LA PASSEGGIATA di Robert Walser
Traduzione in italiano; tratti distintivi e strategie scrittorie: stile, poetica, etica
di Marco Piras-Keller (*)
La traduzione in italiano
La traduzione di Emilio Castellani[1] è certamente un ottimo testo in italiano, e ha, probabilmente, il grande merito di avere interpretato La Passeggiata – e dunque Walser – in maniera tale da riuscire ad avvicinare il lettore italiano a questo scrittore e a questo testo non per tutti subito accattivante. Ma, certamente, tale avvicinamento sacrifica qualche tratto della scrittura, e con ciò, qualcosa della possibilità di comprensione del sentire di Walser. Una scrittura, quella di Robert Walser, nella quale si trovano spesso punti di inciampo, tradimento delle attese, ruvidità talvolta quasi irritanti, accostamenti arditi o difficili, espressioni insolite. In qualche caso potremmo dire anche ‘bizzarie stravaganti’ o, sarebbe lo stesso ‘stravaganze bizzarre’, per il sentire comune. Certamente sono estranei al testo di Walser quegli ‘automatismi’ di tanta scrittura che a un nome accostano quasi obbligatoriamente un aggettivo, tale per cui il bosco è ombroso, l’albero frondoso, il caldo soffocante, il cielo plumbeo, l’atmosfera pesante, lo sguardo intenso, l’ovale del viso perfetto, il mare incantevole ecc[2]. Niente di abusato e poco di già sentito nelle scelte di Walser.
Ci sembra, in generale, che possiamo individuare un importante tratto distintivo del fare della traduzione italiana: rendere più piana, più facile, più ‘normale’, più ‘accettabile’ la scrittura di Robert Walser. Potremmo forse azzardare: renderla più convenzionale. Oltre a ciò – qui siamo su un altro livello di considerazioni – ci sembra di rilevare qua e là, fraintendimenti, scelte arbitrarie che, in più di un caso, fanno pensare a vere e proprie sviste o, anche, a non corretta interpretazione del testo tedesco.
Per meglio fare comprendere quanto detto, di seguito proponiamo un campione ristretto dell’ampia schedatura disponibile delle caratteristiche della traduzione in italiano. Il nostro tentativo è quello di porre il lettore più vicino al sentire e alla scrittura di Walser, alla sua intenzionalità, servendoci del confronto di punti della traduzione italiana con l’originale in tedesco. Un confronto che, peraltro, ci dà l’occasione di mettere in evidenza tratti e caratteri importanti della scrittura di Robert Walser, che la traduzione italiana non sempre rivela. Di questo aspetto ci occuperemo più avanti e più ampiamente.
Di seguito, mettiamo a confronto il testo originale (ted.) con una nostra traduzione che tenta di essere aderente al testo originale, diciamo letterale (lett.), senza pretese letterarie, e, infine, la traduzione di castellani, in italiano (it). Tra parentesi i rispettivi numeri di pagina delle versioni tedesca[3] e italiana.
Identifichiamo gli esempi con numero progressivo: 1), 2) ecc.
1
ted (14) Ich nahm mir durchaus fest vor, schätzenswerter Aufforderung[4] zu gehorchen und bei fraglicher Person zur angegebenen Zeit pünktlich aufzutauchen.
lett Mi proposi senz’altro fermamente di obbedire all’apprezzabile convocazione della persona in questione all’orario indicato, puntualmente.
it (21) Mi proposi fermamente di accogliere l’apprezzabile invito e di comparire presso la dama in questione all’esatta ora indicata.
Indubbiamente risulta estraniante, o perlomeno bizzaro, che qualcuno possa venire convocato a pranzo, invece che invitato, e che ubbidisca a tale convocazione invece di, semplicemente, accettare o accogliere l’invito. Il registro dell’originale è piuttosto militaresco, non certo quello del convenzionale galateo, eppure la scelta del registro terminologico di Walser è chiarissima.
2
ted (34) Der Mensch, der hier spaziert, …
lett L’uomo che qui passeggia …
it (41) Ma il vostro camminatore …
In un testo intitolato La passeggiata (Der Spaziergang) diventa significativa anche la selezione tra passeggiare (che usa Walser) e camminare (cui ricorre il traduttore). Nella letteratura tedesca il tema dello spostarsi a piedi tiene conto in maniera molto ‘specialistica’ dei concetti diversi del muoversi a piedi: spazieren, non è wandern, né gehen per citare alcuni elementi qui più pertinenti di quel campo semantico. Tanto più importante in uno scrittore svizzero alemanno[5] nella cui cultura il laufen (‘camminare’ nel tedesco degli svizzeri alemanni) è quasi sport nazionale.
Anche l’appello fatto dall’autore al lettore, come risulta dalla traduzione (il vostro camminatore) è discutibile, visto che quella dell’appello al lettore è una strategia narrativa che Walser utilizza in altri punti; ma in questo caso non la utilizza; ne risulta, pertanto, un certo travisamento del tono e della scelta dell’autore.
3
ted (76) … ausschauende … ein Trupp … Kühe …
lett … scruta … una truppa di mucche …
it (88) … guarda fuori … un branco di mucche …
Certamente, dire truppa di mucche è qualcosa di insolito, che colpisce, ma Walser non usa Herde (branco), termine certamente più appropriato al campo semantico bovini.
4
ted (76) … in Löwenkäfigen eingesperrten grimmigen Löwen …
lett … truci leoni rinchiusi in gabbie da leoni …
it (89) … truci leoni rinchiusi in gabbie, …
Anche Walser avrebbe potuto dire semplicemente chiusi in gabbie, aderendo a un linguaggio più convenzionale, eppure fa la scelta della ridondante bizzarra specificazione[6].
Un esempio molto simile è il seguente:
5
ted (29) … Bohnenbuschen voll Bohnen …
lett … piante di fagiolini piene di fagiolini …
it (36) … filari di fagioli pieni di bacelli …
Una sorta di razionalizzazione testuale-lessicale, quella operata da Castellani, mediante eliminazione della specificazione ridondante.
Nello stesso brano, quelli che in originale leggiamo come comodi floridi orti pieni di verdura contenta diventano in traduzione floridi orti pieni di ogni bendidio, di prosperi legumi. Dunque, anche qui, una scelta che normalizza un testo non normale. Peraltro, non di legumi si tratta ma di verdura (Gemüse).
6
ted (84) … ins finstere Loch, in den Boden hinein, in das Grab hinab …
lett … nel buco buio, giù nella terra, giù nella tomba …
it (98) … nella fossa buia, nel grembo della terra, giù nella tomba …
La tendenza alla normalizzazione in questo caso diventa vero e proprio ingentilimento e innalzamento del registro stilistico rispetto ai crudi nomi e aggettivi dell’originale.
7
ted (30) … kam ein Mensch, ein Ungetüm und Ungeheuer mir entgegen …
lett … mi venne incontro un uomo, un colosso e mostro …
it (36) … mi venne incontro un uomo, un’apparizione inconsueta e formidabile …
Il che è una ‘trasfigurazione’ del testo originale. Anche in questo caso la traduzione ricorre a un termine, “apparizione”, che ha una valenza particolare nell’economia terminologica dell’opera, come si vedrà oltre. Ma qui, Walser non fa ricorso a ‘apparizioni’.[7]
8
ted (30) Mit größter Leichtigkeit würde mich der Riese haben erdrücken oder zertreten können.
lett Con la massima facilità (leggerezza), il gigante avrebbe potuto calpestarmi o schiacciarmi.
it (37) Con la massima facilità, quel gigante avrebbe potuto schiacciarmi e calpestarmi.
Alla luce dell’importanza che assumono e /o nella ‘strategia scrittoria’ di Walser, ne La Passeggiata, tradurre oder (o) con e non solo è arbitrario ma contravviene a una ben delineata strategia di Walser[8]. Soprattutto non tiene conto di un tratto importante, se è vero, come riteniamo, che Walser ricorre ‘provocatoriamente’ alla scelta sinonimica proposta da e / o, come volesse svelarci in diretta il farsi della scrittura, proponendo al lettore una selezione lessicale che le due congiunzioni rendono possibile.
9
ted (55) Jeder Spaziergang ist voll von sehenswerten, fühlenswerten Erscheinungen.
lett Ogni passeggiata è piena di apparizioni degne di essere viste, degne di essere colte.
it (65) Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite.
