La Messia fa chiarezza

di Maria G. Di Rienzo

Quando sono invitata a tenere conferenze relative alla «spiritualità della dea» (parole che uso come un contenitore per un argomento che comprende elementi di antropologia, storia, storia delle religioni, archeologia, sociologia, mitologia, folklore, politica, economia…) dopo i saluti, le presentazioni e i ringraziamenti, di solito esordisco con una frase del genere: «»Da questo momento in poi vi racconterò quel che si sa, non quello che io o altri ci immaginiamo, vorremmo, o speriamo. Per quel che si sa, intendo ciò che è stato scientificamente verificato e per cui esistono riscontri concreti come documenti, reperti o siti di scavo. Per quel che riguarda gli immancabili punti controversi o dubbi, nominerò le diverse ipotesi ragionevolmente attendibili che sono state fatte sino a ora». So che può sembrare “algido” come approccio ma ritengo sia l’unico corretto: nessuno di noi ha la verità in tasca e io personalmente non desidero vendere frottole.

Le donne, e tutte le questioni rubricate come “femminili”, sono invece buon materiale da vendere e su cui costruire la propria carriera e il proprio benessere, per non parlare della gonfiatura del proprio ego, per una quasi infinita serie di “professionisti”. Siano essi i pubblicitari che usano seni e natiche femminili per qualsiasi cosa, dalle gomme da neve al contratto telefonico, o gli esperti commentatori dei quotidiani e delle televisioni, nessuno di loro – giacché la priorità è vendere velocemente, il prodotto o se stesso/a come prodotto – si prende la briga di interrogare quel che fa, controllare quel che fa, indagare le origini di quel che fa, verificare gli effetti di quel che fa… e finisce naturalmente per proporre modelli e letture della realtà che definire idioti è un complimento, e definire devastanti è solo esatto. Qualunque sia il guru o il libro sacro che si sono scelti (l’ampio spettro va dal Mago Zurlì al Manuale del Perfetto Truffatore, passando per qualsiasi nome noto o testo rivelatore vi venga in mente) ne ripetono a pappagallo la lezioncina in toni altisonanti e definitivi: adesso ti spiego la vita, baby ignorante, non per niente ho una laurea o ho fatto il workshop con Fabrizio Corona.

Gli psicologi da giornale, purtroppo, si segnalano sovente per questa attitudine. Stamane ne ho letta una che avuto l’effetto di una permanente o di un elettroshock sui miei poveri capelli. Costei, sulle pagine di un quotidiano d’indagine assai fiero e indipendente (e che si è già segnalato per l’allegra pubblicazione di sfoghi misogini dei suoi sedicenti opinionisti), stanca di essere insultata come femminista – per carità, ma ne conoscete qualcuna, voi che bollate così questa poverina? – si rimbocca le maniche e dichiara che adesso farà «chiarezza sul rapporto uomo donna» . (Le virgolette indicano citazioni letterali.) E perdio, sono millenni che aspettavamo la Messia, benvenuta! Allora, dovete sapere che «nella nostra testa, così come nel mondo vigono delle antinomie. Cosa sono? il bianco e il nero, il freddo e il caldo, l’uomo e la donna. I contrari si attraggono (…) perché in effetti c’è un principio psichico che porta a unire in modo armonioso i contrari. Questo deve accadere anche per il concetto di uomo e donna».

