La Nuova Fantascienza – parte II
Per aggiungere un altro po’ di carne allo scheletro di questa scarna professione di fede, mi soffermerò su due punti, per mezzo dei quali rimpolparla e apportare i dovuti chiarimenti.
Il primo più che gli addetti ai lavori riguarda la totalità degli appassionati, e particolarmente i lettori di Fantascienza, veri destinatari di questo scritto.
Il secondo è relativa all’analisi obbligata, anche se sommaria, del sistema mondo, nonché dei temi che esso ci propone (in particolare il rapporto uomo-macchina); in una con il metodo, attraverso cui, guardando al sistema mondo, si possono estrarre temi e suggestioni fantastiche-fantascientifiche.
Dicevo poc’anzi del mio scoprirmi attraverso questo articolo; del sempre-parlare-aperto, nelle chiarezza degli scopi e delle intenzioni, che mi contraddistingue in quanto marxista[1]. Il che mi espone, nell’imperante dominio dell’ideologia della non-verità che fa sembrare assurda, impropria, se non una provocazione (nella fase attuale si preferisce dire: vecchia, superata…) l’enunciazione della verità, al rischio del rifiuto. Chi non è nella consapevolezza dell’immane impostura con cui si interpreta il mondo, il costante non attenersi al merito delle questioni non potrà che pensare male di me e di ciò che qui è scritto[2]. Ma non importa. A me basta aver seminato e se son rose fioriranno…
Quel che temo invece è che non venga colto il reale interlocutore a cui e per cui parlo e scrivo. I lettori, molto più che gli addetti ai lavori (che potrebbero essere però gli unici a prendere visione di queste note). Perché questo discorso è rivolto proprio a chi, i 9/10 del cielo fantascientifico, a questo universo letterario, dopo che gli scrittori gli hanno dato vita, da costante vitalità. Perché è tempo di dissolvere questa fittizia barriera artificiale posta tra chi produce e chi consuma Fantascienza (siamo tutti lettori di Fantascienza, anche se non tutti la scriviamo; tutti però attraverso di essa fantastichiamo).
Se guardiamo alla situazione nel periodo dell’alba della Fantascienza, al nostro stesso essere (noi Italiani, dico) nei primi anni ’50, non ci sfuggirà la straordinaria affinità di fondo, di concezioni, tendenze, gusti e aspirazioni, che accomunavano lettori e scrittori. Lo stessa situazione rilevabile negli USA degli anni ’20 e che, appunto, ritroveremo in Italia, due decenni più tardi. Nonostante la grande distanza, nonostante le diversità un’uguale sensibilità ci legava; gli scrittori della lontana America ci toccavano nel profondo più e meglio di qualsiasi altro scrittore italiano (o Europeo). La stessa ansia di scandagliare i misteri del mondo attraverso la misteriosa scienza, la medesima voglia di speculare sulla realtà, di perdersi negli avventurosi meandri della tecnologia, ci unificava tutti. La medesima disponibilità o farci impressionare dalle “conquiste dello spirito umano” e la medesima ansia di riflettere sul presente e sugli immediati futuri… la letteratura del meraviglioso che andava spegnendosi nella Vecchia Europa, ci tornava massicciamente dal Nuovo Mondo, arricchita da tutti i prodigi che i meravigliosi Stati Uniti avevano nel frattempo messo in campo. Non dal magistero altissimo dei Proust e dei Celine ci lasciavamo rapire, ma da quello più pedestre, ma quanto disvelatore delle tendenze di fondo dell’umanità, dei Van Vogt, Heinlein, Williamson, Hamilton, Sturgeon, Brackett ecc. ecc. Escludendo i caratteri formali (non all’inizio, almeno) la Fantascienza si mostrava capace di restituire alla fantasia quello che era della fantasia; e alla letteratura quello che era della letteratura: lo slancio epico epocale, i misteri che incalzano l’esistente e rendono fascinosa l’esistenza, le magie dell’avvenire, il sogno ad occhi aperti, l’avventura (oh, finalmente! Di nuovo l’avventura!), lo sguardo indiscreto gettato non più sulla camera da letto (di quello ormai aveva iniziato a occuparsi l’imperante, debordante, incipiente pornografia), ma sulle sciagure e sugli splendori che ci riservava l’indomani. A tale fine era però necessaria una più stretta unione tra lettore e scrittore, con il frequente sovrapporsi dei ruoli, della quale oggi ravviso nuovamente la necessità. Un linguaggio comune, per comprendersi; una comune spinta per una partecipata scelta di solidarietà. L’esistenza dell’uno che generava più che giustificare l’esistenza dell’altro (descrivo quel che è avvenuto, non lo analizzo ancora). Per questo affermo che il presente discorso è rivolto a tutti; perché solo se entra nei pensieri di ognuno, nell’orbita dell’azione dei molti, nel senso comune dell’epoca, il rinnovamento e risorgimento che auspico potrà realizzarsi.