Qui, quello che ci interessa è che Walser parla di Erscheinungen e non di incontri. Importa rilevarlo perché anche le Erscheinungen sono una parola chiave nel testo e rimandano a una certa visionarità, a apparizioni quasi fantastiche che si offrono al passeggiatore[9].
Alcune scelte della traduzione in italiano ci sembra siano del tutto arbitrarie, probabilmente ascrivibili alla detta tendenza ad appianare quelle che, evidentemente appaiono stranezze giudicate, probabilmente, non adatte al lettore italofono.
10
ted (72) … der Herr Erwachsene …
lett … il signor adulto …
it (84) … l’attempato signore …
È chiaro che l’attempato signore è molto più normale del quasi scherzoso signor adulto, stilisticamente ‘provocatorio’ e, comunque, insolito.
E perché un convoglio ferroviario che transita sfrecciante diventa in italiano un treno che avanza sbuffando, ciò che richiama, piuttosto, affannata lentezza?
11
ted (60) Der vorbeisausende Eisenbahnzug war voll Militär.
lett Il convoglio ferroviario sfrecciante era pieno di militari.
it (70) Il treno avanzò sbuffando, carico di militari che …
12
ted (76) … Holzer und Waldmenschen …
lett … tagliaboschi e uomini del bosco[10]…
it (89) … legna e boscaioli …
La resa con legna è uno di quei dei casi che fanno pensare a una svista.
Alla stessa tipologia ci sembra di potere ricondurre i due seguenti esempi:
13
ted (8) … Habichts- oder Adlernase
lett … naso adunco (da astore) o aquilino
it (12 … naso aquilino o nobiliare
14
ted (30) … hier mitten auf dem Weg …
lett … qui in mezzo alla strada …
it (37) … qui a mezza via …
In questo ultimo esempio riteniamo che l’originale faccia piuttosto riferimento a un dato posizionale rispetto alla strada più che a una metafora temporale a mezza via, come potrebbe essere a metà del cammino.
Particolarmente importante ci pare il seguente punto, per il testo tutto; importanza sottolineata dallo stesso Walser.
15
ted (60-61) Hier beim Bahnübergang sei etwas wie der Höhepunkt oder das Zentrum …
lett Qui, al passaggio a livello, sia qualcosa come il culmine o il punto centrale …
it (71) Qui, al passaggio a livello … forse si trova in certo modo il culmine, il punto centrale …
Walser non dice forse si trova, ma come colui che decide, inventa e scrive il testo e ordina la narrazione, la scenografia, dice: qui sia, qui si collochi, perché tale è il disegno di chi scrive. Quasi un’indicazione registica o un appunto promemoria dell’autore che sta pensando alla struttura del testo. Peraltro, il passaggio a livello segna, all’interno del testo, anche un punto di cambiamento stilistico e di atmosfera tra la parte precedente e quella successiva, come si dirà meglio in seguito. Uguale maniera utilizza in altri punti, nei quali, usando questo congiuntivo esortativo si pone come un illusionista che ha il potere di fare apparire le cose, o come un Dio creatore che biblicamente ordini il farsi di un qualcosa.[11] Da rilevare inoltre ancora un o (oder) che viene reso in italiano, con una virgola. E a tale proposito di veda oltre e quanto già anticipato nelle considerazioni all’esempio 8.
16
ted (77) Und überall, auf allen diesen Dingen, liebe Abendsonne.
lett E dappertutto, su tutto questo, caro sole serale.
it (90) E dappertutto, al disopra di tutto questo, il bel sole della sera.
Ci sono due cose che rileviamo in questo segmento: il sole è caro, amorevole, e sta, poggia su tutte le cose (auf), le impregna, per così dire, mentre nella traduzione, il sole bello è nel cielo, al di sopra di tutte le cose.
Certo, proporre una traduzione letterale forse non risponde ai crismi dell’eleganza o del linguaggio comune, ma Walser avrebbe potuto usare, per esempio, l’articolo per rendere la frase più usuale (die liebe Abendsonne), però non l’ha fatto.
Walser, certamente, non ha paura della ripetizione di una parola a breve distanza nel testo e così nell’originale (32, 33), ripete nove volte la parola Wald (bosco, foresta, selva ecc.), isolata o in parola composta (per es. Tannenwald “bosco di abeti”), mentre la traduzione in italiano (38-40) si impegna decisamente nella ricerca della variatio, così che troviamo ‘selva’ (3 volte), ‘foresta’ (2 volte), ‘abeti’, ‘silvestre’, ‘terreno boscoso’, ‘bosco’.
Chiunque conosca un po’ il tedesco o sfogli il dizionario, potrà osservare, a ragione, che in quella lingua non è facile trovare sinonimi o quasi sinonimi per Wald, ma è certo che se allo scrittore non fosse piaciuta la ripetizione, avrebbe trovato i mezzi stilistici e lessicali per variare. Rileviamo la cosa perché ci sembra che spesso, in più parti del testo, per questo aspetto e per altri, Walser faccia certe scelte stilistiche provocatoriamente, quasi in polemica con dettami di critici, editori, lettori e forse editor; così come, per coerente convinzione, si scaglia contro la ricerca smaniosa delle novità, come vedremo.
Vari sono anche i casi in cui la traduzione, stranamente, dimentica, tralascia, salta qualche parola dell’originale o parte di una frase, soprattutto in occasione di lunghe elencazioni. Fatti, probabilmente, riconducibili a semplici sviste.
Teniamo a segnalare un particolare caso in cui la traduzione non ha colto una caratteristica dell’originale, per noi molto significativa, e che interessa punti che toccheremo più avanti, rilevanti dal punto di vista stilistico e dei temi cari a Walser. Parliamo dell’incrociarsi del passeggiatore con il Professor Meili in una piazza.
Nella seconda pagina del testo (12) – e qui dobbiamo ricorrere all’originale in tedesco, quale fonte – il passeggiatore vede arrivare dalla direzione opposta alla sua il signor Professor Meili (Herr Professor Meili) il quale, avvicinatosi un po’, diventa Professor Meili e giunto all’altezza del passeggiatore si riduce al solo Meili; allontanandosi ridiventa Professor Meili e ancora più lontano si amplia ancora a Herr Professor Meili. Come si vede una costruzione in cui la distanza maggiore o minore aggiungono o tolgono attributi al personaggio Meili. Che sia una costruzione voluta ci sembra lo testimonino due cose. La prima è che nella prima stesura[12] di Der Spaziergang, non esisteva questa rigorosa correlazione tra attributi e lontananza–vicinanza; la seconda è deduttiva, conseguentemente alla prima. A noi sembra di poter dire che questa costruzione è legata al tema dell’essere e dell’apparire (o volere apparire) che ha molto spazio ne La Passeggiata e che riprenderemo più avanti: visto da lontano, il famoso e autorevole professorone è il signor Professor Meili, ma visto da vicino è un semplice Meili.
Questo ci introduce anche a un altro tema che toccheremo e cioè che La Passeggiata è un testo strutturato, costruito, oltre che ispirato. In ogni caso, non un testo in cui domini il libero fluire della scrittura, come talvolta si legge quale caratteristica della scrittura di Walser in generale.
Riassunto
Il testo copre l’ambito temporale di una giornata, incentrato su una passeggiata che un passeggiatore compie dal mattino al tramonto in una cittadina della Svizzera alemanna[13]. Nessun dubbio sul fatto che passeggiatore, narratore in prima e in terza persona, nonché “inventore e scrittore di queste righe” (21) [14] e, infine, Robert Walser siano la stessa persona. Il passeggiatore, dunque, abbandonato il suo “scrittoio o stanza degli spiriti” (11), dove invano si è accanito “ad almanaccare tetramente su un foglio bianco”, nel tentativo di portare avanti il lavoro di scrittura; si precipita per le scale e incrocia una donna che, per il suo aspetto esotico, gli suggerisce subito un senso di avventura e di romanticismo.
Uscito all’aperto, viene preso da “un’attesa gioiosa di tutto ciò che avrebbe potuto venirmi incontro o presentarmisi” (12). Incrocia un professorone di chiara fama –il detto Meili- discute con un libraio al quale chiede gli venga mostrato il libro più letto, più ammirato, più venduto e più valido del momento; ha un lungo colloquio con un funzionario delle tasse; ingaggia un accanito duello dialettico con un sarto presso il quale ha da provare un abito, e, intanto, annuncia di essere stato convocato a pranzo dalla signora Aebi e di volere obbedire a tale convocazione[15]; pranzo che, condito da un dialogo assurdo, sembra, in un primo momento, configurarsi come tentativo di omicidio del passeggiatore, mediante ingozzamento da parte della signora.
