La rabbia può andare in molte direzioni

di John Holloway (ripreso da comune-info.net)

La società delle merci è fatta di relazioni aggressive ma anche di rabbia contro l’aggressività permanente. Da diversi anni, come dimostra ovunque l’ascesa della nuova destra, gran parte di quella rabbia assume una forma spaventosa che nega il flusso sociale dell’umanità. L’elemento chiave che porta a trasformare quella rabbia in neofascismo è prima di tutto la paura, scrive John Holloway, una paura che viene fomentata da agitatori ma che ha una base reale nell’insicurezza generata dalle crisi capitalistica. In questo saggio straordinario e fuori dalla cultura politica dominante, anche a sinistra, Holloway ragiona sul bisogno di non ingabbiare la risposta all’ascesa della destra identificandosi in una controparte, loro sono fascisti-combattere i fascisti (“la lotta è contro il razzismo, il fascismo, il sessismo: non contro i razzisti, i fascisti, i sessisti…”), sul bisogno di sviluppare in basso una politica del noi comunitaria ma antidentitaria, sul bisogno di scavare in profondità oltre le risposte elettorali, perfino sul bisogno di intrecciare la rabbia popolare perversa, quella identitaria, razzista, sessista e statalista con la rabbia dignitosa, la rabia digna, per dirla con le comunità zapatiste. “C’è un modo per spingere in questa direzione? Forse. Non necessariamente. Ma forse. Preguntando caminamos…”

 

La ribellione corre lungo la strada sbagliata
La tempesta si abbatte sull’albero sbagliato”

[Linton Kwesi Johnson]1

[John Holloway2]

  1. Il tema è la rabbia: resistenza, ricchezza, ribellione, tempesta

La rabbia, un sentimento sociale che può fluire in direzioni diverse e imprevedibili: questo è il punto di partenza per pensare all’ascesa della Nuova Destra.

Dopo i disordini razziali del luglio 2021 in Sudafrica, Abahlali baseMjondolo, un gruppo di abitanti delle baracche, dichiarò: “Abahlali baseMjondolo ha sempre avvertito che la rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più volte che siamo seduti su una bomba a orologeria”. Come nella canzone di Linton Kwesi Johnson, la rabbia corre lungo la strada sbagliata, con conseguenze disastrose.

  1. Rabbia-resistenza-ricchezza sono insite nel valore. Esistono contro e al di là della forma del valore

Perché sei così arrabbiata? – disse il ragno alla mosca – Rilassati e lascia che ti mangi.

Non siamo fuori dal flusso sociale della rabbia, ne facciamo parte. Non è qualcosa che scegliamo. Viviamo in una totalità di relazioni aggressive e rabbiose.

Qualsiasi società è caratterizzata da modelli di coesione o confluenza sociale, ovvero dai modi in cui le azioni delle persone si uniscono.3 Nella società capitalista 4, questa confluenza sociale è plasmata dal fatto che le nostre creazioni sono messe in relazione prevalentemente attraverso lo scambio dei nostri prodotti come merci. Ciò impone alla società una certa regolarità o legalità, analizzata dagli economisti politici e criticata da Marx. Merce, valore, lavoro astratto, denaro, capitale, Stato sono categorie chiave per comprendere le regole o la struttura o la dinamica del flusso della confluenza sociale capitalista.

Questa confluenza sociale, che per brevità possiamo chiamare valore, è aggressiva. Il fulcro di questa aggressione è che spinge l’attività della nostra vita verso un lavoro astratto. Se ci si rifiuta, si muore di fame. L’aggressione si estende a ogni aspetto dell’esistenza umana. La confluenza sociale (valore) incanala la nostra creatività in modi che non controlliamo: siamo costretti ad andare in una certa direzione, proprio come un fiume che viene murato in un canale o in un tubo. La direzione non è determinata da noi, ma dalla ricerca del profitto. Questa canalizzazione o imbrigliamento dell’attività umana si è dimostrata estremamente efficace nel produrre una certa forma di ricchezza, ma anche estremamente distruttiva per le vite umane e per quelle non umane, e ora ci minaccia di estinzione dell’umanità.

L’aggressione che è valore genera resistenza5. È un aspetto inevitabile e inseparabile dell’aggressione. La resistenza è insita nell’aggressione. Non è necessariamente evidente. Può darsi che le pareti di un canale siano l’espressione più visibile della resistenza dell’acqua che viene incanalata, o che l’esistenza stessa delle briglie sia la prova più evidente della resistenza di un cavallo che viene costretto ad andare in una direzione. Può darsi che l’esistenza di capisquadra e telecamere e dipartimenti di relazioni umane e la polizia e il sistema educativo e gli ospedali psichiatrici siano tutte prove più evidenti della costante resistenza umana alla regola del valore. Ma la resistenza non è visibile solo in questi specchi istituzionali. È anche visibile direttamente nella rabbia, nella contro-aggressione inconsulta, nelle lamentele, nel rifiuto di obbedire, negli scioperi, nella miriade di tentativi di evitare la disciplina del lavoro astratto e di creare altri modi di vivere, nelle ribellioni. La società capitalista si basa su una rabbia strutturale.