Un rinnovamento che, ripeto, può apparire soltanto partendo dal dato reale della capacità di individuare e trasformare in materia narrativa gli aspetti più singolari e eclatanti della fase storica che attraversiamo[3].
Il che ci pone davanti a un paradosso: la Fantascienza, scrittura fondata sull’ideologia, che per ri-accendersi è costretta a ricorrere alle tendenze del reale, cioè a scandagliare nel sistema mondo per trovare gli ancoraggi adatti a controllare-regolare gli slanci incontrollabili della fantasia. Un paradosso apparente, a ben guardare. Perché quel che vuole (e può) in effetti significare questa affermazione è che la o le tendenze individuate devono solo essere trattate con modalità differenti da quelle proprie al lavoro scientifico (il dato che diventa valore): partire sì dall’oggettività non per aggiungervi altra oggettività ma per esplorarne gli effetti sull’umano. A questo serve la Fantascienza: a prendere atto della scienza e del mondo che la ospita e piegare ambedue alle esigenze ludiche della fantasia, all’opportunità di orientarsi sul che fare, su dove andiamo e quel possiamo fare per evitarlo[4]. Serve, insisto, non per dar conto dell’oggettività, della quale per altro si serve; ma della soggettività: delle reazioni degli uomini o del singolo uomo ai cambiamenti prospettati; o quelle dell’eroe messo di fronte ai problemi sociali e psicologici che quelle tendenze possono produrre[5]. Il che equivale a chiedere che sia l’uomo a essere messo in primo piano (non tanto le conoscenze); che pur nelle situazioni più diverse i caratteri di fondo, i valori e disvalori che lo caratterizzano siano rappresentati in modo tale che prendano corpo e forma nonostante lui stesso, nonostante la sua ideologia[6], nonostante la situazione, nonostante le stesse intenzioni e convinzioni dell’autore che lo getta sul proscenio[7].
Ma c’è un secondo aspetto, affine ma diverso, che spinge nella stessa direzione e illustra meglio quella che ho definito apparenza paradossale. Questo secondo aspetto è dato dalla rendita di posizione che la Fantascienza vanta rispetto a tutte le altre forme di letteratura. Questa rendita di posizione consiste nella connessione indiretta, più interesse che pratica reale, con la scienza e con le scienze. È l’ancoraggio alla loro razionalità e alla razionalità del metodo che, pur restando sempre sullo sfondo o essendo un lontano presupposto, contaminano positivamente la pratica del fantascientista. Il quale legge o scrive Fantascienza disseminandola delle proprie ideologie, senza mai perdere di vista quel tanto di verità a cui l’ispirazione scientifica gli concede di approdare. È vero che si tratta più che altro di utilizzo di ideologie scientifiche sulla scienza (o al massimo utilizzo di filosofie della scienza, o filosofie e basta) piuttosto che di scienza, ma bisogna pur riconoscere che esse sono portatrici quantomeno di quell’aspirazione all’oggettività che è caratteristica dell’universo scientifico[8]; e che la frequentazione assidua, la manipolazione di tale razionale tendenza all’oggettività modifica, contamina il manipolatore, contribuendo in modo non indifferente alla formazione del suo pensiero e della sua personalità. Con il voler essere fanta-scienza la Fantascienza, pur utilizzando massicciamente le ideologie correnti, nello stesso tempo prende parte, sia pure tangenzialmente, del processo secolare di depurazione del pensiero dai limiti delle ideologie. Con le venerabili conseguenze che possiamo immaginare e quelle che, indagando, possiamo individuare[9].
