«La nave degli schiavi» di Thorkild Hansen
di Giangiuseppe Pili
«Vivere è incontrarsi e tornare a dividersi» (T. Hansen)
«La nave degli schiavi» è il secondo libro della trilogia sulla schiavitù scritto da Thorkild Hansen. Non si tratta di un libro di storia ma di un libro sulla storia, su una delle vicende più inumane di tutta la storia dell’umanità. L’opera ha una struttura bipartita, che alterna ai resoconti narrativi storicamente antecedenti alla contemporaneità, al reportage sul viaggio compiuto dall’autore sulla stessa linea che veniva compiuta dalle navi negriere danesi. Come l’autore ripercorre ogni singolo miglio, viene narrato ogni avvenimento di quanto capitava nelle navi-galere che trasportavano «il carico vivo», come veniva chiamato allora, dalle coste dell’Africa centro-occidentale alle Indie Occidentali, cioè l’America.
Il libro, per un lettore non abituato ai resoconti narrativi degli storici di professione, appare in tutto simile alla narrazione di uno storico. Ma il reportage storiografico di Hansen si spinge sui princìpi di una narrativa realista, capace non solo di restituire i fatti, ma anche i sentimenti di chi ha fatto la tratta non come schiavo ma come uomo libero. Infatti, la condizione dello schiavo è riportata soprattutto in controluce, attraverso il punto di vista particolare degli addetti ai lavori, come il capitano della nave, del medico di bordo o del mozzo. Invece di presentare la tristezza della condizione di uomini che non venivano trattati neppure come bestie, ma come veri e propri oggetti, Hansen mostra la vita “normale” di quella gente perbene che aveva il compito di comprare, accudire e vendere gli schiavi. La maggior parte di questa gente, infatti, non è diversa da quel cartolaio che vende penne per sfamare sé e la famiglia. Un capolavoro nel capolavoro è, infatti, il capitolo che tratta del capitano, un uomo di mare e mezzo affarista, che spende e investe soldi per la compravendita di schiavi per sé e per la compagnia, perché deve sostenere le spese della famiglia, aiutare il genero a intraprendere i suoi commerci e soddisfare le esigenze della figlia di suo primo letto. Non mostri, ma uomini qualunque erano coloro che portavano avanti la tratta.
Naturalmente, non vengono taciute le condizioni in cui soggiacevano gli schiavi e, nella maggioranza dei casi e non senza una velata ironia celata sotto forma di numeri, Hansen riporta le analisi statistiche sulla quantità di uomini trasportati, di quanti dovevano morire e sopravvivere e di come venissero trattati gli schiavi in base al momento della traversata. Egli si avvale del duplice espediente, storico e letterario, per restituire tutto lo spettro della condizione di tutti gli uomini imbarcati nelle navi negriere. Un esempio illustrativo ed esemplare potrebbe essere questo:
«Nelle piantagioni delle Indie Occidentali la maggior parte dei negri era nata in cattività. Vivevano in condizioni miserabili, ma non ne avevano mai conosciute altre. La loro esistenza non era segnata da una catastrofe che si era prodotta da un momento all’altro. I negri delle navi vivevano liberi fino a poco tempo prima, in una società dalle abitudini definite, con leggi e idee religiose proprie. Avevano un ambiente sociale, una famiglia e degli amici tra i quali si sentivano sicuri nella gioia e perfino nel dolore. La loro vita aveva un senso. Quando la nave levava l’ancora, gli africani si trovavano nudi e inermi in circostanze del tutto estranee e ostili. Questo portava i più sensibili in uno stato di choc, ma ai capitani un simile concetto era estraneo quanto quello del periodo di incubazione. Se uno schiavo si metteva a urlare e ad agitarsi nelle sue catene, la reazione naturale del capitano era farlo frustare davanti all’albero di maestra. (…) Le malattie mentali degli africani somigliavano per lo più a quel male insidioso che nei resoconti inglesi era chiamato “malinconia profonda”, e si rivelava quasi sempre mortale. (…) I primi sintomi si annunciavano con un abbattimento crescente e mancanza di vitalità. Poi gli occhi si velavano, i movimenti diventavano meccanici e alla fine sembrava che il malato volesse solo sdraiarsi e morire. “Nonostante gli schiavi fossero apparentemente in buona salute, ci capitava di trovarne tre o quattro morti ogni mattina”, racconta uno studente di medicina americano, George Howe, nel 1859».1
La lucida accuratezza di Hansen mette a nudo quelli che sono i nostri pensieri abituali di uomini liberi, abituati ad essere tutelati (per quanto possibile) dal diritto del nostro Paese, dalle sue forze dell’ordine e, soprattutto, dall’arbitrio degli altri, almeno in una certa misura. Ma lo schiavo era totalmente prono non soltanto allo sfruttamento del suo lavoro senza retribuzione, ma ad ogni trattamento di un uomo che potesse rifarsi su di lui, senza nessuna possibilità di difesa. In condizioni innaturali e di estrema miseria, molti schiavi soffrivano delle peggiori malattie mentali, fino all’abbrutimento che li conduceva al rifiuto del cibo e al suicidio. Se al rifiuto del cibo c’erano rimedi efficaci, come uno strumento a forma di compasso e che, come il crick della macchina apriva le mandibole per inserire l’imbuto per far passare il vitto piuttosto scarso, non c’erano, invece, possibilità per le malattie mentali, incurabili, allora, anche per i bianchi liberi.