La libreria, “libraio compreso”, viene ‘fiutata’ dal passeggiatore, mentre una panetteria viene individuata visivamente grazie a un’insegna scritta a lettere dorate. Un rovesciamento percettivo sensoriale, dunque[16].
Altri incontri importanti saranno con un’attrice, una cantante e con la paurosa figura del “gigante Tomzack”.
“Tutto questo lo descriverò…” dice il passeggiatore : “… ne parlerò in uno scritto o in una fantasia che chiamerò La passeggiata” (33). Dunque, in questa occasione, il narratore si pone rispetto al testo, nella prospettiva di un progetto da realizzare.
Gli incontri con i vari personaggi danno luogo a dialoghi -in realtà, quasi monologhi- non credibili, in ogni caso surreali. Nel dialogo -‘duello’ con il sarto si raggiungono toni epici, con notevole ricorso alla terminologia guerresca:
“..in vista di quella pericolosa guerra offensiva <l’incontro con il sarto> mi armavo di doti quali coraggio, tenacia, collera, sdegno, disprezzo e addirittura disprezzo della morte, armi indubbiamente impareggiabili e con le quali speravo di scendere vittoriosamente e felicemente in campo…” (51-52)
Anche l’attività dello scrittore viene confrontata in più punti del testo con quella di un generale che dispone a battaglia le sue truppe[17]. È una guerra continua il confronto con gli editori, superare il fuoco di sbarramento di tutto l’apparato di critici e recensori, misurarsi con i gusti dei lettori: “Di ogni sorta di lettori io ho sincera e costante paura” (33).
Degli accadimenti durante la passeggiata fa parte anche la “pericolosa” attività dell’imbucare una lettera “di sfida” fortemente polemica, diretta a un editore, la quale lettera avrebbe provocato un “fierissimo stato di guerra” (55).
Immerso in un bosco e in sogni fiabeschi, gli sovvengono pensieri di morte: “Sì, sarebbe bello avere una tomba nel bosco… Ecco quel che mi auguro” (40).
Raggiunto un passaggio a livello ci dice che: “Qui, al passaggio a livello … forse si trova, in un certo modo, il culmine, il punto centrale dal quale poi andrà tutto declinando” (71). Dunque, il climax o un punto di svolta, che non è della fabula (che -detto drasticamente- non c’è) ma del registro stilistico. Superato il passaggio a livello, infatti, predominano la liricità, la malinconia, il ricordo, una sorta di pittorica ‘atmosfericità’ del paesaggio e delle cose, la visionarietà: era come se “Dio Onnipotente in persona, nostro benigno Signore e padrone, procedesse sulla strada per renderla indicibilmente bella. Fantasie d’ogni specie m’inducevano a credere che Gesù Cristo fosse venuto lì e che ora si aggirasse insieme con tutta la buona, cara gente per l’incantevole contrada” (71-72).
La vista di alcune dimore e di una cappella gli richiamano alla mente personaggi quali gli scrittori Clemens Brentano e Jakob Lenz, nonché il pittore Karl Stauffer Bern, e lo sentiamo toccato dalle tristi vicende esistenziali di questi personaggi e ci sembra che li scelga per accomunarli a se stesso. Seguono visioni da sogno di un castello romantico e da atmosfera medievale e cavalleresca. Ma ecco che il sogno svanisce “al suono di una delle più maleducate, anticavalleresche, sgarbate e impudenti automobili che mai avessi incontrato” (82), contro le quali auto ha già avuto modo di inveire precedentemente. Poco oltre, “un signore distintissimo che mi veniva incontro al trotto, elegante e impettito nel suo vanesio ballonzolìo” (84) gli fa pensare che è inopportuno agghindarsi in maniera così appariscente quando ancora ci sono al mondo bambini laceri e abbandonati. Ma concede che non si può aspettare che tutti i problemi del mondo vengano risolti, per permettersi di godere delle cose belle. Una giovane operaia scarmigliata, che corre a casa affannata per sbrigare ancora – sembra di capire – lavori domestici dopo l’uscita dal lavoro, la confronta con “tante signorinette o piccole studentesse viziate” (85) che passano il tempo a truccarsi per “accrescere lo splendore della loro immagine”. Ma deve riconoscere che una qualunque di queste signorinette “potrebbe quasi comandarmi a bacchetta e io le ubbidirei ciecamente” (86). L’ultimo incontro importante è con un “manifesto o affisso” di una trattoria ristorante, che afferma di volere ammettere al suo interno solo persone distinte, e che invita chi non abbia le caratteristiche dell’uomo distinto e danaroso ad astenersi dall’entrare e a tenersi alla larga. Questo, in una dichiarazione di oltre cinque pagine (90-95) all’interno della quale, ammette l’autore, il lettore potrà trovare qualche ripetizione. Compare anche “un parroco o maestro che fosse” con “una scolaresca di ragazzi e ragazze” (96).
Incombe la sera e tutto volge al termine; prendono il sopravvento i pensieri malinconici e tristi: il ricordo di un vecchio derelitto sdraiato per terra, veduto qualche giorno prima e il ricordo di una fanciulla che se ne era partita e alla quale il passeggiatore non aveva saputo manifestare il proprio amore. Ma ormai “era già tardi e tutto si era fatto buio” (99).
Riassumere La Passeggiata non prevede il racconto di una trama, che non c’è, ma elencare quadri isolati, paesaggi dell’anima, riflessioni sulla scrittura e sul ruolo dello scrittore, richiami a problemi esistenziali, sociali, etici, della poetica; il tutto con una natura sullo sfondo, sempre presente, di cieli azzurri e prati verdi[18]. Ma tale è la densità di suggerimenti d’indagine e di osservazioni, che ogni riassunto non può che essere quanto mai arbitrario e estremamente parziale rispetto ai contenuti che spuntano a ogni pie’ sospinto della passeggiata.
I dialoghi che svelano il pensiero
Una prima lettura del testo può risultare disorientante. Una delle cose che più agiscono in tal senso sono, certamente, i dialoghi. Inverosimile il dialogo con il libraio, così pure quello con il bancario. Questi comunica al passeggiatore che alcune signore – “benevoli dame, o stavo per dire … fate” (18) dirà il passeggiatore – hanno accreditato sul suo conto 1000 franchi. Il bancario osserva: “La notizia le farà indubbiamente piacere, perché, parlando con franchezza, lei ci dà l’impressione, se così possiamo esprimerci, di abbisognare in modo addirittura inquietante di una delicata assistenza.” Come estrema opzione un simile impiegato, in Svizzera finirebbe in manicomio o, come ipotesi più blanda, verrebbe licenziato senza la speranza di trovare altra occupazione. È altrettanto certo che un impiegato delle tasse non avrebbe mai detto né direbbe a un contribuente: “Non le abbasso le tasse, perché invece di lavorare lei va a passeggiare anche nei giorni feriali, mentre una persona a posto dovrebbe lavorare”. È, però, del tutto credibile che quell’impiegato delle tasse avesse potuto pensare: “Guarda un po’ questo bel tomo, non vuole pagare tasse perché dice che non guadagna. Ma perché non va a lavorare invece di stare tutto il giorno a spasso?” Così l’impiegato della banca, non gli avrebbe mai detto quanto riportato sopra del dialogo, ma, certamente, avrebbe potuto pensarlo. Anche le conversazioni con la signora Aebi durante il pranzo, con il libraio, con il sarto, anch’esse non poco disorientanti, possono riuscire credibili se si attribuisce a pensiero quanto viene presentato come discorso diretto a voce alta.
A noi pare che il disorientamento dipenda in parte da questo ‘trucco’ narrativo che Walser pone in essere, mettendo il sonoro ai pensieri, offrendoceli come dialoghi a voce alta. Se si ammette questo rovesciamento, i dialoghi diventano meno assurdi e meno impossibili.
Questa ‘modalità di racconto’ ci rimanda anche al discorso sull’essere e l’apparire, un tema dominante nel testo, che riprenderemo.