Siamo vicini al dunque. Agli esempi annunciati, ratio di questo intervento. A ciò che mi propongo: ri-entrare (senza per altro mai esserne uscito) nella Fantascienza per adeguarla ai compiti che, in quanto letteratura, ha davanti a sé. Al doppio d’una costruzione narrativa basata sulle convinzioni personali (ideologia) di un autore e al loro essere soggette al dominio della tendenza alla scientificità posta sullo sfondo. A ciò che nel presente appare come adeguato al suo organico destreggiarsi sui grandi temi, grandi questioni del presente. Vediamole.
Utilizzerò due temi classici, tentando di introdurre quelle torsioni nell’uso che li possano attualizzare.
Primo – Il rapporto uomo-macchina;
Secondo – L’equilibrio del terrore (o ex equilibrio del terrore)
Primo: si tratta della funzione chiave della prima Fantascienza. Consisteva nel rendere familiare l’entità Macchina alle masse sterminate di donne e uomini, di nuova e antica urbanizzazione che ne erano investiti massicciamente e inesorabilmente, che ne godevano i frutti e più spesso gli inconvenienti. L’intensificazione dell’uso della macchina e la sua dismisura nel Fantascientifico corrispondevano al doppio bisogno di sapere quale sarebbe stato il proprio destino, cosa riservava l’indomani e abituarsi comunque a un futuro di continuo cambiamento. Spesso ferme incantate in una sorta di post-Medioevo, attraverso questa ininterrotta ruminazione sui vari aspetto dell’impatto con le macchine, esse venivano portate nel Ventesimo Secolo. La macchina, in quanto tale, e a volte anche per il suo uso, ma sempre per responsabilità attinenti all’essere umano (mai alle strutture date dalle comunità umane), era adorata e vituperata. Liberava l’uomo dal peso del lavoro, spossessan-dolo però della sua creatività, iniziativa e possibilità di regolare i propri ritmi: lo asserviva al Capitale.
Quest’ultima osservazione, quantunque costituisca un commento personale, ma non arbitrario, ai discorsi sviluppati dai Fantascientisti[10], individua la direzione di marcia effettiva di concezioni che però, a causa anche dell’inadeguato sviluppo della Scienza della Storia e sua scarsa penetrazione nella cultura (specialmente NordAmaricana), all’enunciazione di quella verità non approdavano. Nell’immediato della rappresentazione la Macchina appariva piuttosto che strumento di una classe, come il portatore materiale di una condanna metafisica, un qualcosa che trascendeva la stessa volontà dell’uomo che ne faceva uso per esercitare il proprio dispotismo sugli altri uomini. Essa aveva in sé, per virtù o malvagità intrinseca, le caratteristiche che la facevano diventare croce e delizia dei suoi stessi inventori. Nella più estrema delle interpretazioni poteva apparire persino quale effetto di una originaria (anch’essa metafisica) condanna al raddoppio del peccato originale: condanna attiva e passiva; condanna a subire il male e condanna a commetterlo, sia quando produceva macchine, sia quando le contrastava.
Su un piano più largo, sul quale possono essere effettuate considerazioni astoriche (non pertinenti a questo scritto), si può ipotizzare che dietro ancora vi fosse un’oscura consapevolezza del processo di meccanizzazione del pensiero umano, consistente nella dislocazione verso l’alto (dal cuore al cervello) dell’equilibrio interno di ognuno. Il cerebralismo del quale è accusato il Novecento, ma che ha origini molto lontane (progressivo processo di svuotamento del significato dell’Essere a opera dello scientismo) si condensa proprio nella Macchina, che diventa proiezione futuribile dell’umano, sua pena e suo destino. La concezione meccanicistica del mondo (derivata dalla meccanica classica) prendeva forma in una Macchina concepita meccanicamente (riflesso del pensiero meccanico dell’uomo).
Il medesimo tema oggi ha senso, se si rovescia il vecchio rapporto che vedeva l’umanità in subordine alla sua creazione. Lo stesso progetto di fondo (portare la società nel secolo che le appartiene) diventa ora quello di portarla avanti, verso il secolo successivo. Il tema dunque deve essere radicalmente riformulato.