Le condizioni di vendita degli schiavi subiva leggi peculiari di mercato. Così che ognuno poteva essere venduto per delle virtù diverse. In particolare, i bambini venivano divisi dalle madri e le donne dai mariti. Addirittura, gli stessi schiavi cercavano di non avere le proprie donne all’interno delle stesse piantagioni perché una delle punizioni preferite in questi casi era quella di far frustare le donne dai mariti e viceversa, cosa, questa, che era particolarmente gravosa per la coppia. Il nazismo operò simili trattamenti sulla popolazione di etnie europee, e venne condannata per questo. Ma nessuno vuole ricordare la storia delle tratte schiavili sin nei minimi dettagli, e si preferisce pensare che è parte del passato remoto e irraggiungibile, quindi molto facilmente occultabile. Ma uno scrittore come Hansen non si piega a tutto questo e mostra la sua intenzione di far luce su ogni aspetto del passato quando riporta i sistemi di vendita degli schiavi e le relative note socio-economiche dei compratori: «Lo stesso valeva per i figli ancora non nati dalle schiave: alle aste poteva succedere che i proprietari delle piantagioni comprassero un feto nel ventre della madre, con il patto della consegna alla nascita».2 Il sistema di vendita era assai peculiare: ogni schiavo veniva messo all’asta e ogni compratore voleva tastare lo schiavo, un uomo con una mente lasciato totalmente nudo e incapace di potersi trarre dalla vergogna. Un triste e bellissimo esempio di come Hansen riporta il sistema di promozione pubblicitaria dei vari schiavi:
«N. 12. Schiavo maschio, Atjetje, della regione di Elmina; ventiquattro anni. Bello non è. Nemmeno una gran mente, ma è un ragazzo robusto. Buon lavoratore. Toglietegli il suo panno, e guardiamo com’è fatto. Buon camminatore, e può dare alla piantagione un bel po’ di marmocchi. Partirei da duecento talleri…».
«N.47. Ragazza, Tjotjo, etnia fanti. Diciannove anni circa. Guardatela, parla da sé. Fatela girare e sì, via i vestiti. Centocinquantasei? Vergogna! Si parte da centosessanta. Era una principessa al suo paese! Vergine fino alla punta delle dita. Centossessantacinque. Centosettanta talleri per questa Venere nera. Centosessantadue…».3
Le donne nere subivano i peggiori trattamenti durante le tratte, soprusi talmente indicibili che le compagnie avevano cercato di arginarli con compensi pecuniari, qualora fossero state lasciate in pace. Ma gli stupri e le violenze erano questione di quotidianità che non risparmiavano neppure le bambine e i bambini di tenera età, a dimostrazione del fatto che neppure i fenomeni di pedofilia sono sconosciuti alla storia dell’umanità.
La nave degli schiavi è un libro che sfida le nostre riflessioni ordinarie, che ci impone di considerare noi stessi come se fossimo parte integrante di quel mondo che ha fatto la tratta e ci costringe a riflettere su noi stessi: avremmo fatto così? Saremmo stati come tutti gli altri, forse anche peggio? Un libro straordinario, un libro da conservare fra quei cento, qualora la nostra casa andasse a fuoco e potessimo scegliere di salvare solo qualcuno dei nostri tomi.
HANSEN THORKILD
«LA NAVE DEGLI SCHIAVI»
traduzione e post-fazione di M. V. D’AVINO
IPERBOREA, 2009
PAGINE 284, EURO 17,50
NOTE