La metafora della guerra
di Gianluca Ricciato
Aprile 2020. Siamo in cattività. Costrette e costretti a casa e con una marea di relazioni e comunicazioni mediate e non dirette. Quelle dirette, i rapporti in carne e ossa con familiari o conviventi risentono di questa cattività. Ci troviamo bloccate e bloccati dove eravamo nel momento in cui non abbiamo più potuto circolare. Magari per molti di noi sarebbe stato diverso 6 mesi o un anno fa, diversissimo.
Siamo bombardati. E non uso a caso questo termine: siamo assediati, minacciati, terrorizzati, attaccati (volgetele anche al femminile).
Tutte queste espressioni fanno parte di una macro-espressione che si fonda su un grande concetto metaforico: la discussione è una guerra. Accanto a questa grande metafora, che sottende alla comunicazione soprattutto in questi giorni, ne abbiamo un’altra: la malattia è una guerra.
Ora, io dico queste cose perché le ho studiate. Ma qualcuno potrebbe dirmi anche che sono cazzate. E io potrei rispondergli: “ma io non posso parlare con uno che non ha la minima nozione di linguistica strutturale”. E ricominciare la guerra. Ma non serve a niente e il fatto che le abbia studiate non significa automaticamente che siano vere, significa che una collettività ha pagato le tasse per provare a tenere in piedi una struttura per farmi imparare e farmi fare qualcosa di utile per me e per la società.
Non darmi le chiavi per un sapere assoluto su cui ho diritto di parola solo io.
Siamo in cattività. Se analizziamo il linguaggio quotidiano dei media è un linguaggio letteralmente terroristico: notate quante volte i termini legati ai concetti metaforici della guerra vengono usati.
Molte persone, anche provenienti dalle zone più colpite (un’altra metafora bellica), hanno chiesto di non declinare la malattia in termini di guerra. Perché come tutte le questioni linguistiche, non sono solo parole, ma sono la punta dell’iceberg di pensieri e di cose: lo stato di guerra sospende la democrazia, permette la militarizzazione dei territori, concede statuti speciali, reprime ogni parola che dissente, anche quando si basa su legittimi dubbi e non dà risposte ma pone domande.
Non è detto che lo sia, ma può diventare l’arma (appunto) principale di qualcuno che vuole imporre un pensiero. Droga le relazioni tra le persone, rende invivibile la vita.
In questo momento si dovrebbe collaborare a risolvere i problemi più urgenti, partendo soprattutto da chi questi problemi li ha, cioè un particolare territorio italiano. Ma si sono creati collateralmente altri problemi grossi: a Torino ad esempio i vigili urbani denunciano un aumento spropositato di TSO, a Trento si è imposto d’urgenza l’allontanamento da casa di chi usa violenza domestica (cosa giusta ma mai fatta fino ad ora perché lo stato di pericolo di violenza domestica attuale è amplificato ovviamente), e la situazione psicologica della popolazione rischia di diventare esplosiva.
Siamo in cattività, sottoposti anche contro la nostra volontà alla televisione e alla lettura “ufficiale” della realtà, ma abbiamo la rete. La logica della rete è diversa dalla televisione: può essere costruttiva o distruttiva, può tessere relazioni o seminare odio. Ma in questo momento è diverso: per quanto difficile staccarsi, fino a ieri si poteva mandare a quel paese tutto e andare a farsi una passeggiata, chi in città, chi in campagna, chi al mare, chi in collina, in montagna. Ora, e tutti/e speriamo per quanto meno tempo possibile, no.
Questo significa che è tutto amplificato perché è imposto h24, o autoimposto, o enormemente indotto. Non sempre è facile fermarsi e guardarsi dentro, fare cose costruttive ed edificanti, dipende anche dalla situazione che si ha intorno, dai contesti. Questo significa che è facilissimo svegliarsi, aprire internet, leggere cose che ci fanno saltare i nervi e attaccare. Attaccare. Metafora della guerra.