Queste rabbie, resistenze e rifiuti non sono semplicemente negativi: spesso mettono a confronto il valore-ricchezza misurato in denaro con una diversa ricchezza a cui attribuiamo un altro tipo di valore: la ricchezza della convivialità creativa, la ricchezza del riconoscimento reciproco, la memoria del potenziale non realizzato. Spesso questa rabbia-resistenza-ricchezza spinge contro e oltre il valore, verso un altro tipo di confluenza sociale, verso un mondo in comune: è ciò che gli zapatisti chiamano digna rabia, una rabbia dignitosa o giusta.

La confluenza sociale della società attuale è antagonistica: il lavoro astratto contro il fare, il denaro contro la vita, il capitale contro l’umanità, la merce contro la condivisione, il valore contro il valore d’uso. In ciascun caso, la categoria dominante ha una sua chiarezza, quella subordinata ha una problematica difficoltà inseparabile dal suo status di subordinazione. Ciò che conta per il momento è comprendere il valore come un’aggressione, un processo di lotta che genera rabbia-resistenza-ricchezza. L’importante è dire chiaramente che in questo antagonismo ci schieriamo dalla parte della rabbia-resistenza-ricchezza. Il futuro del mondo dipende dalla forza della nostra digna rabia.

  1. Valore-rabbia-resistenza-ricchezza fluiscono attraverso la negazione del loro scorrere

3.1 Le relazioni sociali sono fluide. Devono esserlo, semplicemente perché sono relazioni tra persone che vivono, muoiono, fanno, si muovono, creano, amano, odiano. Il fatto che questo flusso segua (e resista) a certi schemi di confluenza, non cambia che le relazioni sociali siano in costante movimento. Il movimento è il movimento del nostro fare, del nostro creare, sia che ciò che creiamo sia uno spaghetto al ragù o un’automobile o uno smartphone o un giardino o anche un articolo scritto per una conferenza a Vancouver. Si tratta di un flusso sociale di ricchezza che non esiste mai al di fuori del modello stabilito di confluenza sociale (valore), ma esiste sempre contro e oltre esso. Marx ha dato a questo flusso sociale l’infelice nome di “forze di produzione”, ma l’idea è chiara: la spinta della creatività umana o della ricchezza contro e oltre la confluenza sociale esistente (“rapporti di produzione”).

3.2 Una caratteristica distintiva del capitalismo, tuttavia, è che le attività o le relazioni sociali fluiscono attraverso forme che negano il fluire. In una società produttrice di merci, le relazioni tra le persone si stabiliscono attraverso lo scambio di cose e ciò porta alla cosificazione o reificazione di queste relazioni. Questo è uno (il) tema centrale del Capitale di Marx. Il modello di confluenza sociale attraverso cui si muovono le nostre attività non è trasparente. La confluenza si muove attraverso la propria negazione, la propria reificazione.

La reificazione ha un effetto enorme sul nostro modo di vivere e di pensare le nostre vite. Impone una grammatica reale e concettuale alle nostre relazioni con le persone. Si tratta di una grammatica caratterizzata dalla subordinazione dei verbi ai nomi, della vita umana all’assenza di vita degli oggetti. Viviamo circondati da cose, viviamo vite modellate da cose: il denaro, lo stato, il mio computer, la mia scrivania. Le cose nascondono la cosificazione delle azioni sociali che le hanno create e delle connessioni sociali che le hanno portate nella mia vita. Il mio computer è stato progettato e realizzato da persone (non ho idea di chi o dove) ed è passato attraverso una serie di attività umane prima di approdare sulla mia scrivania, anch’essa prodotto di attività umane. Allo stesso modo, il denaro è una creazione sociale in costante movimento, un modo particolare di relazionarsi gli uni con gli altri che modella profondamente il nostro modo di vivere.

La grammatica della reificazione nega il flusso del fare sociale. Rifrange il flusso attraverso forme che lo negano. Elimina i momenti di interazione sociale dal flusso globale e li congela in cristalli separati. Il denaro, visto come una cosa, viene astratto dal flusso dell’interazione sociale che lo ha costituito come relazione sociale e trattato come un oggetto: la reificazione subordina il soggetto all’oggetto, lo priva della sua soggettività.