Personaggi veri e personaggi travisati
I personaggi che l’autore incontra – i quali, anzi, solitamente gli vengono incontro – e con i quali dialoga o ‘monologa’, si possono descrivere in due ‘tipi’:
– personaggi che si rivelano essere di fatto quali l’autore dichiara che siano: il sarto è il sarto, il bancario è il bancario, la signora Aebi è la signora Aebi, l’impiegato delle tasse è l’impiegato delle tasse e il manifesto della trattoria è anch’esso tale quale si dichiara;
– personaggi travisati: la cantante è, in realtà, una ragazzina canterina affacciata alla finestra; la nota attrice è, di fatto,una qualunque signora seduta all’aperto su una panchina, probabilmente a prendere il fresco o il sole; lo spaventevole gigante Tomkzak si rivela essere un povero disadattato innocuo, una sorta di scemo del villaggio. Queste trasfigurazioni ci ricordano i travisamenti di persone e cose da parte di Don Chisciotte, solo che il nostro passeggiatore finisce per svelarci, egli stesso, travisamenti, trasfigurazioni e travestimenti: non di cantante si tratta, non di attrice, non di spaventoso gigante. È lo scrittore che li trasforma in qualcos’altro: lo scrittore ha il diritto-potere di inventare, creare, reinventare le cose, i fatti, le persone, le situazioni, di proporre un’alternativa all’apparenza superficiale, all’apparenza prima. Ma poi svela il trucco, toglie il travestimento e quasi delude il lettore.
Mentre con i personaggi del primo tipo, il passeggiatore intrattiene un dialogo fortemente conflittuale o in punta di fioretto, con quelli del secondo gruppo, i quali, peraltro, non fanno nulla per sembrare altro da quello che sono, non c’è conflitto ma solo un dialogo (monologo) molto sereno e pacato, e a queste figure il passeggiatore, addirittura, rivela il proprio animo, i suoi pensieri intimi.
Selezione lessicale
Un altro tratto della scrittura di Walser ne La Passeggiata e che crea anch’esso un qualche senso di estraniamento, è la frequentissima offerta di coppie di sinonimi o quasi sinonimi, raccordati dalle congiunzioni e / o, quali già abbiamo incontrato in alcune citazioni dal testo[19]. Ecco qualche altro esempio:
“…pranzerà e mangerà nel palagio o casa…” (28)
“…eccomi a parlare di architettura e di arte architettonica…” (86)
“…echeggiarvi e risonarvi…” (39)
“…un circo viaggiante e itinerante…” (89)
“…un’associazione o gruppo di signore caritatevoli e filantrope…” (17)
“…da qualsiasi distruzione o da qualsivoglia rovina.” (19)
“… due figure o personaggi…” (28)
“…un castello o fortilizio…” (79)
“…riservare un posticino o cantuccio anche alla letteratura” (86)
“…gente usa a bersi la paga o lo stipendio” (91)
solo per elencarne alcuni dei numerosissimi[20].
Un tipo particolare di selezione lessicale è quello che si propone attraverso la scelta tra il nome in tedesco e l’equivalente francese:
“…un chioschetto o bersò…” (75);
“scrittore o homme de lettres” (62);
“…sarto o marchand tailleur…” (51).
Intanto, bisogna tenere presente che la città natale di Walser è bilingue, germanico/francese (Biel /Bienne); ma non è da escludersi che quest’uso rappresenti anche un fare il verso a chi fa di tutto per ‘apparire’ più chic, à la page, come la qualunque brava donna che vuole apparire una Madame o l’artigiano che vuole apparire un Monsieur (23).
L’autore, dunque, si trova davanti a una scelta tra due sinonimi, ma non sceglie e li lascia entrambi, quasi come possibili risorse da utilizzare. Ne risulta un particolare effetto stilistico ma, soprattutto -ci sembra- è come se l’autore volesse collocare il lettore di fronte al farsi del testo nelle mani e nella mente dello scrittore, porlo davanti al processo dello scrivere.
Ancora sul farsi del testo
Uguale effetto sortisce l’annunciarci l’intenzione di collocare certi oggetti a un certo punto del testo:
“…Sia poi fatta delicata menzione di una drogheria…” (33).
“…Toccherebbe ora farsi avanti a una gentile, simpatica osteria… Il giardinetto sarebbe posto su una bassa collina dal bel panorama; lì vicino starebbe o sorgerebbe un’altra collinetta artificiale o belvedere…” (40). E, nella stessa direzione va l’annuncio: “Tutto questo lo descriverò … ne parlerò al più presto in uno scritto o in una specie di fantasia, che chiamerò La passeggiata” (32, 33).
Tale porsi davanti al testo in fieri ci fa pensare a una finta scrittura momentista: lo scrittore mette su carta quanto vede, quanto gli appare o riflette in quel momento.
Si veda ancora qualche esempio. Mentre in un primo momento annuncia:
“devo andare a pagare forti tasse al municipio o palazzo degli uffici” (46), successivamente ci informa che deve rettificare la precedente affermazione perché, in realtà, deve recarsi all’Ufficio delle imposte non per pagare ma per “un semplice colloquio” (61). O, ancora:
“…una semplice strada mezzo di campagna e mezzo di periferia … niente affatto un parco come ho avuto ora l’ardire di chiamarlo: termine che anzi buono buono mi rimangio” (24-25).
Avrebbe potuto eliminare la prima affermazione, ma no, è come se non potesse. Uno scritto si può cancellare e riscrivere, ma egli chiacchiera mentre passeggia, sta portando avanti una delle sue “prolisse passeggiate” (64) e una parola pronunciata è pronunciata per sempre, capovolgendo il detto secondo il quale verba volant e scripta manent.
Preannuncio o anticipazione
Tratto narrativo ricorrente è anche il preannuncio degli incontri. Viene preannunciato l’incontro con il bancario, con il funzionario delle tasse, con la signora Aebi, con il sarto, con la presunta attrice e con la presunta cantante, con il parroco, con il passaggio a livello e ancora con altre persone e luoghi. In molti casi l’annuncio precede di decine di pagine l’effettivo incontro. Con questi preannunci, lo scrittore ci sta mettendo a disposizione i suoi appunti per il prosieguo della stesura. Dunque, ancora un modo per coinvolgere il lettore nel farsi del testo, ma anche un modo, riteniamo, di svalutare l’elemento sorpresa e tensione e, piuttosto, richiamare l’attenzione sul ‘come’ della scrittura. Non solo.
Tra Estetica e Etica
È indubbio che La Passeggiata sia “un personalissimo trattato – o tesoro – di poetica, come afferma il traduttore in italiano (p. 105). Quasi, anche, ‘trattatello’ di Stilistica con precise enunciazioni e prese di posizione su numerosi temi. Walser fissa certe sue convinzioni su ciò che è la scrittura, la professione di scrittore, e fa affermazioni puntuali su singoli tratti stilistici, per esempio sulla ripetizione o sulla ridondanza, cita l’importanza per la scrittura dell’incidenza dei rapporti associativi, si esprime sulla “meschinità” della ricerca del nuovo a ogni costo (95); si pronuncia sui lettori, sui critici, sugli editori e su tanto altro. E, abbiamo visto, rivela o svela, il farsi dello scrivere, dal prendere appunti al progetto del testo, al presentarci il testo in fieri in un alternarsi di ottiche temporali, con prospettive da dentro e da fuori dal testo, con appelli al lettore, a se stesso, ossia all’ “inventore e scrittore di queste righe” (21).
Come già accennato di sfuggita, il testo offre anche, in una certa misura, un credo etico, con chiare prese di posizione del passeggiatore su cosa sia buono o esecrabile. Tra le cose positive, elenca “affettuosità, bontà”; “cortesia, ogni senso di bellezza e di onestà”; “antico buon gusto”; “innata costumatezza”; “buon vecchio senso di purezza”; “antica, benedetta frugalità”; “rispettabilità e modestia”; “la calma e ciò che è calmo”, “la parsimonia e la moderazione”; “l’andare a piedi” (contrapposto alla velocità dell’auto che non fa godere delle cose che vengono sfiorate a grande velocità); naturalmente, passeggiare: “Senza passeggiate sarei morto e da tempo avrei dovuto rinunciare alla mia professione, che amo appassionatamente” (64).
Tra quelle negative annovera: la “grossolana boria”; “morbosa smania stracciona di millantare”; “spacconeria e vanità esecrabili”; “miserabile frenesia di voler apparire”; “deprecanda maschera di cattiveria, di egoismo abominevole”; quelli che “rispettano il denaro, e tale rispetto impedisce loro di stimare altamente qualsiasi altra cosa”; “cattiveria, sofferenza, dolore”; “avarizia, che è quanto di più volgare vi sia al mondo”; “automobili fredde e cattive”.
Forse è da rimarcare che tra le cose positive ne annovera molte che considera ormai del passato, e che sia le cose positive che quelle negative sono quasi sempre qualificate anche da un aggettivo.