Non si tratta più di dare un giudizio d’opportunità o di merito sull’esistenza delle macchine; né di farne il contenitore improprio di timori e speranze. Le macchine non sono agenti della liberazione o dell’asservimento: questo è un ruolo proprio agli uomini, svolto contro o a pro di altri uomini. Nessuna specificazione morale si adatta alla macchina, fatte salve le proiezioni che la morale umana su di esse opera. L’intelligenza artificiale non è altro che il mezzo attraverso cui l’uomo amplia le proprie capacità, mezzo per liberare “l’umanità nell’uomo”. Possono bensì acquisire le facoltà positive di un eventuale uomo liberato (tali, ad esempio, si presumono Grosvenor il Connettivista e Hedrock l’Immortale), ma ancora una volta quale mera proiezione di un uomo che si progetta nella prospettiva della liberazione (Van Vogt ha la sua formula, che riflette sui suoi personaggi; Io la mia…). All’interno di essa si può osservare il potenziale magico rovesciamento della paura del XX secolo (la trasformazione dell’uomo in macchina) nella speranza di umanizzazione della realtà, macchine incluse (Pazza di Miglieruolo).
Domanda: è possibile allora concepire un congegno elettronico alla stessa stregua (leggi disinvoltura) con cui si prende atto delle funzioni o anche mera esistenza di un martello?
Risposta: cambiare l’uomo è la premessa per ogni possibile cambiamento nella relazione uomo macchina. Come l’aggressività dei cani dipende generalmente dal carattere dei loro padroni; così le distorsioni nei comportamenti delle macchine (incluse le distorsioni nell’uso e le perversioni nella concezione) sono funzione dei costruttori e utilizzatori. Indagare i difetti dell’uomo per arrivare ai potenziali pericoli della macchina.
Secondo: siamo alle funzioni chiave della prossima Fantascienza, agli interrogativi sul destino del Sistema Mondo, interrogativi che nel passato costituivano solo uno dei tanti “filoni” da esplorare: quali incubi ci riserva il prossimo futuro? siamo ancora in grado di influenzare gli avvenimenti o, effettivamente, per dirla con Heidegger “solo un Dio ci può salvare”? solo un miracolo potrà preservarci dal cadere in una delle tante trappole che l’umanità ha sapientemente apprestato per se stessa? esistono forze o controtendenze capace i frenare il nostro precipitare in caduta libera nel precipizio di una qualche catastrofe?
Dietro questi interrogativi ci sta la congiuntura storica specifica di questi infelici, disastrosi primi anni del XXI secolo. Ci sta la particolare situazione storica che vede per la prima volta nella storia dell’umanità il prevalere assoluto (e di gran lunga) di un’unica potenza su tutta le altre, all’interno del progressivo accentuarsi del potere delle multinazionali, le quali non solo comandano ormai sugli Stati, ma guidano anche la fondazione dall’alto di Stati Soprannazionali (l’Europa ha cominciato, seguiranno gli altri).
Tutto ruota allora intorno a questo interrogativo d’obbligo: accetteranno gli Stati Uniti l’inevitabile ridimensionamento del loro ruolo mondiale stante la crescita di potenze medie (Cina, India, Brasile, Russia, Europa) che potrebbero nel prossimo futuro, specialmente se sapranno stabilire alleanza tra loro, contrastarne il dominio economico e militare?
Negli equilibri tradizionali la pace poteva essere rispettata solo a patto di conservare un certo equilibrio tra le nazioni. La rottura di questo equilibrio, che comportava anche il non riconoscimento di determinati interessi (coloniali, mercantili, territoriali), provocava invariabilmente la guerra. La reazione delle potenze in declino (lo stesso vale per quelle emergenti) è sempre stata di far ricorso alle armi per rovesciare la tendenza storica o lo status quo sfavorevole. Dalla metà degli anni ‘50 del secolo scorso, con il sorgere della cosiddetta era nucleare, sembrava esservi stata una attenuazione di tale tendenza. Fino alla caduta del muro di Berlino, almeno per ciò che attiene all’area del Nord Occidentale, la guerra come mezzo ordinario di risoluzione delle controversie internazionali veniva contemplata con la massima cautela. Questa cautela sembra del tutto essersi dissolta nel quadro di relazioni internazionali costituitosi dai primi anni ’90 in poi (ben prima, dunque, dell’attacco alle Torri Gemelle). I governi, nonostante le opinioni contrarie delle popolazioni, a partire dalla prima guerra all’Iraq, che sembra aver spezzato quello che stava diventando una specie di tabù, non hanno altre remore nell’intraprendere conflitti che quello di inventare nuovi nomi con cui definirli (per dissimularne la natura); oppure di negare puramente e semplicemente, uguali in questo all’atteggiamento di tanti marioli presi con le mani nel sacco, di fare quello che effettivamente stanno facendo: massacrare per espandere il business.