E se invece della guerra usassimo la metafora della danza? Nel passo che riporto qui sotto (che è una parte della mia tesi di laurea Gli ordini simbolici di metafora e metonimia) ho raccontato queste riflessioni del famoso linguista George Lakoff, da un testo storico della neurolinguistica che è Metaphors we live by.
Non riesco a trovare soluzioni per il momento che stiamo vivendo, ma tradurrei questi pensieri nelle seguenti proposte: stiamo leggendo qualcosa che ci fa paura? Cerchiamo di capire il punto di vista di chi lo sta scrivendo. Stiamo leggendo tra le righe un meccanismo sociale diffuso e o una dinamica del potere che ci turba? Probabilmente non è la prima mossa che ci viene quella che lo contrasta. Vogliamo far passare dei messaggi? Abbiamo degli spazi, usiamoli cercando di “tenere in ordine la casa” (metafora della cura), non usiamoli per aggredire e nello stesso tempo cerchiamo di non cadere in provocazioni più o meno consapevoli, alimentando discussioni belliche tipo commenti provocatori sotto post altrui che non aumentano la comprensione e non aprono dialoghi costruttivi.
Ricordiamoci delle case degli altri, degli spazi pubblici virtuali che sono amplificatori delle parole, perché un conto è mandare affanculo una persona conosciuta in privato, un’altra mandare affanculo uno sconosciuto in un sito pubblico. Crediamo che la realtà virtuale sia l’unica realtà rimasta? Non è così, la realtà virtuale elide, come fanno le metafore, parti considerevoli di realtà: non usiamo la voce, non vediamo le espressioni, i corpi di chi sta esprimendo un’idea, abbiamo solo parole che rimandano a idee staccate dal contesto. Le persone, le vite, vengono prima delle idee, letteralmente.
Servirà a qualcosa tutto questo che sto scrivendo? Non lo so, in questo momento serviva a me. Il fatto che lo dica non vuol dire che lo sappia sempre fare, per questo mi serve dirmelo.
👉 La metafora, la guerra, la danza
🎯 «E se un giorno ci accorgessimo che la bottiglia non ha veramente un collo, il tavolo non ha le gambe su cui infilare i pantaloni, il sangue non circola ma segue traiettorie più complicate, che tutto il nostro linguaggio quotidiano si è appiattito su una serie di astrazioni e semplificazioni che ci fanno perdere il senso della realtà? Sapremmo scoprire dove si trova il meccanismo per uscirne fuori, per riconoscere il rapporto tra le parole e le cose? Cosa ha a che fare tutto questo con una materialità che scompare sempre di più, capacità relazionali comprese, e con un potere sempre più immateriale e apparentemente neutrale?»
A proposito di guerre
👉 Le donne in prima linea per chiedere la fine delle guerre
👉 Parole da casa: parole disarmate
Questo pezzo è una delle cose più intelligenti e interessanti che ho letto in questo periodo in cui “Siamo bombardati. E non uso a caso questo termine: siamo assediati, minacciati, terrorizzati, attaccati”.
Grazie del dissacrante contributo.
Grazie Chief Joseph!
ciao Gianluca, grazie per questo tuo contributo, vorrei pubblicarlo tutto o in parte nel libro che sto per dare alle stampe: Se canti non muori: oltre il virus, dentro la realtà, fammi sapere se sei d’accordo, Angelo Maddalena (forse mi conosci come autore della rubrica I lunedì dell’Angelo in bottega)
ho scritto un articolo su guerra e coronavirus , una ventina di giorni fa, il primo del genere, che avrete sicuramente letto da qualche parte.
L’avevo mandato tempestivamente a Daniele Barbieri ma non capisco per quale motivo non lo abbia subito pubblicato.
Avrebbe dovuto farlo tempestivamente! Comunque si intitola “La guerra”
di Antonia Sani. Lo potete trovare nella Lista di Lidia Menapace, in “IL Dialogo”,” Laicità news” e ,in pubblicazione, in “Italialaica”, oltre che su varie reti e fb. C’è stato un buon apprezzamento.