E, tra Etica e Poetica, ecco quanto dedica al nuovo peggiorativo: “L’incessante esigenza di godere e gustare sempre qualcosa di affatto nuovo mi sembra, tutto sommato, denotare meschinità, carenza di vita interiore, alienazione dalla natura e mediocre o scarsa capacità d’intelligenza. È ai bambini che bisogna mostrare di continuo qualcosa di nuovo e di diverso, se si vuol farli contenti” (95).
Abbiamo visto, nelle precedenti riflessioni sulla traduzione in italiano, come in breve spazio Walser utilizzi nove volte la parola Wald (bosco, foresta) senza darsi pensiero di trovare una variazione o alternativa. Si esprime convintamente sulla non obbligatorietà di ricorrere a cose sempre nuove: “Lo scrittore serio non può sentirsi in alcun modo sollecitato a mettere nuova carne al fuoco, a soddisfare prontamente ansiosi appetiti; di conseguenza, egli non ha alcun timore di cadere in qualche ripetizione” (95). Considerazione, ci sembra, solidale con quella riportata poco sopra, a proposito dello scarso interesse per la sorpresa, per il colpo di scena, per la svolta drammatica.
La ripetizione, l’uso assai frequente di coppie di quasi sinonimi legati da e / o, la mancanza di tensione narrativa a favore, piuttosto, di una tensione stilistica, sembra che Walser le usi provocatoriamente. Ci si potrebbe leggere -e con ciò ci ripetiamo- una più o meno velata polemica contro certi editor, editori, critici e lettori cui ripugnano la ripetizione e la ridondanza (non importa se utilizzata per meditata scelta stilistica) e prediligono tensione, sorpresa, uno o più climax, punti di svolta, cose inaudite o mai sentite, orrido, truculento, sesso, quali elementi di attrazione e tutto quanto più possa somigliare a un veloce e elettrizzante avvicendarsi di scene veloci in un film veloce, magari con una sceneggiatura di scarsa qualità.
Walser non si serve di trame con sorprese e rovesciamenti frastornanti, e se c’è un ‘culmine’ ci avverte: “qui, forse si trova … il culmine, il punto centrale dal quale in poi tutto andrà declinando” che poi, abbiamo osservato, consiste, dopo il passaggio a livello in un salire di registro linguistico. E, comunque, ce ne fa avvertiti, privandoci della eventuale eccitante, improvvisa scoperta.
Essere e (volere) apparire
Il peccato maggiore che Walser individua nell’essere umano è, forse, quello di non risolversi a essere se stesso e, invece, di volere apparire secondo ciò che impongono le convenzioni sociali, la convenienza, il tornaconto: “Al diavolo la miserabile frenesia di voler apparire più di quel che si è! È un’autentica catastrofe. Cose come queste diffondono sul mondo pericoli di guerra, morte, miseria, odio e vilipendio, e impongono a tutto ciò che esiste una deprecanda maschera di cattiveria, di egoismo abominevole. Un artigiano, per quanto faccia, non mi si può gabellare per un Monsieur, né una brava donna per una Madame. Ma oggi tutto ha da essere lucente e brillante, nuovo, raffinato e bello e distinto e superelegante, tutti vogliono essere Monsieur e Madame, roba da vergognarsi” (23).
E ancora: “codesta morbosa smania stracciona di millantare, di darsi delle arie ridicole e penose” (22).
I rimedi sarebbero l’adeguatezza, l’equilibrio, l’armonia, la rispondenza vicendevole delle cose. Davanti a un’insegna di un fornaio a lettere dorate: “Quale rapporto accettabile e giustificato, quale mai sana relazione di parentela può esserci tra delle lettere d’oro sfolgoranti da lontano con orribile spocchia – e il pane? Nemmeno l’ombra!” (22).
Tale peccato di volere apparire quello che non si è è una condizione tipica dell’adulto: “I bambini sono celestiali, perché sono sempre in una specie di cielo. Quando crescono, il cielo scompare d’intorno a loro. Dall’infanzia precipitano nell’esistenza arida, noiosa, calcolatrice degli adulti, e non pensano più che al tornaconto e al decoro” (26).
Anche i pensieri travestiti da dialoghi, di cui si è detto, rientrano, se vogliamo, nella sfera dell’antinomia “essere ed apparire”: le buone maniere e l’urbanità non ammettono che si insulti, si offenda o si umili l’interlocutore, dunque ci si attiene alle regole del vivere civile, alle regole di cortesia – potremmo dire dell’ipocrisia codificata e istituzionalizzata dal linguaggio urbano – ma ciò non impedisce poi di pensare in tutt’altro tono. Ed è questo “tutt’altro” che Walser presenta senza velo, mettendo il lettore nella situazione imbarazzante di chi ascolta i pensieri degli altri.
C’è, tuttavia, anche un apparire altro da ciò che si é, ‘incolpevole’, di chi non fa nulla per esibirsi: bastino gli esempi già citati della ‘cantante’, dell’ ‘attrice’ e del ‘pauroso gigante’. In questi casi è la fantasia o creatività dell’autore a ridisegnare i personaggi. Lo stesso professor Meili, di cui abbiamo detto, probabilmente non fa molto per sembrare chissà che. È l’aura che lo circonda che ne amplifica l’immagine. Immagine che, però, abbiamo visto, sembra sgonfiarsi a uno sguardo ravvicinato e disincantato. Lo stesso passeggiatore e narratore, mentre va a spasso in una strada di campagna, con un abito nuovo, può sembrare “un lord, un gran signore, un marchese che passeggiasse su e giù per il parco” (24) Ma sente il bisogno di giustificarsi, allorché un meccanico gli rimprovera di passeggiare mentre gli altri lavorano: l’abito nuovo, spiega, gli è stato regalato, e non di parco si tratta, ma di una strada di campagna. Del resto, non è forse vero che in certe ore in cui lui si affatica sulle ‘sudate carte’, probabilmente l’operaio riposa?
Critica e pentimento, invettiva e ritrattazione
Contro quello che giudica negatività, vizio, difetto, l’autore si lascia andare in varie occasioni a vere e proprie invettive o, perlomeno, a più o meno severe critiche. Se la prende anche con il contadino che, per avidità di denaro -immagina il passeggiatore- vuole tagliare un bel noce. Colui: “non meriterebbe di meglio che una coscienziosa bastonatura … e mille frustate tocchino al gretto proprietario … Imbecilli di tal fatta andrebbero espulsi dalla comunità. In Siberia, nella Terra del Fuoco dovrebbero finire simili deturpatori e demolitori del bello” (77). Ma, puntualmente, attenua le critiche e riconosce come anch’egli non sia esente da peccati; oppure ritratta le pesanti invettive. Come in questo caso: “Forse, parlando dell’albero, dell’avidità, del contadino, della deportazione in Siberia e delle botte che, a quanto sembra, meriterebbe il contadino abbattendo l’albero, mi sono spinto un po’ troppo oltre e devo ammettere di essermi lasciato trascinare ad arrabbiarmi … Quanto alle mille frustate, di buon grado le ritratto. E senz’altro nego il mio consenso alla sgarbata parola «imbecille». Non posso che disapprovarla e chiederne scusa al lettore” (77-78). Per quanto, forse, sarebbe stato più appropriato chiedere scusa al contadino.
Anche l’incombere del nuovo delle macchine veloci e puzzolenti –pacchiani carri trionfali le chiama- che, tra l’altro, mettono in pericolo i bambini (26), oppure la deturpazione di monumenti con addobbi inadeguati, suscitano le sue invettive; salvo poi pentirsi e ritrattare, accusandosi di troppa precipitazione e di eccessiva severità.
Meno violente le critiche alle “signorinette o piccole studentesse viziate” o al “signore distintissimo elegante”, incurante dei mali del mondo, che abbiamo già incontrato. Ma anche in quei casi, alla critica segue il ripensamento o la tiratina d’orecchi che dà a sé stesso: “Non sarebbe affatto bello che io volessi criticare spietatamente gli altri e insieme trattare me stesso con ogni tenerezza e riguardo” (23-24)
Questo frequente criticare e inveire e poi pentirsi, a noi suggerisce la riflessione che si tratti di un tratto retorico stilistico collegabile anche a un tratto o strategia comportamentale, se non esistenziale. Si pente o ritratta non perché non sappia decidersi a prendere una posizione. Si pente o ritratta ma, intanto, la sua opinione l’ha espressa netta e chiara. Vive in un mondo, in una società che non tollera facilmente le ‘devianze’, i toni alti, sopra le righe, neppure il tono di voce elevato, e dunque, forse, per non essere preso davvero per matto, quasi con la coscienza di vivere straniero in patria, trova il modo di fare un’affermazione ‘forte’ e di buttarla in celia come chi a una battuta critica faccia seguire l’attenuazione “sto scherzando”. Quasi come dicesse: “Ci sarà pure chi mi capisce, chi ha orecchie per intendere, intenda”. E, comunque, che utilizzi tale pratica intenzionalmente, strategicamente, ce lo comunica bellamente: “Poiché ho già dovuto scusarmi più volte, ho ormai sufficiente pratica di tale buona usanza” (78).
