà perché molti di quelli che parlano dei sistemi immunitari parlano quasi sempre e solo dei cibi, e dell’aria, e delle sigarette, e delle medicine. E non parlano mai della vita di merda che ammazza il sistema immunitario e le persone che ci stanno dentro. La vita di merda con cui un sistema politico impazzito sta succhiando il sangue delle persone, senza più nemmeno la lontana possibilità di una lotta di classe. Anche perché oggi, chi parla di lotta di classe, dovrebbe parlare di queste cose, e non è possibile. I compagni stanno ballando sui tavoli, stanno offrendo da bere a tutti. O forse sono morti, coma etilico.
Sul binario a occhio e croce saremo già una trentina, tra chi non è riuscito fisicamente ad entrare nel treno e chi come me lo ha perso per un soffio. Le poche panchine utilizzabili sono già occupate. Poi ci sono le finte panchine, delle installazioni grigie e plasticose ad altezza culo dell’italiano medio, con il sedile ripiegato in avanti, su cui non ti puoi sedere. Sembrano strumenti di tortura fatti appositamente. Qualcuno tempo fa sui social maledisse i migliori morti del professionista aguzzino che le aveva inventate, e ci fece ridere tanto.
Inizio a capire cosa mi sta ossessionando da qualche minuto: l’audio degli schermi diffusi su tutto il binario. Saranno almeno quattro, uno ogni dieci metri. Ce li ho lì sulla destra a pochi passi. Non me ne accorgo più nemmeno perché quello che dicono quelle televisioni, quelle musichette, quei riff ossessivi ormai funzionano in maniera subliminale nel mio cervello, entrano senza che io possa averne percezione. Allora faccio uno sforzo di volontà, li noto. C’è un cretino attore de sinistra che fa il finto controllore, e aizza la massa a odiare il trasgressore. L’avranno pagato decine di migliaia di euri per fare questa fine, il poveretto. Poi c’è la scuola di inglese con il manager di successo che la promuove. E poi iniziano le pubblicità di medicinali. Sono la cosa più ossessiva che mi paralizza. Medicine contro il raffreddore. Contro l’influenza. Contro l’umore alterato della donna. Contro il reflusso esofageo. Contro la vita di merda che siamo costretti a fare. Di solito si susseguono, una dietro l’altra. Bayer, Sanofi, Angelini. Come cani ringhiosi che si azzannano, con il volume sempre più alto rispetto alla precedente, con la scoperta della scienza sempre più avanzata, che risolverà i problemi. Della mia vita di merda.
Sono passati quindici minuti dal mio arrivo. L’altoparlante dieci minuti fa aveva annunciato l’arrivo entro cinque minuti. La tensione e l’odio sociale sono alle stelle. Ci potremmo azzannare e ammazzare in qualsiasi momento, per qualsiasi cosa. Le persone iniziano ad avere tic nervosi, sempre più evidenti. Io mi allontano dalla banchina e ritorno verso il corridoio da cui sono venuto, un distesa grigia e vuota di plastica e cemento, dove non ha senso andare. Allora torno sulla banchina e vado a guardare il quadro con la mappa di tutta la città, cerco nomi di posti che non ho ancora visitato, sogno di trovare tempo nel weekend per farci un salto, anche se difficilmente succederà, visto che lavoro anche sabato e dopo crollerò distrutto a dormire e magari sabato sera cercherò di raggiungere a fatica qualcuno per mantenere uno straccio di vita sociale.
L’arrivo della metro è drammatico, dopo venti minuti. Almeno per dieci fermate sono schiacciato tra corpi che non conosco. Poi, dopo la fermata della stazione, il treno si libera di almeno la metà delle persone. Sono ancora a metà del viaggio di un’ora abbondante che mi porterà in classe, tra metro e altri mezzi di fortuna per raggiungere la sede.
Passa la zingara con l’infante in braccio che recita la cantilena solita imparata a memoria. Mi infastidisce proprio perché ne ha appena parlato la ragazza del bar. Come se fosse un destino. Mi dico che no, non è un destino vivere come automi ringhiosi, almeno per un momento. Le do proprio i cinquanta centesimi di resto che mi aveva dato la ragazza al bar. Accanto a me si siede un giovane locale che mi dice, letteralmente, che quella la conosce, sa da quale campo viene, che lei ha più soldi di me.
Gli rispondo che forse so meglio di lui da dove viene lei, e perché sta qua, e chi ce l’ha mandata, e con quali minacce. Gli parlo sereno ma fermo, e questo lo impaurisce come un insegnante che ti spiega una cosa che non sai. Non se lo aspettava perché non ho l’aspetto di un insegnante.
Non faccio la scenata che farebbero certi militonti, lo so che è una guerra tra automi disperati.
Il quartierino in salita subito fuori dalla metro è delizioso. Potessi viverci finirebbe parte del mio calvario. Ma non posso lasciare il rifugio di fortuna gentilmente offertomi a prezzo popolare da un amico. Il contratto del lavoro dura pochi mesi, potrei ritrovarmi a pagare inutilmente un affitto improponibile per un lavoro che non ho più in una zona in cui non ho più niente da fare.
Mi rullo la seconda sigaretta della giornata, appena uscito dalla metro. La prima l’ho fumata mentre attraversavo l’aurora boreale del parchetto, dopo colazione. Io che per anni ero riuscito a fumare solo qualche sigaretta di sera.
Ma il baccano adolescenziale a cui mi avvicino mi inebria e mi emoziona, non ce la faccio ad arrivarci senza almeno fumarmi un’altra sigaretta prima di entrare in classe. E dopo tutto quello che ho passato nei minuti precedenti, nelle ore precedenti, nelle giornate precedenti e nei mesi precedenti.
Tutto questo non può durare, sto per esplodere, stiamo per esplodere. Non può durare a lungo questo orrore nazicapitalista globale che facciamo finta di chiamare ancora democrazia, qualcosa si dovrà rompere prima o poi. O semplicemente si è già rotto e presto ce ne accorgeremo. In questa situazione possono farci desiderare qualsiasi cosa, perfino il confinamento e i trattamenti sanitari obbligatori, con la promessa di un’ora d’aria da questa vita di merda. E allora diventerà tutto più chiaro.
Firmo e scappo via dalla stanza dove ci sono altri adulti. Non mi trattiene nemmeno la tipetta fascinosa napoletanofona con cui ci scambiamo da settimane sorrisetti e mezze parole. Nemmeno questo riesco a fare, l’unica cosa che forse adesso mi salverebbe. Un po’ di sesso, un po’ di amore.
Sono le otto e un quarto. Entro in classe, chiudo la porta alle mie spalle e mando affanculo tutto questo.
Mando affanculo questo decennio.