E’ molto importante che questo tipo di articoli si moltiplichino, in modo da far riflettere coloro, a partire da Trump, Mario Draghi, Mentana ,Arcuri… che usano impropriamente termini senza operare le dovute distinzioni.
Antonia Sani ha perfettamente ragione. Mi scuso con lei (e con molte altre persone che hanno inviato notizie, analisi, proposte anche molto interessanti). La piccola redazione della bottega ha deciso di mettere solo 5 – eccezionalmente 6 post – al giorno, cioè all’incirca uno ogni 4 ore; e la scelta non è facile… per tacere del kaos attuale. Abbiamo anche deciso di mantenere le nostre “rubriche” (il martedì fantascienza e dintorni, poesia sabato e domenica ecc) perchè non ci sembrava giusto farci colonizzare – anzi “coronizzare” – i pensieri dall’attuale fase che viene chiamata emergenza, anzi una “imprevedibile emergenza”: erroneamente, perchè viene da lontano e a lungo ci accompagnerà.
APPELLO PER UNA QUARANTENA CON UN PO’ DI SOLE
https://www.change.org/p/sergio-mattarella-appello-per-una-quarantena-con-un-po-di-sole
Nell’attuale condizione di isolamento sociale, molte famiglie e nuclei abitativi si trovano in particolari condizioni di disagio e difficoltà. La quarantena non è uguale per tutti: dopo tanti giorni, emergono le disparità fra chi vive in campagna o dispone di grandi spazi in casa e di un giardino, e chi invece deve condividere pochi metri quadrati.
I momenti all’esterno non sono per tutti un semplice desiderio di svago, ma possono risultare una necessità non solo fisica, ma anche per il mantenimento di una giusta armonia relazionale all’interno delle proprie dimore.
Tali disagi si acuiscono quando ci troviamo di fronte a famiglie con minori portatori di handicap, numerose e con figli piccoli. Tali fasce sociali sono già da più di venti giorni chiuse in casa, senza le possibilità che hanno gli adulti di uscire, anche solo per recarsi a fare la spesa.
Trascorrere del tempo all’aperto è importante per le nostre difese immunitarie, essenziali nella prevenzione ed eventuale lotta al virus, ed anche per mantenere il giusto equilibrio psicofisico necessario per affrontare questo lungo periodo di isolamento.
Come anche indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella “Strategia per l’attività fisica 2016-2025” e ribadito nel contesto epidemiologico attuale con un comunicato ufficiale(1), l’attività fisica è infatti un fattore determinante per la lotta al Coronavirus e, laddove le raccomandazioni locali o nazionali lo consentano, si raccomanda di realizzare 30 minuti di attività fisica giornaliera per gli adulti e un’ora al giorno per i bambini.
Nella maggior parte dei paesi europei, in situazione di lockdown, si permette comunque di portare fuori i figli ed andare a fare una passeggiata, una corsa o un giro in bici, nel rispetto delle norme e delle distanze ed evitando gli altri.
Anche alcune amministrazioni comunali, come quelle pugliesi di Bari(2) e Nardò(3), hanno provveduto ad aprire spazi e parchi pubblici per la fruizione da parte dei soli minori con Autismo e Adhd, accompagnati da un solo genitore e nel rispetto delle norme di sicurezza, assicurando l’assenza di assembramenti, ma non per il resto dei minori e della popolazione adulta.