Passeggiare e lavorare
A Walser piace altrettanto “passeggiare quanto scrivere, anche se magari questa seconda cosa un’ombra meno della prima” (29). Che Walser passeggiatore si senta colpevolizzato per il fatto che non svolge un lavoro produttivo e regolare e si senta assimilato a un fannullone perdigiorno, appare chiaramente dal testo che stiamo guardando. Al funzionario delle tasse che lo rimprovera perché lo si vede sempre a spasso, giorni festivi e giorni feriali, egli oppone una fiera, accorata e lunga argomentazione a difesa del passeggiare (61-70), che riassume aspetti del suo credo esistenziale e della sua poetica: scrivere è il modo per vivere, e per scrivere deve passeggiare: da ciò che vede passeggiando trae la sua ispirazione, motivi e materiali per la scrittura. Senza passeggiare, dunque, non solo non potrebbe vivere ma neppure potrebbe scrivere.
Particolarmente interessante, in quest’ordine di considerazioni quanto all’inscindibilità dell’attività del passeggiare e dello scrivere, come due cose legate a doppio filo, è la constatazione che fa a un certo punto, per la quale “…l’autore… fino a quel momento … avrà da lasciarsi indietro considerevoli tratti di strada, nonché da scrivere parecchie righe …” (28), quindi passeggiare e scrivere come realtà parallele che non possono prescindere l’una dall’altra e riconducibili a un’unica unità di misura o, forse meglio a un unico strumento di misurazione.
Straniero in patria
Forse, come dice Peter Bichsel[21], abbiamo a che fare con “un ‘onesto’ svizzero, costantemente occupato a giustificarsi e difendersi, costantemente preoccupato di non fare brutta impressione sui suoi vicini” perché anche il giudizio del vicino conta e bisogna temere. Certo, Walser è svizzero, ma forse soffre anche di quella che potremmo chiamare ‘sindrome dello straniero’, che si preoccupa di cosa possa pensare di lui il vicino e cerca, per quanto possibile, di non discostarsi troppo da usi e costumi e modi di fare consacrati e cerca di essere riconosciuto e accettato come membro di quella comunità entro cui vive e che lo osserva
In ogni caso, il passeggiatore sente su di sé l’esame e il giudizio del bancario, del funzionario delle tasse, e chissà ancora di chi altri; pensieri e giudizi critici sulla sua persona. In tutto ciò, il tema lavoro ha un forte peso, se è vero che nella società nella quale egli vive, la laboriosità è qualifica irrinunciabile, imprescindibile e, certamente, una delle principali virtù civiche e, insieme, patrie. E Walser sente il bisogno di difendersi quando ha l’impressione che lo si consideri un fannullone.
Dunque, anche la necessità di un preventivo autocensurarsi per le sue intemperanze critiche e per le sue invettive, un provare a non dare troppo nell’occhio, prima che intervenga qualcun altro a censurare le sue escandescenze e stranezze: la società, lo Stato, un qualche funzionario, un medico, un datore di lavoro, un fratello, la sorella. Una società nella quale l’enfasi nell’esprimere le proprie convinzioni, sentimenti, dissensi, deve essere misurata e controllata.
Dalle conversazioni con Carl Seelig[22] sembra che Walser nel manicomio di Herisau, svolgesse diligentemente il suo lavoro e, pur avendone il permesso, evitava di assentarsi dal lavoro che condivideva con i compagni di internamento.
La reclusione all’interno del manicomio è possibile che non fosse più problematica, quanto a estraniamento, dell’immersione entro la società di fuori, almeno a partire da un certo periodo della sua vita.
Ci viene in mente la prima pagina di un romanzo della svizzera Fleur Jaeggy[23] la quale racconta che quando era in un liceo, lei e le sue compagne seppero della morte di uno scrittore, che era internato nel manicomio, proprio accanto al loro istituto, e nel quale Walser aveva trascorso oltre vent’anni; ma nessuno ne aveva mai sentito parlare di questo scrittore, neppure la loro insegnante di Letteratura. Eppure si trattava di uno scrittore conosciuto e apprezzato da altri grandi scrittori della letteratura europea. Un rimprovero della Jaeggy al sistema scolastico o a certo ambiente intellettuale svizzero che misconosceva Walser? Forse un rimprovero che si può fare ancora oggi per un non adeguato riconoscimento di un grande figlio da parte della sua Patria?[24]
In quella pagina dedicata a Walser, quasi una compassionevole e amorosa dedica, totalmente staccata dal resto del racconto, la Jaeggy riproduce anche stilemi e immagini della scrittura di Walser; in più, cita la profezia dell’autore della propria morte. Non si avverte forse un rimprovero a un ambiente che è un’”Arcadia della malattia”, dove nitore, pace, idillio vanno insieme a morte, e dove dentro le belle casette listate di bianco alle finestre con calce (anche questo ha qualcosa di tombale) si intuisce un “qualcosa di serenamente fosco e un poco malato”, tale che il paesaggio esterno impone[25] di uscire e passeggiare?
O, forse, ci stiamo facendo condizionare anche noi dalla triste vicenda esistenziale di Walser e, forse, ci stiamo immedesimando troppo?
Scrittura ‘automatica’ o testo strutturato?
Per quanto il testo possa sembrare ‘originale’, ‘strano’ quando non anche demenziale o sconclusionato, pure non si può non vedere una certa strutturazione, con simmetrie, richiami a distanza, addirittura ‘geometrie’ come nel caso dell’incontro con il professor Meili, già descritto. Il venire incontro di Meili al passeggiatore e il successivo allontanarsene è scandito, abbiamo visto, da una parallela ‘graduazione attributiva’: più il personaggio è distante più numerosi gli attributi, e viceversa. Ora, la costruzione ‘geometrica’ che risulta dall’incontro, abbiamo detto, ce la traduciamo nel modo seguente: questo tal Meili, visto da distanza appare come un monumento e a mano a mano che si avvicina perde un po’ d’importanza, fino a che, trovandocelo proprio davanti, risulta la persona più normale di questo mondo, un semplice Meili.
Si potrebbe tracciare uno schema o fare una formula di questa scansione della distanza, ma abusare di questi mezzi o di altri che tendono a portare la critica letteraria o l’analisi testuale nella direzione delle scienze esatte sarebbe forse il modo migliore per distruggere un testo. Forse si rischierebbe di fare quell’opera di ‘dissezione’ tanto temuta da tanti innamorati di Walser.
Per contro, pensiamo anche che a scoprire le strategie utilizzate dallo scrittore, leggibili nella coesione testuale superficiale, il lettore provi un maggiore piacere nella lettura, cogliendo certe intenzionalità comunicative dell’autore e la sottostante coerenza a livello profondo. Questa vediamo noi come la vera suspense che Walser nasconde nella sua scrittura, non certo la fabula con climax, la tensione, punti di svolta ecc. Così, a proposito dei dialoghi che danno il sonoro ai pensieri, se abbiamo interpretato correttamente, alla rappresentazione di superficie corrisponde in profondità lo svelamento della ‘necessaria ipocrisia’ imposta dalle convenzioni dei rapporti ‘civili e educati’ tra gli esseri umani.
Limitandoci al confronto delle prime due pagine della prima e della seconda versione de La Passeggiata, abbiamo detto che la ‘geometria’ dell’incontro col professor Meili viene perfezionata nella stesura definitiva. Ma c’è anche un segno di ‘strutturazione’ che rimanda fuori dal testo in esame, all’opera completa di Walser. Nella seconda e definitiva versione, l’incipit de La Passeggiata viene cambiato in modo da divenire uguale all’incipit di altri suoi testi: sia I fratelli Tanner che L’Assistente cominciano con “Un giorno”, La Passeggiata comincia con “Un mattino”. Tutte e tre le volte, il narratore sta presentandosi al lavoro: davanti alla villa del suo futuro datore di lavoro ne L’assistente, entro una libreria per fare il commesso venditore ne I fratelli Tanner, accingendosi a presentarsi a un ingegnere per essere assunto come assistente, ne La Passeggiata, mentre si accinge a fare una passeggiata attività, da cui -abbiamo sentito lo scrittore dirlo a chiare lettere- dipende il suo lavoro e che il suo lavoro alimenta. Uguale incipit troviamo ancora in alcuni racconti brevi.