Ahimè, questa storia non è la prima volta che la sento e sarà solo la settecentotrentaquattresima volta che la rifiuto. Non perché io sono una femminista, al contrario della psicologa, ma perché è insensato definire “contrari” membri della medesima specie, nei cui corpi gli organi definiti simili lo sono a tal punto da essere identici, indistinguibili per sesso a meno di effettuare su di essi una ricerca a livello cellulare. La polarizzazione che mette uomini e donne su punti diametralmente opposti e il pensiero binario conseguente (o/o) servono da millenni a formare gerarchie arbitrarie, a mantenere desiderabili e apprezzate socialmente alcune caratteristiche umane (designate a capocchia come maschili) e a disprezzarne altre (guarda un po’, quelle designate parimenti a capocchia come femminili) e servono anche a legittimare la violenza, che è esattamente o/o (bianco e nero, noi e loro, vinco io o vince lei/lui, lo prendo io o lo prendono gli altri/le altre) e non prevede l’approccio di pensiero e/e, il riconoscimento dell’altro/a come uguale essere umano, la mediazione, la relazione. Non me la menate con l’armoniosa unione degli opposti – dovremmo «abdicare al nostro io», «perderci nell’altro», cinguetta la psicologa – perché avere una relazione è dialogare, non fondersi. Ho visto abbastanza coppie sfasciarsi perché aspiravano a diventare un ibrido di due persone, e ho visto invece resistere a difficoltà incredibili coppie il cui rispetto reciproco prevedeva spazi, desideri, attività personali e soprattutto, prevedeva di non incasellare tali spazi e desideri nella scatolina rosa o nella scatolina blu. Perché lo ha già spiegato Margaret Mead settant’anni fa (e io non vi racconterò di nuovo tutta la storia, se siete curiose/i leggetevi «Sesso e Temperamento»): «Se quegli elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili – come la passività, la sensibilità, la propensione a curarsi dei bambini – possono facilmente in una tribù entrare a far parte del carattere maschile, e in un’altra tribù essere invece esclusi sia dal carattere maschile sia da quello femminile (…) viene a mancarci ogni fondamento per giudicarli legati al sesso. (…) La mia ipotesi è che certi caratteri umani siano stati scelti dalla società come manifestazioni specifiche delle attitudini e del comportamento di un sesso, e altri caratteri siano stati scelti, invece, come manifestazioni specifiche dell’altro sesso. Questa specializzazione sociale si razionalizza poi in una teoria, secondo la quale il comportamento fissato dalla società è naturale per un sesso e innaturale per l’altro, e l’individuo aberrante deve la sua aberrazione a un difetto ghiandolare o un’alterazione accidentale dello sviluppo».

La lezioncina della psicologa continua invece così: «Ognuno di noi ha una controparte sessuale interiorizzata. Gli uomini hanno l’Anima, le donne l’Animus da non confondere con i concetti cattolici». Fate attenzione: non dice «La teoria di Jung è che ognuno di noi…», dice che è verità rivelata, assoluta, è così e basta. Il guru a suo tempo parlò, e la discepola ripete oggi. Jung è quello stesso signore che dopo aver passato anni a concettualizzare l’o/o (l’uomo è il sole, la donna è la luna, l’uomo viaggia come Ulisse, la donna aspetta come Penelope…) si accorse che nella sua lingua, il tedesco, la parola Sole era femminile (Die Sonne) e ciò contraddiceva la sua teoria. In maniera molto scientifica, concluse che la lingua era sbagliata. E questo atteggiamento lo ripetono pari pari i suoi discendenti. Seduta dell’American Psychological Association, dove le diagnosi vengono elaborate su voto di maggioranza, e già questo la dice lunga sulla veridicità scientifica dei risultati: si discute un criterio relativo alla «sindrome della personalità masochista». La dottoressa Janet Williams: «Capita anche a me, a volte». Suo marito, il dottor Bob Spitzer: «Ok, allora togliamolo». (testimonianza diretta di Lynne Rosewater, riportata da Susan Faludi). Vi ricordate cos’ho scritto all’inizio? Vi racconterò quel che si sa, non quello che io o altri ci immaginiamo, vorremmo, o speriamo. E’ troppo chiederlo anche per la psicologia? Solo un’idea, la butto là.