Tenuta conto della normativa per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, e tenuto conto anche che, con il prolungamento delle misure previste, la ripresa delle attività sarà graduale e normata, chiediamo pertanto che:
Venga concesso a bambine, bambini e adolescenti la possibilità di uscire una volta al giorno all’aria aperta per una passeggiata nel raggio di un chilometro, un giro in bici o monopattino, tirare due calci a un pallone o anche solo sedere al sole, con l’accompagnamento dei genitori e sotto la loro responsabilità, evitando luoghi dove già si trovano altre persone e mantenendo distanze di sicurezza adeguate, senza interazioni con altri coetanei: il requisito imprescindibile dell’accompagnamento da parte dell’adulto serva da garanzia e funga anche da responsabilità legale, sottoposta ad eventuali sanzioni in caso di mancato rispetto;
Si permetta a tutte e tutti i cittadini maggiorenni, entro i 2 kilometri dall’abitazione, la possibilità di camminare, correre, fare un giro in bici, in forma rigorosamente individuale;
Si individuino da parte delle amministrazioni comunali dei luoghi all’aperto all’interno di boschetti, pinete, campi e parchi comunali e/o naturali dove consentire un accesso necessariamente contingentato per portatori di handicap e genitori con figli, dando opportunità alla popolazione di fruirne, sempre nell’assoluto rispetto delle norme statali e locali;
Si consideri fondamentale il fatto che il mancato rispetto di necessità fisiologiche vitali porti come ovvia conseguenza ad un aggravamento delle condizioni di salute generali, eventualità che aggraverebbe ulteriormente la già critica situazione del nostro sistema sanitario.
Condividiamo la convinzione della necessità che l’intera cittadinanza mantenga un atteggiamento responsabile e collaborativo ma, nello stesso tempo, ribadiamo fermamente la necessità di tenere conto delle richieste sopra esposte per rispondere in modo equilibrato all’emergenza sanitaria, individuando e comunicando correttamente quali sono i reali comportamenti pericolosi e quali invece diviene rischioso nel senso opposto vietare, in quanto portatori di benessere e salute.
Chiediamo alle autorità di considerare quanto richiesto per poter affrontare al meglio i sacrifici imposti e gestire con più calma la situazione per tutto il tempo che sarà necessario, e chiediamo quindi la concessione di corretti, seppur limitati e regolati, spazi di movimento per noi e per i nostri figli, nel rispetto delle regole costituzionali di autodeterminazione di cittadine e cittadini, e confidando nella maturità democratica e nella capacità di attenersi alle regole da parte della popolazione.
Ringraziando per l’attenzione, confidiamo in un riscontro e restiamo disponibili ad un confronto.
https://www.change.org/p/sergio-mattarella-appello-per-una-quarantena-con-un-po-di-sole
sono anch’io molto perplessa di fronte a quanto sta avvenendo di giorno in giorno. Si è fatto un gran parlare del “tutti a casa” mostrando immagini televisive idilliache di famigliole felici dell’eccezionale convivenza.
Ma prima di tutto , troppi sono gli esseri umani senza casa.
Troppe sono le famiglie che vivono malvolentieri insieme.
A Roma ci sono stati due gravissimi omicidi di cui non si è voluto parlare.
Liti furibonde tra le pareti domestiche, acuite dall’obbligo di convivenza.
Troppe sono le famiglie in difficoltà, senza lavoro, coi figli che devono
seguire le lezioni a distanza senza computer, senza spazi adeguati.
Lo svuotamento delle carceri,che ci pare un provvedimento umano,
riverserà nelle famiglie il carcerato libero che porterà uno sconvolgimento
nella vita familiare.
La violenza sulle donne tra le pareti domestiche inevitabili non sarà possibile evitarla.
Non ci possono essere possibilità per evitare tutto ciò?
Proprio oggi leggevo questo articolo scritto da un monaco della comunità di Bose, Guido Dotti, lo condivido con voi perchè molto in tema e visto dall’occhio di un Cristiano:
“Siamo in cura, non in guerra”
Per una nuova metafora del nostro oggi
No, non mi rassegno. Questa non è una guerra, noi non siamo in guerra.
Da quando la narrazione predominante della situazione italiana e mondiale di fronte alla pandemia ha assunto la terminologia della guerra – cioè da subito dopo il precipitare della situazione sanitaria in un determinato paese – cerco una metafora diversa che renda giustizia di quanto stiamo vivendo e soffrendo e che offra elementi di speranza e sentieri di senso per i giorni che ci attendono.
