La possibile scuola del futuro
di Mauro Antonio Miglieruolo
Una delle tante acquisizioni del ’68 è stata la consapevolezza dell’inutilità della scuola nozionistica e selettiva. La scuola come esamificio. Contro questa acquisizione si sono sempre scagliati quelli del nuovo che avanza, cioé coloro che hanno sempre cercato di seppellire le conquiste del Novecento con le anticaglie dell’Ottocento. Sbagliando nella sostanza, ma non in un particolare: bisogna ammetterlo che infatti un qualche progresso per i padroni(*) questo nuovo che avanza lo produce. Per LORO, però, per i padroni. Non per i lavoratori e per la società tutta. Perché non è vero che quel che fa bene all’impresa fa bene alla società, questo lo possiamo constatare tutti i giorni. Invece è proprio il contrario, più spazio di dominio incontrastato si conquista il Capitale, peggio è per la società (siamo infatti entrati in un periodo di crisi permenente, di crisi eterna; crisi nella quale i capitalisti continuano a guadagnare e la stragrande maggioranza della popolaziopne a perdere). Quel che fa bene alla società è piuttosto quello che fa bene a chi produce, a chi con il proprio lavoro fornisce i mezzi per la continuità della vita; a chi, per sua natura, opera per sé stesso operando per tutti: i lavoratori, appunto.
Ma tornando al merito delle critiche alla scuola tradizionale, constato che gli ideologi del capitale, ostinati nel difendere l’indifendibile, hanno sempre risposto con sberleffi, anatami e occasionali allarmi sui disastri che provocherebbe nella scuola l’introduzione di determinate ricette della “sinistra” (messo tra virgolette perché non sempre le critiche alla scuola tradizionale provengono da persone collocabili a sinistra: intendendo sinistra comunista, sinisistra sessantottina… e ora si faccia pure venire l’orticaria chi vuole seppellire il nuovo con il vecchio di sempre, semplicemente dicendo che è nuovo!). Anzi costoro attribuiscono proprio al presunto successo dell’ormai sconfitto (e da tempo) sessantotto lo sfascio della scuola italiana. Anche qui li comprendo. Il problema è che l’ideologia del capitale non può essere insegnata con metodi non coerenti con l’ideologia medesima: la selezione, la competizione, l’acquisizione acritica delle nozioni, l’esclusione dei non abbienti ecc. Perché la scuola anzitutto DEVE forgiare nuovi cittadini (cittadini consumatori) addestrati a considerare l’esistente come la realizzazzione non solo del miglior mondo possibile, ma anche dell’unico possibile (in verità ne esistano tanti, tutti migliori della società in cui viviamo. Il degrado attuale è tanto grande che è facile realizzarli, se ci si prende la briga di immaginarli).
A furia di ripetere queste loro obiezioni, sono riusciti nell’intento di convincere tutti, forse persino se stessi, che il problema della riforma della scuola non era un problema politico, cioé il problema di determinare a chi dovesse servire la formazione, se allo svilluppo pieno e libero dell’individuo o a quello della borghesia. Sono riusciti a far sì che di vera innovazione radicale delle funzioni della scuola e dei metodi di insegnamento non si parli più, a seppellire il tema.
Senonché sull’ultimo numero di “Focus” (il 264) ancora in edicola, si può leggere d’una ricerca operata su 240 milioni di studenti da un team (gruppo di lavoro) guidato da John Hattie che contraddice le convinzioni dei difensori della scuola come coercizione. Non la faccio molto lunga. I risultiti della ricerca, operata su tutti e cinque i continenti, sfatano molte delle false credenze sulle quali si basa l’attuale organizzazione della scuola. A partire da considerazioni tipo (espresse nei sottotitoli del pezzo giornalistico) “i compiti a casa fanno male” (per i più piccoli), “il pc non serve” (non aiuta molto), “le classi numerose vanno benissimo” (a parte lo stress maggiore per gli insegnanti). Non mi soffermo su queste sottolineature realizzate tramite la collocazione nei sottotitoli, delle quali tra parentesi indico i limiti. Quello che più mi interessa è attirare l’attenzione su un paio di aspetti, a mio parere i più significativi, che il periodico getta lì senza evidenziare troppo. Uno dei due (indicato nella ricerca come il più importante di tutti) è l’estrema positività nell’abituare gli studenti a assegnarsi il voto da soli (apprendendo in questo modo a valutarsi e a porre in relazione il proprio lavoro con i risultati conseguiti); l’altro (collocato al 65esimo posto su oltre 140 fattori) riguarda la pratica della cooperazione nello studio, piuttosto che sulla competizione (in questo modo, sintetizza l’articolista, “aumenta l’interesse e l’abilità nella soluzione dei problemi”).
Non occorre aggiungere altro. Soltanto sottolineare la profonda trasformazione che si verificherebbe, di per sé, nella scuola adottando questi due “fattori” come portanti nel metodo di insegnamento. Ci si può fermare qui. Chiosando che sarà divertente osservare come reagiranno e cercheranno di imbrogliare le carte, di fronte a una ricerca sul campo, i Renzi scolastici della situazione.
