La natura si vendica
di Giorgio Nebbia (*)
Se c’è qualcosa nel pianeta che rassomiglia a un paradiso terrestre questo è probabilmente l’Amazzonia, il bacino idrografico del Rio delle Amazzoni nell’America meridionale. Guardate una carta di questa parte del continente americano e vedrete un gigantesco triangolo che appoggia la sua base, circa 3.000 chilometri, sulle montagne delle Ande, dalla Colombia all’Ecuador al Perù alla Bolivia; l’immaginario triangolo si restringe a mano a mano che si procede ad oriente, coprendo il Brasile, fino al vertice, dove il Rio delle Amazzoni raggiunge l’Oceano Atlantico con un vasto estuario a sua volta largo 200 chilometri.
In questa specie di triangolo, di circa 7 milioni di chilometri quadrati, ci sono tutte le ricchezze immaginabili; innanzitutto un flusso di acqua di 170.000 metri cubi al secondo (cento volte quello del Po). E poi un patrimonio di biodiversità che comprende innumerevoli specie di vegetali e di animali, e una popolazione che va dagli ultimi individui delle comunità native, con diverse etnie e lingue, sino ai figli degli incroci fra i nativi e coloro che hanno invaso, per cinquecento anni, questo paradiso.
L’affascinante descrizione di questo territorio è offerta dal libro: «L’Amazzonia e la foresta» (Jaca Book editore) di Teresa Isenburg, docente di Geografia nell’università di Milano. Tanto per cominciare, la ricchezza di acqua ha spinto i governi e le imprese a costruire dighe e centrali idroelettriche con opere che hanno comportato l’allagamento di vaste zone di foresta a monte delle dighe e la migrazione forzata di molte popolazioni. La foresta tropicale dell’Amazzonia è uno degli ecosistemi più importanti del pianeta; la sua massa vegetale assorbe continuamente l’anidride carbonica dall’aria e libera ossigeno, un vero polmone per la vita e il clima del pianeta.
Fra i tesori della grande foresta uno dei primi sfruttati su vasta scala è stato la gomma, il materiale elastico che si separa dal succo che esce dalle incisioni praticate sulla corteccia degli alberi della specie Hevea brasiliensis. Rimasta come curiosità fino alla metà dell’Ottocento, la gomma divenne una materia strategica per cavi elettrici e coperture delle ruote dei mezzi di trasporto, dopo la scoperta del processo di vulcanizzazione. Per estrarre rapidamente la massima quantità di gomma gli operai disperati provocarono la distruzione degli alberi; vaste zone della foresta rimasero impoverite e devastate.
Gli alberi e la vegetazione di vaste estensioni di foresta sono stati tagliati, o eliminati più brutalmente col fuoco, per lasciare spazio a coltivazioni agricole commerciali e a pascoli per l’allevamento del bestiame. La coltivazione della canna da zucchero ha fornito la possibilità di produrre e di esportare il prezioso zucchero, divenuto ancora più importante nella seconda metà del Novecento quando è stato in parte utilizzato per produrre alcol etilico da usare come carburante ”ecologico” delle automobili, al posto della benzina derivata dal petrolio. Ben presto si è però scoperto che il suolo argilloso, non più protetto dal bosco, subisce una perdita di fertilità a causa della trasformazione in strati impermeabili all’acqua ed esposti agli allagamenti.
Gli alberi di vaste estensioni di foresta sono stati tagliati anche per ottenere i legnami pregiati da esportare e per ottenere carbone di legna usato come fonte energetica locale. Le grandi ricchezze minerarie del sottosuolo della foresta amazzonica hanno attratto attività minerarie e metallurgiche che hanno provocato altri dissesti ambientali.
Il libro della Isenberg, in un lungo capitolo tratta quello che c’è “sotto” la foresta amazzonica: di tutto, minerali e pietre preziose e poi l’oro, già estratto dai primi conquistatori. Dopo l’esaurimento dei giacimenti più ricchi si è diffusa la tecnica di estrazione per amalgamazione con mercurio, che forma una lega con l’oro, una operazione durante la quale si formano scarichi di mercurio, un metallo tossico al punto che l’avvelenamento delle acque e dei pesci finisce per arrivare, attraverso le catene alimentari, anche nel cibo umano.
Altre devastazioni ambientali sono state dovute all’estrazione dei minerali di ferro, richiesti in quantità crescente e che il Brasile può fornire in ragione di circa 400 milioni di tonnellate all’anno. L’estrazione dei minerali e la successiva trasformazione parziale in ferro greggio sul posto, con tecniche spesso arretrate, hanno portato ricchezza alle compagnie minerarie ma hanno lasciato al Brasile delle montagne di scorie che alterano gli ecosistemi. Oltre al ferro e all’oro, l’Amazzonia nasconde grandi giacimenti di manganese, nichel, rame, alluminio, alcuni impoveriti e abbandonati dopo pochi anni di eccessivo sfruttamento. A mano a mano che procedono le esplorazioni geologiche ci si accorge che l’Amazzonia contiene anche giacimenti dei metalli richiesti dalle nuove tecnologie della microelettronica.
Ma lo sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche ha portato alterazioni ambientali, anche per la necessità di aprire nella foresta strade per collegare le miniere con i porti di imbarco lungo i fiumi e con i porti della costa. Addirittura i giacimenti petroliferi di recente scoperti nell’Amazzonia occidentale sono raggiungibili soltanto con elicotteri perché si trovano in zone prive di strade.
La storia ecologica ed economica dell’Amazzonia ci insegna che la natura si vendica su chi le usa violenza e ci ammonisce su quello che si può e su quello che non si deve fare, se si vogliono usare le sue ricchezze per risolvere problemi umani e non solo nel nome del profitto.
(*) ripreso da «comune info»; pubblicato anche su «La gazzetta del Mezzogiorno».