La Palestina nell’urna
di Giorgio Ferrari
In un articolo pubblicato lo scorso gennaio su Fikra-magazine la palestinese Mariam (non Maryam) Masud scrive che non vuole più essere civile1.
Con una implacabile sequenza di argomentazioni, Mariam Masud demolisce tutti i fondamenti della presunta superiorità della nostra civiltà occidentale: pietà, compassione, tolleranza, diritti, libertà, uguaglianza, si scoprono essere orpelli ormai consunti di un modo di stare al mondo profondamente ipocrita ed egoista.
Scrive Mariam: “I fondamenti dell’essere civile non funzionano per le persone come noi; non sono stati creati per i dannati della terra . Le buone maniere sono il modo in cui l’oppressore vigila sul nostro comportamento; ci rende docili e in catene, all’interno di strutture che non sono certo state costruite per noi. Nemmeno il dolore, estrema espressione di umana sofferenza, può essere ancora considerato un sentimento universale di fronte al quale inchinarsi, proprio perché l’occidente ne ha preteso ed ottenuto l’esclusiva – dal martirio dei cristiani fino all’olocausto – ponendo in secondo ordine tutte le “lacrime degli altri”, anche quando queste erano frutto della violenza e della sopraffazione dello stesso occidente. E’ così che il “dolore egemonico”, come lo definisce Masud, ha finito per cancellare ogni rispetto per il dolore.
L’intera gamma dei valori occidentali si rivela come un universo concentrazionario a cui si può sfuggire solo con la violenza: ”Il nostro linguaggio è sotto sorveglianza: Sionismo, supremazia bianca e colonialismo non sono termini accettabili; incitano all’antisemitismo e sono quindi violenti.” […] La nostra incapacità di reagire pacificamente all’oppressione diventa la prova del nostro sviluppo fallace. Abbiamo deluso i loro cortesi tentativi di civilizzarci. Ma questo fallimento è il nostro successo, un rifiuto di arrenderci alle modalità di conoscenza occidentali che ci declassano nel termine subordinato di ogni concetto binario: Moderno/arretrato, colto/selvaggio, pacifico/violento, civile/incivile. Ed io –conclude Masud – non voglio più essere civile”.
Le persone più attente tra noi avvertiranno senz’altro che in questo articolo ricorrono gli aspetti della condizione degli oppressi sviluppati a suo tempo da scrittori come Frantz Fanon o Paulo Freire, per citarne alcuni. Ma se ciò risponde in qualche modo alle nostre aspettative di esseri particolarmente sensibili a certi temi, l’articolo di Masud ci pone di fronte ad un tale abisso di orrori e ingiustizie da farci sentire del tutto impreparati.
L’interrogativo di fondo, semplice nella sua formulazione, ma non altrettanto nella sua elaborazione, è questo: come è potuto accadere che la questione palestinese sia giunta a questo stadio di irresolubilità? Come è possibile che conflitti aspri e sanguinosi come quello irlandese, dei Paesi Baschi o di Cipro abbiano raggiunto -non si dica una soluzione giusta – ma almeno una dimensione di convivenza e quello palestinese no, nonostante duri da oltre 75 anni? Di chi le responsabilità e quali i fattori che maggiormente ostacolano qualsiasi soluzione?
Qui, evidentemente, non ci soccorrono a sufficienza ne gli strumenti interpretativi strettamente politici, né quelli di tipo sociologico-antropologico. Chiamare in causa l’imperialismo e le sue nefaste articolazioni aiuta certamente a inquadrare il problema da un punto di vista geopolitico ed anche storico (la fondazione dello stato di Israele), ma non esauriscono gli interrogativi circa l’insofferenza o addirittura il disprezzo con cui l’occidente, ma anche molti paesi arabi, hanno affrontato per tutto questo tempo la questione palestinese.
D’altra parte anche i riferimenti alla narrazione biblica (la Terra promessa) o alle incompatibilità socio-religiose tra arabi ed ebrei non sono sufficienti di per sé a giustificare la frattura insanabile che si è creata in terra di Palestina.