Sarà vero, come si legge in numerose occasioni, che quella di Walser è una scrittura veloce, leggera, istintiva, guidata dai richiami associativi o paradigmatici[26]. Ma che si tratti di un fluire libero, puramente istintivo, una scrittura in accordo con l’automatismo secondo la vulgata del Manifesto del surrealismo di Breton, come modo dello scrivere guidato dall’inconscio senza alcun controllo della ragione non ci pare il caso di Walser, non certo de La Passeggiata. È chiaro, invece, che Walser ritorna sul testo scritto e si pone anche degli obiettivi di ‘costruzione del testo’, pone dei segnali, dei limiti, delle marche testuali, stilistiche ricorrenti, che organizzano il testo e –diremmo- impongono una ‘gerarchia dell’attenzione’ cui richiama il lettore.
Certamente neppure scrittura ‘automatica’ nell’accezione da noi adottata precedentemente[27], intendendo quella scrittura che ricorre preferibilmente -questa volta sì istintivamente, pigramente, senza riflessione- alla pratica di accostare a un nome un aggettivo prevedibile, facente parte di un armamentario logoro e poco informativo e per nulla arricchente lo sguardo del lettore. Ben diverso il tresor di Walser fatto di accostamenti arditi, ma non del tutto arbitrari, che comunica nuove possibilità di lettura e di approccio alla realtà visuale, significativa, sensoriale in genere; oppure espressioni ‘spiazzanti’ rispetto a quelle note e abusate. Così troviamo degli orti ‘comodi’, un edificio ‘appetitoso’, “truci leoni in gabbie di leoni”, “carri da birra con botti di birra”, “carri merci pieni di merci provenienti dallo scalo merci”, “case paterne e materne”, “prolisse passeggiate”, “la paterna, materna, filiale natura”, “concerto di voci inudibili”, “pacchiani carri trionfali”, per le automobili, e così via.
Della struttura o costruzione del testo fanno parte anche i quasi sistematici preannunci degli incontri, le ricorrenti critiche o invettive e i relativi pentimenti o ritrattazioni, di cui abbiamo detto, certe simmetrie (la vista di donne dall’aspetto esotico all’inizio e alla fine del testo, che suscitano un’atmosfera di avventura e di romanticismo), la collocazione del “culmine” in corrispondenza del passaggio a livello, certi modi fissi di imbattersi nelle cose e nelle persone: sono le cose, le persone, i paesaggi che vengono incontro al passeggiatore con visuale di certa ripresa cinematografica che crea un effetto di cose che camminano incontro allo spettatore; oltre a venire incontro, le cose si presentano molto spesso come vere e proprie Erscheinungen (apparizioni). Ma anche i numerosi giochi di parola, i chiasmi, le assonanze e altri artifici retorici, non sempre riproducibili in traduzione, sono dei chiari segni collocati dallo scrittore intenzionalmente. Detto per inciso, si può osservare che il testo si sviluppa nel rispetto delle tre ‘regole’ aristoteliche di tempo (una giornata), di luogo (nella cittadina svizzera di Biel / Bienne) e di argomento (una passeggiata).
Biografia trasfigurata
Abbiamo già concordato con il traduttore in italiano, sul fatto che La Passeggiata sia un “personalissimo trattato – o «tesoro» – di poetica”. Concordiamo altrettanto con la sua scelta di mettere in evidenza in quarta di copertina, traendolo dal testo, un paragrafo che riassume gran parte del senso de La Passeggiata inserito nella lunga perorazione del passeggiare fatta al “sovrintendente o tassatore” che gli rimprovera: “Ma lei la si vede sempre andare a spasso” [28].
Noi crediamo che veramente Walser abbia avuto quegli incontri, che il passeggiatore traveste surrealisticamente, con un libraio, un sarto, un bancario, un funzionario delle tasse, e che, magari, gli sia capitato di entrare in un ristorante dentro il quale è stato guardato dall’alto in basso perché, forse, non agghindato in maniera adeguata alle pretese del locale. Non troviamo strano che in una libreria abbia potuto riflettere sul successo che certi libri hanno, che lui non avrà giudicato dei capolavori; e niente di più normale, in Svizzera, della contestazione verbale che un contribuente può rivolgere a un funzionario delle tasse, per arrivare a concordare l’imposizione fiscale definitiva; e sarà stato una volta da una qualunque signora Aebi che lo avrà invitato a fare onore al pranzo e che Walser abbia immaginato una sorta di strega, più che fata, che voleva ingozzarlo a morte, una strega che attira nella sua invitante dimora i poveri Hänsel e Gretel per metterli in carne e poi divorarli. Una delle fate nei fratelli Tanner[29] lo accoglie in una casa di cura per il popolo e gli offre il pasto. Entrando dalla signora Aebi il passeggiatore dice che entra nella casa di lei “come in un ricettacolo, come in un posto di ristoro per poveri affamati e pietosi decaduti” (47). Noi riteniamo che tutti questi incontri e personaggi siano reali, da attribuirsi alla biografia di Walser.
E, a proposito di biografia, più che in altri testi, dove la realtà biografica è raccontata abbastanza fedelmente, a quanto pare[30], ne La Passeggiata, troviamo una biografia inferibile dagli episodi trasfigurati nel racconto, mentre le convinzioni etiche e stilistiche sono chiaramente dichiarate. Insomma l’opera di Walser è tutta una biografia della vita reale e dell’animo, un insieme di testi in cui tout se tient, tutto è coerente e solidale. Ma, anche questo meriterebbe un lungo discorso a sé che potrebbe prevedere l’indagine di immagini, scene, episodi, situazioni, occorrenti in testi diversi, come un repertorio al quale l’autore si permette di attingere a seconda delle necessità.
In conclusione
La Passeggiata è una sequenza di scenette (i finti dialoghi) e di scenari o quadri naturali che vengono incontro al passeggiatore: persone, cose, la natura, gli si offrono generosamente, quasi quadri di un’esposizione en plein air che gli suggeriscono riflessioni: sulla natura, sull’esistenza, sull’architettura, sulla letteratura, sull’arte in genere, sulla scrittura, sul ruolo e l’etica dello scrittore, sui bambini e il loro futuro di adulti, sul nuovo che avanza, sulle diseguaglianze sociali e, ancora, su tanto altro.
La Passeggiata è, a nostro parere, più che ogni altra sua opera, la summa della poetica e dell’etica, dell’estetica della scrittura di Robert Walser, della sua visione del mondo. Walser non si fa distrarre dalla trama, da una possibile storia. Gli incontri sono l’occasione, il pretesto per esprimere la propria concezione dell’esistenza, le sue idee sulla scrittura, sui critici – “La temuta e, perciò vezzeggiata critica” (15) -, sulla letteratura, su come avviene il processo dello scrivere. È anche lo strumento o l’occasione per esprimere le sue critiche (salvo fare finta di ritirarle).
Probabilmente un certo sospetto (e dispetto?) che sembra esprimere per il successo di Hesse, nelle conversazioni con Carl Seelig, è dato anche da questo, dal successo che ha la fabula rispetto alla scrittura, qui intesa come stile, o, forse meglio, l’aspetto narrativo rispetto a quello letterario. Ma questo, riteniamo, in generale, non riferito a Hesse in specifico. Il fatto è che Hesse era l’autore di grande successo del tempo. A Walser interessa la scrittura come poiein, come dichten, interessa il ‘come’ della scrittura, interessa ciò che di proprio lo scrittore può mettere di arricchente nelle cose, nel mondo, nella realtà, presentando ottiche nuove, originali, anche attraverso la selezione delle parole di cui si è detto, attraverso una riscrittura o ridipintura del visto e del vissuto quotidiano, degli oggetti e persone colpiti da una nuova luce che fa risaltare linee e sfumature altrimenti invisibili, dando a quelle un nuovo risalto, attraverso la sorpresa data dal tradimento delle attese, ma anche dallo stravolgimento dei tempi del racconto, dall’uso di parole, espressioni ‘strane’, dall’accostamento ardito o azzardato e, comunque, insolito, di un certo aggettivo a un nome che, nel sentire comune, non richiederebbe quell’aggettivo. E tutto ciò è reso dalla lingua e dalla sottostante capacità di osservazione e acuta sensibilità[31].