(Dimenticavo un particolare importante: tra i tanti miti sfatati, uno è davvero da sottolineare: la pretesa difficoltà del genere femminile nei confronti della matematica. Una difficoltà che semplicemente non esiste. O che comunque crea uguali difficoltà in ambedue i sessi).
(*) Esatto, sì, padroni, la parola giusta è: padroni. Riabituatevi a udire risuonare di nuovo questa parola, non siamo disposti a favorirvi fino al punto di alterare la realtà definenendo con un nome diverso coloro che si comportano come si sono comportati sempre gli sfruttatori. Né siamo disposti a tacere su questo vostro mendace, falso, truffaldino parlare di nuovo mentre proponete il vecchio stravecchio (Renzi in prima fila).
Discutere superficialmente di scuola non aiuta. Non sono in grado di dire quanto un articolo di Focus possa essere opportuno come spunto per una riflessione. Sono però convinto che la lettura di Piaget, Vygotsky, Olga Dysthe e Knud Illeris potrebbe fornire altri spunti di riflessione. Mi rammarico di non aver ancora potuto confrontarmi con la lettura di Rodari, faccio il possibile. Ciò che posso dire con convinzione, in base alla mia ancora giovane esperienza come apprendista insegnante, è che che parlare di scuola superficialmente giova a nessuno.
Ciò che posso inoltre dire, nella speranza di evitare ulteriori errori di battitura, è che la prima regola per una mediatrice/un mediatore di un conflitto è NON rubare il conflitto, NON appropriarsene, ad esempio per strumentalizzarlo in base ai propri fini/obiettivi. Dato che sono convinto che imparare significa in qualche modo risolvere un conflitto, è allora di fondamentale importanza che questo conflitto non venga rubato dall’insegnante mediatore. Sono anche convinto che questo genere di conflitto vada risolto attraverso il dialogo, tra la persona che sta imparando, l’insegnante come mediatore, e le altre persone che stanno imparando e che condividono uno spazio formativo/educativo e una ricerca formativa/educativa – si tratta cioè dell’approccio cooperativo. Ma parlarne superficialmente non giova molto, quindi mi fermo e saluto.
La ringrazio delle sue opportune considerazioni. Dalla lettura dei due commenti mi sembra qualcuno dotato di specidiche competenze sulle problematiche relative all’insegnamento; o che ne possiede più di quanto io ne abbia. Concordo che non è bene essere superficiali, pericolo in cui si incorre quando ci si inoltra in problemi che poco si conosce. Non dovrebbe mai farlo uno privo delle conoscenze specifiche.
Se mi sono azzardato però non è stato presumendo di averle, o di poter in qualche modo approfondire il tema trattato. L’ho fatto utilizzando il diritto di ciascuno di intervenire su ogni materia che coinvolga i destini personali, l’organizzazione della società, l’orizzonte culturale entro cui ci si muove. L’ho fatto, in altri termini, cercando di occupare uno spazio politico al fine di condurre una battaglia ideologica. Posso essere poco esperto della materia quanto si vuole ma essendo esperto in quanto popolo di quel che sono i principi (accento sulla prima “i”) ho ritenuto di poter denunciare gli scopi non troppo reconditi degli attualòi sistemi di insegnamento. Senza con questo presumere di andare di là da una contrapposizione di valori: a partire dal valore dell’autonomia dell’individuo e quello delle uguali possibilità che spettano a ognuno (con relativo aiuto a chi parte svantaggiato). Come tradurre tutto questo in specifici metodi di insegnamento confesso di non avere la minima idea.
Ho soltanto un’idea abbastanza precisa sulle conseguenze non didattiche, ma politiche, di quanto preconizzo.
Spiacente di non essere stato chiaro nel corpo dell’articolo. Sarà per la prossima.
Purtroppo anche oggi è tardi, e cerco di essere breve. Intanto, mi piacerebbe che si potesse usare la seconda persona e non la terza, come Daniele mi ha insegnato/contagiato. Studio, molto, per abilitarmi come insegnante, di matematica e scienze. Quindi è e sarà il mio lavoro. D’altra parte, il ruolo della pratica e della prassi per un insegnante è fondamentale. L’esperienza insegna. Questo però non vuol dire avere la licenza di improvvisare senza punti di riferimento teorici con cui confrontarsi e a cui eventualmente opporsi.
Quanto al punto di vista e all’interesse che tu hai espresso, sono ovviamente legittimi e anche benvenuti – si tratta di democrazia, di dialogo, e di ascolto verso altri punti di vista. Dobbiamo dialogare, anche se è difficile farlo attraverso questo spazio/strumento. Però il dialogo è più efficace quando è approfondito. Ma occorre tempo e pazienza. Io stesso ho bisogno di tempo per approfondire – ad esempio mi dispiace moltissimo non aver mai letto Rodari, e voglio, nel corso del tempo, colmare questa lacuna.
A rileggerci, e buonanotte.
Scusa se non usato “la seconda persona”, come invece avrei dovuto fare. Che per altro è d’uso nel blog.
Sì, a rileggerci…