Più utile a comprendere i termini della questione appare l’approccio colonialista, o neo colonialista. Il concetto di colonialismo di insediamento, affermatosi recentemente, data fin dagli anni ‘90 grazie a studiosi come Ilan Pappè, ma non solo. La sua efficacia sta nell’aver fornito una spiegazione al comportamento di Israele verso i palestinesi, così spietato da apparire assurdo.
La sistematica negazione dei diritti palestinesi, l’appropriazione della terra e delle risorse naturali, le vessazioni, i divieti alla mobilità, le restrizioni nelle cure e negli approvvigionamenti (come a Gaza) rientrano nella strategia di progressivo annientamento della popolazione palestinese al fine di sostituirla con quella ebraica. Non è difficile individuare come precursori del colonialismo di insediamento israeliano gli stati dell’America del Nord (Stati Uniti e Canada) e l’Australia dove i coloni hanno progressivamente sterminato le popolazioni indigene per poi sostituirsi ad esse. Semmai sconcerta che, proprio in considerazione di quei precedenti storici, si consenta ad Israele di trattare i palestinesi come i “pionieri del west” trattavano i nativi americani e se, dopo decenni di propaganda cinematografica basata sul mito razzista della frontiera, si è giunti a riconoscere che i nativi americani avevano tutto il diritto di opporsi con le armi alla colonizzazione yankee, perché oggi ci si scandalizza se i palestinesi cercano di opporsi con ogni mezzo ai coloni israeliani? Forse che questi non gli sottraggono la terra e gli sparano come facevano quelli americani con i “musi rossi”, come venivano appellati i nativi americani nei films?
Due gli aspetti determinanti che hanno consentito il protrarsi nel tempo di questi comportamenti. Uno risiede nella cattiva coscienza dell’occidente, particolarmente gli stati europei, che non essendosi preoccupati più di tanto del destino che nazismo e fascismo riservavano agli ebrei già negli anni ‘30, a guerra ultimata hanno pensato di rimediare consentendo agli ebrei di realizzare quel “focolare nazionale” ipotizzato nella dichiarazione Balfour del 1917, in ciò mostrandosi del tutto indifferenti alle conseguenze che ne sarebbero derivate per la popolazione palestinese.
L’altro aspetto attiene ai caratteri propri dell’ideologia sionista che è alla base della fondazione di Israele; non a caso la dichiarazione ufficiale della fondazione dello stato di Israele (14 maggio 1948) fu proclamata anche in nome del movimento sionista e contiene questo esplicito riferimento a quell’ideologia: “Nell’anno 5657 (1897), su convocazione del padre spirituale dello Stato ebraico, Theodore Herzl, si riunì il Primo Congresso sionista e proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale nel proprio paese.”
Questa ideologia, che anticipa di oltre venti anni la nascita del fascismo e del nazismo in Europa, è stata in grado di affascinare, sedurre o corrompere le menti di non pochi uomini politici, industriali, banchieri, intellettuali e artisti, facendo forza su due elementi che secondo Ben Gurion caratterizzano il pensiero di Herzl: le sofferenze di Israele e la visione profetica del sionismo.
Ora, pur dando per buone quelle interpretazioni del movimento sionista che vedono contrapporsi storicamente un sionismo buono di tipo socialista, ad un sionismo cattivo cosiddetto revisionista, è un fatto che nessuno dei due, almeno dopo il 1967, ha derogato dal perseguire la politica del grande Israele tipica del sionismo, occupando nuovi territori sottratti ai palestinesi, sfruttando in modo esclusivo le risorse naturali e attuando una politica di discriminazione ed eliminazione progressiva della popolazione palestinese.
Questo ultra decennale insieme di sofferenze e privazioni è stato continuamente schernito o banalizzato nel corso degli anni, sia da Israele (il “vittimismo palestinese”) sia dai suoi alleati Europei e nord Americani ed oggi si pretende addirittura di cancellarlo, collocando l’ora zero di tutta questa vicenda all’attacco portato ad Israele il 7 ottobre del 2023.