Né in questo suo sguardo particolare e nel suo realizzarsi nel testo, si avverte una maniera di ‘originalità a tutti i costi’. Piuttosto è come se
-questa volta sì- tutto ‘sembrasse’ scaturire spontaneamente, facilmente e felicemente, senza filtri. Ma a noi sembra che abbiamo a che fare con quella apparente spontaneità, quella facilità che viene dall’arte di sapere celare la fatica e il lavoro con l’arte.
Piacere e con-sentire
Di Walser è quasi inadeguato dire: “Mi piace”, “non mi piace”. Forse ha ragione chi dice che Walser o lo sia ama o non lo si capisce. Forse lo si ama e lo si capisce quanto più si stabilisce una sintonia con il suo sentire, un con-sentire, un mit-fühlen; un con-sentire con la sua visione del mondo, con la sua poetica con i suoi valori di bello, di buono, di cattivo e di negativo o di brutto. O, addirittura, per arrivare a capirlo almeno in parte è necessario un mit-leiden, un essere partecipi della sua sofferenza esistenziale. Questo come riflessione staccata da tutto, porta a fare una riflessione ulteriore: c’è il rischio di fare di Walser una specie di ‘santino’ e dimenticare lo scrittore, la sua scrittura originale, la sua grandezza di scrittore, savio o folle che fosse, integrato o disadattato. Cogliere e comprendere lo scrittore, del resto, non impedisce di percepire l’uomo e la sua vicenda, ma l’uomo e la sua vicenda non devono mettere in ombra lo scrittore. Questo, ammesso che non si sia capaci di com-prendere uomo e scrittore insieme.
(*) Il presente contributo origina da un corso tenuto da Bettina Keller e Marco Piras all’UNITRE di Lucerna nel 2012-2013. Per quanto riguarda la parte La traduzione in taliano mi avvalgo di un ampio spoglio ragionato di segmenti di testo in tedesco e in italiano a confronto, opera di Bettina Keller che ha altresì contribuito alla revisione del testo tutto.
[1] Robert Walser. La Passeggiata. Adelphi Edizioni 1976. Traduzione di Emilio Castellani.
[2] Pertanto, qui non ci riferiamo, alla scrittura ‚automatica’ di cui parla André Breton nel suo Manifesto del Surrealismo.
[3] 3 Le citazioni del testo in tedesco cui attingiamo è quella del 1978: Robert Walser. Der Spaziergang, in Das Gesamtwerk, Werkausgabe Edition Suhrkamp.
La traduzione in italiano del 1976 ha necessariamente come riferimento un’edizione precedente ma conforme a quella del 1978.
[4] Il corsivo è nostro e segnala quanto si vuole evidenziare.
[5] 5 Preferiamo alla dicitura Svizzera tedesca, Svizzero tedesco (riferito sia a un membro della comunità che alla varietà linguistica dei territori germanofoni della Svizzera) quella di Svizzera alemanna e di Svizzero alemanno.
[6] 6 Se servisse a rimarcare l’intenzionalità (e la necessità din traduzione dunque), di evidenziare queste ridondanze specificative si pensi a simili occorrenze quali: “carri da birra con botti di birra”, “carri merci pieni di merci provenienti dallo scalo merci”
[7] Si veda a questo proposito, l’esempio 9.
[8] Si veda oltre per le considerazioni a proposito di questo tratto ricorrente, molto importante nell’economia globale del testo. Questo tratto scrittorio non è solo della Passeggiata, ma in questo testo ha un peso strategico di grande rilievo, ci sembra. Ma si veda oltre.
[9] 9 Si veda quanto detto all’esempio 7. Mentre in quell’esempio, il traduttore ricorreva a ‘apparizione’ non presente nel testo originale, in questo caso, dove espressamente Walser parla di ‘apparizione’, la traduzione italiana sceglie un’altra soluzione. Ma data l’importanza di tale parola chiave, troviamo la traduzione inadeguata e fuorviante.
[10] Waldmensch è anche una figura della favolistica di vari paesi, compresa la Svizzera.
[11] Altri esempi simili verranno elencati successivamente.
[12] Der Spaziergang. Huber und Co. Verlag. Frauenfeld, April 1917
[13] Si tratta di Biel/ Bienne, ma non viene mai detto nel testo.
[14] Di qui in avanti, le citazioni tratte dall’edizione in italiano vengono riportate „tra virgolette, in corsivo“. Racchiuso tra parentesi tonda le pagine cui fanno riferimento i segmenti citati.
[15] Obbedire e convocato sono nostra traduzione letterale dall’originale. Nel testo italiano, più in tono con formalità galateo: „accogliere l’invito“.
[16] È curioso notare, di sfuggita, che a questo punto, il traduttore è, per così dire, più walseriano di Walser. Evidentemente, giocando sul detto rovesciamento, attribuisce all’insegna la qualità di “squillante” per cui alla percezione olfattiva della libreria fa da contrappunto quella auditiva dell’insegna.
[17] La guerra, termini guerreschi, similitudini che rimandano alla guerra ricorrono spesso nel testo. Del resto la composizione de La Passeggiata si ha proprio nel pieno della Grande Guerra.
[18] [18] Quasi in contrasto, questi ricorrenti “prati verdi” e “cieli azzurri”, con l’armamentario di immagini e di attributi di Walser, solitamente poco comuni.
[19] [19] Ribadiamo che questa strategia scrittoria è presente anche in numerosi altri testi di Walser, ma mai, ci sembra, in quantità tale e in maniera così ‘provocatoria’ come ne La Passeggiata.
[20] [20] Strategia che sembra avere conquistato il traduttore in italiano, il quale, nella sua Nota del traduttore, omaggia Walser con una citazione: “… i contorni della narrazione o rappresentazione…” (102).
[21] Geschwister Tanner lesen (Leggere i Fratelli Tanner), in “Dossier der Schweizer Kulturstiftung PRO HELVETIA. Robert Walser/Literatur 3”. Ed ProHelvetia , Zürich, 1986.
[22] Carl Seelig Wanderungen mit Robert Walser. Suhrkamp Verlag, 1977.
[23] Fleur Jaeggy I beati anni del castigo Adelphi 1989.
[24] Bisogna riconoscere che a livello di istituti, musei, enti pubblici vada crescendo l’attenzione a Walser, grazie a pubblicazioni e mostre. Un grande ruolo in tal senso svolge la Fondazione Robert Walser creata da Carl Seelig Ma la nostra impressione è che tale attenzione sia molto circoscritta a un ambito di pubblico ‘specialista’. Anche oggi, è possibile che tutti i liceali svizzeri abbiano avuto a che fare con Friedrich Dürrenmatt, con Max Frisch, per citare tra i più grandi scrittori svizzeri del Novecento, e anche con altri autori contemporanei meno prestigiosi, ma che non abbiano mai letto una riga di Robert Walser.
[25] Op.cit, p. 9.
[26] Walser stesso nelle conversazioni con Carl Seelig (op. cit. pag 49) dice che sia L’Assistente che I fratelli Tanner, li ha scritti nello spazio di poche settimane.
[27] Vedi nota 2
[28] “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto” (68).
[29] Si veda, a proposito di fate: Renata Adamo Le fate tragiche di Robert Walser (2007),
in www.zibaldoni.it
[30] A proposito de L’assistente lo stesso Walser afferma nelle sue conversazioni con Carl Seelig: „Der >Gehülfe< ist ein ganz und gar realistischer Roman. Ich brauchte fast nichts zu erfinden“ („L’Assistente è un romanzo realistico in tutto e per tutto. Non ho dovuto inventare quasi nulla“). In Carl Seelig, op. cit. pag. 57.
[31] Lo stesso Walser lo dice a chiare lettere se accettiamo di riconoscere, almeno in questo caso, nel giovane Fritz Kocher lo stesso Walser: „Ciò che mi attrae non è cercare un determinato argomento, ma scegliere parole raffinate, belle. Da un’idea posso formare dieci, anzi cento idee, ma non mi viene in mente un’idea centrale…Il «che cosa» mi è del tutto indifferente“. Robert Walser. I temi di Fritz Kocher. Adelphi, 1978. Pag 35.
Come primo commento: la foto è di Martin Walser e non di Robert Walser.
adesso è la foto di Robert Walser 🙂