La mia gente, i Tuaregh
Recensione a «Il deserto negli occhi» di Elisa Cozzarini e Ibrahim Kane Annour (*)
di Alberto Melandri
«La mia gente, nomade per natura, discende da popolazioni berbere del Nord Africa. Oggi vive sparsa in Niger, Mali, Algeria, Libia, Burkina Faso, Ciad, racchiusa tra confini tracciati in epoca coloniale, e pian piano sta diventando stanziale, perché sopravvivere nel deserto è sempre più difficile». Con queste parole Ibrahim K. Annour traccia un brevissimo profilo del suo popolo, i Tuaregh all’inizio del suo libro, scritto con passione e lucidità e accompagnato in questo percorso di scrittura dalla competenza e dalla sensibilità di Elisa Cozzarini,
Ibrahim, nato in Niger e residente attualmente a Pordenone, dove vive la più numerosa comunità Tuaregh d’Italia, racconta la storia della sua vita, dividendola in tre sezioni: «Infanzia nel deserto», «Con gli occhi degli altri» e «Lontano da casa».
Il deserto è il protagonista con la sua presenza nella prima parte del testo, dall’oasi verde di Azzel, dove Ibrahim ha trascorso la sua prima infanzia, ascoltando le storie di nonna Fatimata, ad Arlit, la città nuova nata intorno a una centrale di uranio a cielo aperto, dove ha lavorato suo padre, con il suo quartiere dove vivevano, in un mondo a parte, i tubab, i bianchi, ad Agadez, la città che, quando Ibrahim ci fu mandato per studiare alle scuole superiori, non era ancora quel “crocevia delle migrazioni disperate per l’Europa” che è diventata attualmente.
Il deserto, associato a una idea profonda di libertà, è centrale anche nella seconda sezione. Il suo titolo «Con gli occhi degli altri» ha un doppio significato: il primo è relativo a un punto di vista diverso che Ibrahim scopre quando comincia ad accompagnare i primi europei come guida nelle sue terre: «I tubab scoprivano il deserto e io, assieme a loro, vedevo ogni cosa con altri occhi, mi rendevo conto che vivevamo in povertà, abbandonati a noi stessi»; il secondo punto di vista nuovo sul mondo inizia quando Ibrahim arriva per la prima volta in Italia e la descrive con un tipico effetto di straniamento: «Suonavi un bottone e qualcuno apriva la porta. Entravi in una scatola d’acciaio e salivi al quinto piano, senza muoverti». Sono gli anni della rivolta tuaregh nel Niger, durante la quale il padre di Ibrahim ha conosciuto il carcere e la tortura, mentre le sofferenze del loro popolo erano ignorate dalla stampa italiana.
Nella terza parte «Lontano da casa» Ibrahim racconta della sua partenza per l’Italia, nel 2007, per sfuggire alla repressione che lo stava ormai braccando. Lui fugge, lasciando la sua famiglia, sua moglie e i suoi quattro figli nel Niger, ma con la speranza di portare anche loro a ricongiungersi con lui. Arriva a Pordenone, fa un corso da saldocarpentiere, trova lavori precari, ma finalmente nel 2008 gli viene riconosciuta la condizione di rifugiato e quindi da allora fa di tutto per fare arrivare la moglie Maria e i quattro figli in Italia, il che avviene nel 2010. Da allora la sua vita, anzi sarebbe meglio dire la loro vita, è cambiata, pur fra le difficoltà quotidiane, aggravate dalla crisi economica che ha colpito anche il Nordest italiano. Ibrahim continua a sognare il Sahara e per quanto riguarda i suoi figli dice: «Voglio solo che non dimentichino la loro lingua e la terra dove sono nati. Per il resto, potranno sposare chi vorranno e scegliere la loro strada. Liberi».
(*) «Il deserto negli occhi» è stato pubblicato, nel 2013, da Nuova dimensione di Portogruaro.