E’ una gigantesca opera di falsificazione e inversione della storia che se non fosse sotto gli occhi di tutti, sarebbe incredibile: secondo questa narrazione le ragioni stanno tutte e incondizionatamente dalla parte di Israele e qualsiasi perplessità sul suo operato deve essere rimossa.
In questa forsennata, quasi isterica, difesa di Israele, per cui è impossibile parlare di colonialismo, apartheid o sionismo senza essere tacciati di antisemitismo, gran parte della nostra classe dirigente e dei media mainstream, ha raggiunto vette di inusitata ipocrisia e di grottesche rappresentazioni.
E’ perlomeno grottesco che i nipotini di chi emanò le leggi razziali nel nostro paese (oggi al governo) innalzino la bandiera della lotta all’antisemitismo senza, peraltro, aver mai condannato esplicitamente il fascismo.
E’ quanto mai sconcertante oltre che ipocrita, assistere alla sconfessione delle istituzioni internazionali (ONU, Corte internazionale di giustizia, Tribunale penale internazionale) da parte di quei maitres a penser che ne avevano riferito come simboli di civiltà, progresso e giustizia quando queste condannavano la Serbia, l’Iraq o la Russia, mentre oggi le criticano per aver condannato Israele.
Dovrebbero rileggersi -costoro – le decine di pronunciamenti della assemblea generale dell’ONU che hanno costantemente richiamato Israele per le violazioni dei diritti umani nei confronti dei palestinesi e dove inequivocabilmente si accusa Israele di: evacuazione, deportazione, espulsione degli arabi residenti in Palestina; di appropriazione delle terre e delle abitazioni degli arabi; di trasferimento illegale di persone nei territori occupati (coloni); di sfruttamento illegale delle risorse del suolo; di arresti di massa e di detenzioni amministrative della popolazione palestinese, nonché del saccheggio di siti archeologici.
Dovrebbero ricredersi tutti coloro che, soprattutto oggi, difendono incondizionatamente il sionismo, andando a rileggersi gli atti delle assemblee generali che portarono alle risoluzioni n. 3151 G del 14 dicembre 1973 e n.3379 del 10 novembre 1975, nonché quelli della Conferenza mondiale dell’anno internazionale delle donne tenuta a Città del Messico nel giugno 1975 e la sua dichiarazione finale.2
Nella risoluzione del 1973, incentrata sull’apartheid praticato nel Sud Africa, si condanna, tra le altre cose “L’empia alleanza tra colonialismo portoghese, razzismo sudafricano, sionismo e imperialismo israeliano” mentre nella dichiarazione finale della conferenza mondiale delle donne si chiede espressamente che, ai fini della realizzazione della pace e della cooperazione internazionale, anche il sionismo venga bandito. Infine, nella risoluzione n.3379 del novembre 1975 (riportata per intero in nota)3 incentrata sulla “Eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale”, si stabilisce che il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale.
Quest’ultima risoluzione fu fortemente osteggiata in sede internazionale (non solo ONU) e quando, nel 1991, cadde il regime sudafricano dell’apartheid, si approfittò dell’occasione e su sollecitazione del Presidente USA George H.W. Bush4, l’Assemblea generale ONU ne approvò l’abrogazione.
Ma, come scriveva Lu Shun le menzogne scritte con l’inchiostro non copriranno mai la realtà dei fatti che è stata scritta col sangue.
Chi oggi pensa che ogni critica ad Israele o al sionismo sia un atto di antisemitismo o che comunque lo alimenti, ha scelto incondizionatamente di sedersi dalla parte della ragione, nonostante essa vacilli sempre più sotto i colpi di quelle popolazioni ormai stanche di essere comandate, sfruttate e vilipese, oltre che stanche di sentirsi dire che hanno sempre torto.