Un ruolo nuovo e particolare, all’interno di questo quadro, svolgono gli Stati Uniti. Ruolo particolare non solo in quanto formazione economico-sociale dominante; ma in quanto viene esercitato utilizzando un potere decisionale che va ben oltre gli stessi rapporti di forza vigenti (da cui le difficoltà nel realizzarlo e il profilarsi di una battuta d’arresto). La sovrastima di questi rapporti di forza (parliamo di rapporti di forza complessivi, cioè non solo militari, ma anche economici, politici e ideologici) si fonda su un dato che probabilmente è unico nella storia: lo stato di virtuale immunità di cui godono gli Stati Uniti. Qualsiasi nefandezza commettano essi sanno che nessuna ritorsione di pari efficacia può essere effettuata contro di loro[11]. Questo permette loro di svolgere apertamente la funzione, sotterraneamente già da tempo praticata, di monarca assoluto, portatore di un potere che sta di sopra dalle leggi (al di sopra delle sue stesse leggi), in quanto per definizione dei suoi atti non risponde che a Dio. Al monarca non si applicano le norme generali della società in quanto con l’atto stesso di violarle egli ne sta cambiando la sostanza: sta cambiando la sua stessa norma. O quantomeno stabilisce l’eccezione alla norma, eccezione che può riguardare lui stesso in quanto violatore della legge, ma anche altre persone nei confronti delle quali desidera non sia applicata. Sul piano delle relazioni internazionali la tendenza è a tutt’oggi reversibile, ma ancora per poco. Se altri episodi detti di “unilateralismo” dovessero manifestarsi è certo che si arriverebbe all’identificazione del Diritto con la Volontà dell’Autocrate, cioè con il Presidente eletto della Stato-Monarca. Bisogna infine sottolineare che mentre nel passato il potere (leggasi: arbitrio) esercitato dal Re era fatto scaturire direttamente da Dio; quello dei Presidenti odierni deriva dall’investitura democratica ricevuta o carpita: da quell’insieme di pratiche, sempre più formali, che vengono identificate con la democrazia. Avendo spogliato la democrazia di quasi tutti i suoi attributi (rispetto per le idee degli altri, accettazione del diverso, rigoroso ossequio per le norme, divisione dei compiti tra molteplici istituzioni, ognuna con uguale dignità e relativa autonomia, molteplicità degli strumenti di mediazione sociale ecc. ecc.); e avendola ridotta al puro scheletro delle “libere elezioni” essa lascia campo libero a ogni sorta di arbitrio. Del tipo: sono autorizzato ad avere armi di distruzione di massa a dismisura e negare agli altri il possesso anche di piccole quantità in quanto sono Stato Democratico; non ho bisogno di dichiarare solennemente davanti al mondo che non le userò per primo per lo stesso motivo. In quanto Stato Democratico non ho bisogno di vero casus belli per aggredire chicchessia (mi basta il diritto della forza); di dichiarare, o non dichiarare, lo Stato di Guerra contro chi sto già bombardando e di applicare i diritti umani nei confronti di chi, senza che alcuna autorità terza l’abbia deliberato, ho messo nel registro dei fuorilegge, alias “Stati Canaglia”.