E tuttavia devo invece chiederlo fermamente per la Storia, soprattutto quando chi ne parla, come la nostra esperta da quotidiano, non ne conosce granché: «Un tempo vigeva il matriarcato e il re Paredro, un giovinetto di solito, che veniva ucciso con rituali sacrificali; poi l’uomo si rese conto che Gea, la madre terra non si auto fecondava, sono arrivati gli indoeuropei e si sono inventati che Atena, la vecchia Sòfia, la saggezza, fosse nata per partenogenesi da Zeus». Il periodo zoppica un po’, ma il senso non cammina neppure. L’amena storiella sintetizzata non ha prove che un tempo vigesse il matriarcato e che la sua caratteristica principale fosse l’immolazione di giovinetti. L’unico riferimento che abbiamo è il “re del bosco” di Nemi sacro a Diana, ucciso ritualmente dal suo successore (e non dalle Matriarche Maligne) in Ovidio, Virgilio, Svetonio e poi Frazer, ma tutti questi autori sono ben lungi dal situarsi nella preistoria. E’ vero invece che le società umane originarie, o meglio le più antiche per quanto ne sappiamo sino a ora, erano matriste o matrifocali. Attribuivano cioè un grande valore alle madri e consideravano più o meno il pianeta una dea vivente in continua trasformazione. Figlie e figli di questa Grande Madre erano parimenti sacri, e le attività di donne e uomini nient’affatto segnate dall’o/o di questo è Anima e questo è Animus. Abbiamo anche sentore che molte di tali società sapessero perfettamente che Gea doveva collaborare con Geo per restare incinta, e che ciò fosse irrilevante per il rispetto portato a colei che poi effettivamente dava alla luce nuova vita. Perché lo dico? Perché alcune di esse sono sopravvissute, com’è ovvio mutando nel tempo alcuni costumi e credenze, ma mantenendo l’assetto paritario che vuole uomini e donne uguali compagni e i loro comportamenti non decisi alla nascita dal loro sesso. Anche qui non vi ripeterò cose che ho già detto e stra-detto, ma se volete un esempio potete leggere questo: http://lunanuvola.wordpress.com/2011/11/03/poesia-sociale/

Inoltre: Atena non è la buona “vecchia Sofia”, la precede. Atena fu importata in Grecia assieme a Metis e Medusa (il suo aspetto di Anziana nella consueta triade divina femminile) dalla Libia. Si chiamava Neith, Anath, Athene, Ath-enna nelle regioni del Nord Africa, Athana nella Creta minoica del 1.400 avanti Cristo. Il mito ateniese ha frammentato e ridotto quest’originaria Dea Triplice ricreandola come Atena, la patrona della propria città. «Nel 7° secolo, attraverso questa operazione, i Greci si separano dalla loro antiche radici che affondavano in una cultura matrifocale». Lo sto sostenendo io? No, lo sostiene la storica Alicia Le Van nel suo corso Women in Antiquity a Cambridge, tanto per citare con nome e cognome una di quegli studiosi che la psicologa evoca con «studi di prestigiosi mitologi e storici della religione» dando però l’impressione di non conoscerne nessuno. Potrei imitarla ed inserire al termine di questo testo un elenco delle letture consigliate per il “rapporto uomo donna”, di cui alla fine non ci ha detto nulla di sensato e di nuovo (a dire il vero il suo non è un elenco, suggerisce solo Emma Jung, io preferisco Anne Kent Rush, Vicki Noble, Riane Eisler, Marija Gimbutas, Margaret Mead, Evelyn Fox Keller, Vandana Shiva, Adriana Cavarero, Joyce Lussu, Luce Irigaray eccetera) ma non lo farò. Sono d’accordo con Diotima quando dice: «Chi non avverte di essere in difetto non aspira a ciò di cui crede di non aver bisogno». (Platone, Simposio) Qualcuno che non sa, se riconosce di non sapere, può migliorare. Per un’ignoranza arrogante che si spinge a equiparare femminismo e maschilismo come due facce della stessa medaglia e due attitudini speculari, per cui il femminismo sarebbe l’aizzare «misandria arcaica», temo il miglioramento sia impossibile. Esimia esperta, il femminismo è un movimento politico con secoli di storia, non un frizzo da maleducate o «involute», come dice lei. E mentre lottava perché donne come lei potessero studiare, esercitare professioni, possedere sostanze proprie prive di supervisione e controllo da parte di membri maschi della famiglia, avere diritti di cittadinanza e diritti umani, ha prodotto tonnellate di «studi prestigiosi» che purtroppo non sono arrivati alla sua scrivania quando studiava psicologia. Nessun male: provi a prendere un master in Women’s Studies, se il giornale la paga proporzionalmente alle sciocchezze che dice dovrebbe riuscirci senza incorrere in difficoltà finanziarie.

Amaterasu, la compassionevole, sta effettivamente qui per ispirare un po’ di compassione verso gli individui dal fioco lume

UNA BREVE NOTA

Gli articoli di Maria G. Di Rienzo sono ripresi – come le sue traduzioni – dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/.  Il suo ultimo libro è “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo: una mia recensione è qui alla data 2 luglio 2011. (db)

 

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