Chi oggi pensa che inviando armi ad Israele, nonostante le accuse di genocidio, possa redimersi dall’aver causato lo sterminio del popolo ebraico (come la Germania) o comunque di non aver fatto abbastanza per evitarlo (come molti stati europei e nord americani), non fa che aggiungere un nuovo crimine (lo sterminio dei palestinesi) a quello che a suo tempo fu consumato contro gli ebrei e deve rendersi conto che nessuno dei due crimini sarà mai cancellato dalla storia, tanto più che questa volta nessuno potrà dire che non sapeva cosa stava succedendo ai palestinesi.
In questo scenario di guerre e sofferenze di cui non si vede soluzione nè fine, l’Europa si appresta a celebrare se stessa con il rito delle elezioni. Come se niente fosse, ci chiamano a rinnovare un parlamento che già si annuncia predisposto a votare altri crediti di guerra e norme più severe contro i migranti, nel mentre che quello uscente ha gettato le basi di nuove imprese coloniali in Africa all’insegna del new green deal.
Non c’è che dire: l’Europa degli stati nazione e delle lobbies che dispensa buoni consigli, ma poi pratica il cattivo esempio, non sembra proprio voler cambiare ed ha scelto -ancora una volta – di lasciare la questione palestinese fuori dalla porta.
Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue stesse strade, a tutti gli angoli del mondo.
Palestina libera anche nelle urne.
1 https://fikra-magazine.com/article/177
2 https://digitallibrary.un.org/record/586225?v=pdf
3 Risoluzione 33 79 (XXX). Eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale
Richiamando la risoluzione 1904 (XVIII) del 20 novembre 1963, che proclamava la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, e in particolare la sua affermazione che “qualsiasi dottrina di differenziazione o di superiorità razziale è scientificamente falsa, moralmente condannabile, socialmente ingiusta e pericolose” e di esprimere allarme per “le manifestazioni di discriminazione razziale ancora evidenti in alcune aree del mondo, alcune delle quali imposte da alcuni Governi mediante misure legislative, amministrative o di altro tipo”,Ricordando inoltre che, nella sua risoluzione 31151 G (XXVIII) del 14 dicembre 1973, l’Assemblea Generale ha condannato, tra l’altro, l’empia alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo.
Prendendo atto della Dichiarazione del Messico sull’uguaglianza delle donne e il loro contributo allo sviluppo e alla pace, 1975, proclamata dalla Conferenza mondiale dell’Anno internazionale della donna, tenutasi a Città del Messico dal 19 giugno al 2 luglio 1975, che ha promulgato il principio che “la cooperazione internazionale e la pace richiedono il raggiungimento della liberazione e dell’indipendenza nazionale, l’eliminazione del colonialismo e del neocolonialismo, dell’occupazione straniera, del sionismo, dell’apartheid e della discriminazione razziale in tutte le sue forme, nonché il riconoscimento della dignità dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione”,
Prendendo atto anche della risoluzione 77 (XII) adottata dall’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo dell’Organizzazione dell’Unità Africana nella sua dodicesima sessione ordinaria, tenutasi a Kampala dal 28 luglio al 1° agosto 1975, in cui si riteneva “che il regime razzista nella Palestina occupata e i regimi razzisti dello Zimbabwe e del Sud Africa hanno una comune origine imperialista, formano un tutt’uno e hanno la stessa struttura razzista e sono organicamente legati nella loro politica mirata alla repressione della dignità e dell’integrità dell’essere umano”,
Prendendo atto anche della Dichiarazione Politica e della Strategia per rafforzare la pace e la sicurezza internazionali e per intensificare la solidarietà e l’assistenza reciproca tra i paesi non allineati, adottata alla Conferenza dei ministri degli affari esteri dei paesi non allineati tenutasi a Lima dal 25 al 30 agosto 1975, che condanna severamente il sionismo come minaccia alla pace e alla sicurezza mondiale e invita tutti i paesi a opporsi a questa ideologia razzista e imperialista, stabilisce che il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale.
24a riunione plenaria
10 novembre 1975
4 https://www.worldjewishcongress.org/en/85th-anniversary/fighting-delegitimization-the-united-nations-zionism-is-racism-resolution-a-case-study