Domande: stante il quadro mondiale che si va formando e l‘importanza che all’interno dello stesso hanno gli Stati Uniti (nell’imporre svolte e accelerazioni), è concepibile che qualcuno-qualcosa possa ostacolarne il compimento? Quali potrebbero essere le reazioni dell’Establishment Americano di fronte a una sfida seria che sorgesse da uno a più stati gigante? Verremo coinvolti in conflitti sempre più larghi, ma controllati; oppure i pericoli di Olocausto sono prevedibili e reali? Quale sarà l’ulteriore prezzo che dovremo pagare, oltre all’iperbolica accelerazione del terrorismo, per i milioni di Medio Orientali massacrati? Dobbiamo davvero rassegnarci all’imprevedibile improbabile intervento di un Dio, oppure possiamo confidare nella maturità del popolo Americano[12]? È egli l’unico Dio in cui confidare? Ed infine: sugli equilibri di potere interni agli Stati, dai quali (non abbiamo avuto tempo di vederlo), dipende gran parte degli equilibri internazionali, l’unica risposta concepibile (la più breve e letterariamente efficace) è quella regalataci da Tenn con il suo “Problema della Servitù” o possiamo pensare di poterne approntare altre più articolate e più utili all’intelligibilità del reale?
Risposte: il progressivo restringimento del principio d’uguaglianza formale dei cittadini, prezioso anche se fondato sulla loro ineguaglianza sostanziale (che nasconde), accompagnato dallo svuotamento di ogni residua influenza sulle grandi decisioni, esige l’antitetica speculare richiesta di progressiva uguaglianza e progressivo recupero di potere decisionale. Uguaglianza: in opposizione all’uniformità (“comunista” o borghese, non ha importanza) perseguita dai regimi di massa per tutto il Novecento (e in questa categoria sono da includere anche quelle che pomposamente vengono chiamate Grandi Democrazie), occorre porre la differenza, il libero sviluppo delle singole personalità. Non però una differenza esteriore, data dalla quantità di danaro posseduta[13], dalle maioliche del bagno, dalle dimensioni dell’auto su cui ci si pavoneggia e dagli abiti indossati; ma la differenza che scaturisce dai valori perseguiti, dalla cultura a cui ci si ispira, dai sentimenti e dal tipo di relazione umane sviluppate. La differenza tra individui evoluti, cioè tra persone. Potere decisionale: non Utopia ma capacità di individuare le tendenza reali che operano sotterraneamente ma ininterrottamente per restituire alle persone il dominio sui loro atti, sui loro destini, sull’indirizzo da dare all’intera umanità. Tutto questo all’interno delle contraddizioni che ne rallentano o impediscono il cammino e delle forze che minacciano addirittura di distruggerla in quanto specie. Riportando questo due principi sul piano delle relazioni internazionale avremo la soluzione ai quesiti proposti: avremo una gamma pressoché infinita di prospettive (utopiche e antiutopiche) da sviluppare. Un’intera biblioteca di tematiche adatte a rivitalizzare la Fantascienza. Futuribili senza futuro, essendo il futuro di là da ogni previsione; e tuttavia idonei sia alla costituzione di fantasie sul divenire, sia all’espressione delle preoccupazioni sul presente, sia a condizionarne, in un certa misura, l’evoluzione: con l’atto stesso di formularne la possibile conformazione del domani, in un certa misura, il domani assume forme compatibili con quella previsione (ma anche specularmente opposte a quella previsione: vedi i due “atti tragici”, esemplari del modo con cui procede la Storia, l’avvento dello Stalinismo e del Nazismo).
Si tratta, e bene precisarlo, di materiale grezzo, che è necessario lavorare preventivamente prima di poterlo adoperare; che deve essere sottoposto (oltre alle inderogabili necessità dell’immaginazione e dei temi umani da affrontare) a un lungo lavoro di mediazione culturale che le trasformi da materiale puramente politologico in materiale narrativo; il che esige un ulteriore sforzo nella direzione di farli diventare temi di discussione-conversazione non per ma dell’uomo qualunque, l’uomo della strada[14], voi, io, chiunque leggerà queste note o semplicemente ne avrà sentito parlare. Il che ci riconduce alla confessione iniziale sugli scopi di questo scritto. Scopi non ideologici: scopi narrativi. Lo scopo di preparare il terreno, di creare l’humus discorsivo che renda possibile allo scrittore scrivere e alle sue scritture d’essere lette[15].
Un manifesto, in buona sostanza.
Il manifesto della Fantascienza ai tragici albori di questo millennio.