Il ricorso alla metafora bellica è stato evidenziato e criticato da alcuni commentatori, ma ha un fascino, un’immediatezza e un’efficacia che non è facile debellare (appunto). Ho letto con estremo interesse alcuni dei contributi – non numerosi, mi pare – apparsi in questi giorni: l’articolo di Daniele Cassandro (“Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore”) per Internazionale, la mini-inchiesta di Vita.it su “La viralità del linguaggio bellico”, l’intervento di Gianluca Briguglia nel suo blog su Il Post (“No, non è una guerra”) e l’ottimo lavoro di Marino Sinibaldi su Radio 3 che ha dedicato una puntata de “La lingua batte” proprio a questo tema, introducendo anche una possibile metafora alternativa: il “lessico della tenacia”. Le decine di artisti, studiosi, intellettuali, attori invitati a scegliere e illustrare una parola significativa in questo momento storico hanno fornito un preziosissimo vocabolario che spazia da “armonia” a “vicinanza”, ma fatico a trovarvi un termine che possa fungere anche da metafora per l’insieme della narrazione della realtà che ci troviamo a vivere.
Eppure, come dicevo da subito, non mi rassegno: non siamo in guerra!
Per storia personale, formazione e condizione di vita, conosco bene un crinale discriminante, quello tra lotta spirituale e guerra santa o giusta, lungo il quale è facile perdere l’equilibrio e cadere in una lettura di se stessi, delle proprie vicende e del corso della storia secondo il paradigma della guerra.
Ma allora, se non siamo in guerra, dove siamo? Siamo in cura!
Non solo i malati, ma il nostro pianeta, tutti noi non siamo in guerra ma siamo in cura. E la cura abbraccia – nonostante la distanza fisica che ci è attualmente richiesta – ogni aspetto della nostra esistenza, in questo tempo indeterminato della pandemia così come nel “dopo” che, proprio grazie alla cura, può già iniziare ora, anzi, è già iniziato.
Ora, sia la guerra che la cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (altra cosa dalla violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia anche… Poi però si nutrono di alimenti ben diversi. La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro… La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza…
Per questo tutti noi possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, del pianeta e di noi stessi con loro. Tutti, uomini e donne di ogni o di nessun credo, ciascuno per le sue capacità, competenze, principi ispiratori, forze fisiche e d’animo. Sono artefici di cura medici di base e ospedalieri, infermieri e personale paramedico, virologi e scienziati… Sono artefici di cura i governanti, gli amministratori pubblici, i servitori dello stato, della res publica e del bene comune… Sono artefici di cura i lavoratori e le lavoratrici nei servizi essenziali, gli psicologi, chi fa assistenza sociale, chi si impegna nelle organizzazioni di volontariato… Sono artefici di cura maestre e insegnanti, docenti e discenti, uomini e donne dell’arte e della cultura… Sono artefici di cura preti, vescovi e pastori, ministri dei vari culti e catechisti… Sono artefici di cura i genitori e i figli, gli amici del cuore e i vicini di casa… Sono artefici – e non solo oggetto – di cura i malati, i morenti, i più deboli, beni preziosi e fragili da “maneggiare con cura”, appunto: i poveri, i senza fissa dimora, gli immigrati e gli emarginati, i carcerati, le vittime delle violenze domestiche e delle guerre…
Per questo la consapevolezza di essere in cura – e non in guerra – è una condizione fondamentale anche per il “dopo”: il futuro sarà segnato da quanto saremo stati capaci di vivere in questi giorni più difficili, sarà determinato dalla nostra capacità di prevenzione e di cura, a cominciare dalla cura dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione. Se sappiamo e sapremo essere custodi della terra, la terra stessa si prenderà cura di noi e custodirà le condizioni indispensabili per la nostra vita.
Le guerre finiscono – anche se poi riprendono non appena si ritrovano le risorse necessarie – la cura invece non finisce mai. Se infatti esistono malattie (per ora) inguaribili, non esistono né mai esisteranno persone incurabili.
Davvero, noi non siamo in guerra, siamo in cura!
Curiamoci insieme.
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L’unico punto sul quale dissento in questa molto ben articolata analisi è il seguente:
“Sono artefici di cura i governanti, gli amministratori pubblici…..”
Che ritengo invece funzionali a mantenere lo stato di guerra!!!