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[1] Cosa, per altro, che ho sempre fatto. Ma, fate attenzione: scoprirete a vostra volta che i marxisti, non tutti e non sempre (il peso dell’ideologia dominante grava e condiziona anche loro), sono gli unici però disposti a dirla tutta, senza remore e senza riserve. Gli unici in quanto è nell’essere marxisti l’adesione alla verità: la verità è rivoluzionaria, spesso sgradevole, ma dispoticamente necessaria: la possibilità unica di permettere al comunismo di procedere nella sua instancabile, sotterranea opera di cambiamento dello stato di cose presenti. Gli unici, in quanto la vecchia talpa della storia lavora per loro ed è loro interesse osservarla per quello che è. E perciò stesso gli unici interessati a chiarire, formare, offrire strumenti, scavare nelle cose per trarne l’intima essenza. Al contrario di tutte le altre ideologie, il cui scopo è la dissimulazione; per le quali il poter essere equivale al mentire (lo fanno generalmente in buona fede): mentire su se stesse e i loro scopi. La reazione mente perché deve nascondere alle masse i veri obiettivi che si prefigge: involucrare la verità in una fitta trama di mezze verità o aperte bugie (esempio: far politica, fare ideologia negando di farla; accusando gli altri di fare proprio quel che lei fa: politica e ideologia); per conseguir il doppio scopo di seppellire la verità e sottrarre alle masse gli strumenti per un approdo personale alla verità. Ma la reazione (di fronte al proletariato i politici, anche di sinistra, costituiscono un’unica massa reazionaria) mente soprattutto perché non ha interesse a esporre “le cose come sono”, a guardare attentamente nella realtà: da questo sguardo non potrebbe che trarre, a caratteri sempre più grandi, la propria condanna.
[2] Deplorare l’aggressione all’Iraq è antiemericanismo o più propriamente richiamarsi alle norme che regolano i rapporti tra gli Stati? Stigmatizzare la strana difesa dei diritti umani di cui si “fanno belli” gli Stati Uniti, nel mentre che rifiutano di applicare a se stessi – alle violazioni commesse dai loro militari – i medesimi principi, anche questo è antimericanismo? Dunque non si potrebbe parlare di norme, di giustizia, di rispetto delle regole se non applicandole ai nemici ed esentandone gli amici? Il merito della questione non sarebbe, per determinati soggetti – i super ultra ideologi dell’antideologia – la condanna dell’atto criminale, ma sempre e comunque un problema di schieramento: il chi commette l’atto criminale!
[3] Il che ci riconduce al possibile ruolo oggettivante di alcuni aspetti del discorso Fantascientifico, gli stessi annunciati e non sviluppati nel punto 1 delle “premesse” di cui sopra.
[4] Quando la direzione di marcia non ci piace.
[5] Ma anche questo può essere, sia pure parzialmente, “oggettività”, contributo allo sviluppo della consapevolezza complessiva sulla realtà e sul mondo.
[6] E questo attraverso l’ideologia!
[7] una volta gettato sul proscenio non ne è più il padrone, ma il semplice biografo. Se non accetta di esserlo neppure potrà esserne l’autore. L’opera, il romanzo, non verrà.
[8] Del quale difendono o offendono l’integrità, a seconda che si schierino nel campo del materialismo o dell’idealismo.
[9] In piccola parte lo si è già fatto.
[10] L’essere dell’Uso Capitalistico delle Macchine è concetto del tutto sconosciuto agli scrittori dell’epoca. Esso era infinitamente minoritario persino all’interno stesso del marxismo.
[11] Ecco il perché del clamore conseguente all’attacco dell’11 Settembre, episodio insignificante se confrontato alle distruzioni che il Governo Americano ha inflitto a coloro che, a suo insindacabile giudizio, lo “meritavano”. La violazione dell’invulnerabilità degli USA è evento di per sé, indipendentemente dai danni subiti, insopportabile.
[12] Ricordiamoci quello che ha fatto quel popolo in occasione della guerra del Vietnam.
[13] Gli unici uomini effettivamente liberi, dal punto di vista del concetto di libertà corrente, sono i plutocrati
[14] Che sia sottratti cioè alle fumisterie e alla rozzezza degli “specialisti” e degli orridi commentatori televisivi.
[15] Nonché di farlo con la medesima irruenza e originalità, con la medesima spontaneità con cui i Grandi della Fantascienza lo hanno fatto nella prima metà del Novecento.