L’identificazione, individuale o collettiva che sia, è un aspetto della reificazione. Io, in quanto persona, sono analogamente astratto da tutte le attività sociali indefinite che mi hanno costituito e continuano a costituirmi, e sono trattato come un individuo, un individuo che può essere nominato ed etichettato, etichettato in modi che astraggono dalla miriade di interazioni che mi costituiscono o che semplicemente si concentrano astrattamente su una o poche di queste interazioni: sono un professore, bianco, maschio, irlandese, messicano, migrante. L’astrazione dal flusso sociale del fare si manifesta come identificazione, costituzione di identità, tutte suscettibili di ammirazione o squalifica: odio/amo i professori, i maschi bianchi, gli immigrati, ecc. Dire che una persona è una combinazione di identità diverse non cambia nulla: è solo un accumulare un’astrazione sull’altra. L’identificazione è separazione. Essendo astratto dal flusso sociale, sono separato da altri che sono similmente separati. Gli altri non sono me: sono “alterizzati” o spersonalizzati, diventano un “loro”. L’identificazione è parte della grammatica della reificazione, della totalità dell’organizzazione materiale e concettuale che scaturisce dalla predominanza del valore, dalla predominanza dello scambio di merci nelle relazioni umane.

Reificazione, cosificazione, feticizzazione, alienazione, oggettivazione, identificazione, etichettatura, istituzionalizzazione, frammentazione, individualizzazione sono insite nel valore, la forma dominante di coesione o confluenza sociale. Sono aspetti della coagulazione del flusso del vivere umano in forme particolari: forme che negano la loro specificità storica e si astraggono dal flusso sociale di cui sono inevitabilmente parte. La reificazione è un processo di formazione e produzione di forme che proclamano la loro indipendenza da ciò che le ha costituite e continua a costituirle, che proclamano l’autonomia della loro esistenza dalla loro costituzione. Criticare significa muoversi nella direzione opposta, svelare questa reale apparenza di autonomia e rivelare (per superarla) la genesi storica e continua di queste forme. Il capitalismo è una concatenazione di forme sociali. Migrante, messicano, professore, sono forme sociali non meno del valore o dello Stato: categorie che non vanno mai prese così come si presentano, ma sempre criticate.

Criticare non significa negare l’esistenza delle forme criticate. Criticare fa parte della lotta per il superamento delle forme feticizzate, ma non lo raggiunge da solo. C’è una vera e propria coagulazione o coagulo delle relazioni sociali. La separazione dell’esistenza dalla sua costituzione non è una mera apparenza, ma un’apparenza reale. L’astrazione delle forme (migrante, messicano, ecc.) dal flusso sociale del fare è un’astrazione reale con quegli effetti terribili di cui siamo attualmente testimoni. La sociologia e altre “discipline” si basano sull’esistenza reale (ma superficiale) di queste relazioni sociali coagulate e contribuiscono certamente alla loro solidità, cioè alla loro dinamica di morte. Lo stesso vale per le interpretazioni sociologiche del marxismo e per le standpoint theory, nella misura in cui isolano un particolare punto di vista dal flusso generale dell’antagonismo sociale che costituisce il punto di vista stesso. Criticare significa ricollocare le forme feticizzate nel flusso sociale che esse negano: per criticare il tavolo mostriamo come esso sia il prodotto di un’attività storicamente e socialmente situata. Per criticare il denaro, mostriamo che ha la sua genesi in una determinata organizzazione sociale dell’attività storicamente collocata.

3.3 Lo Stato è una forma di reificazione o identificazione particolarmente significativa. La sua stessa esistenza come forma di relazioni sociali particolarizzate o astratte dalla totalità del flusso sociale, è espressione della reificazione generale delle relazioni sociali nel capitalismo.6 Lo Stato non è quindi l’origine dell’identificazione, ma la sua esistenza come forma di organizzazione sociale è il costante rafforzamento dell’identificazione. Lo Stato ci definisce come cittadini (o sudditi) o stranieri. Questo è un aspetto della sua esistenza come forma di relazione sociale, non una questione di politica o di funzione. Vivere all’interno di uno Stato significa sottoporsi a un processo di indottrinamento costantemente ripetuto che ci identifica come cittadini di quello Stato: il successo di questo indottrinamento è probabilmente una precondizione per la riproduzione dello Stato. Attraverso la costante enfasi sull’identità nazionale e la violenza dei confini, lo Stato è in effetti una scuola di fascismo. Gli stati organizzano periodicamente l’assassinio su larga scala di “stranieri” per il solo fatto che sono stranieri.7 La chiamano “guerra”. O, più precisamente, immersi nella terzietà generata dallo scambio di merci e costantemente rafforzata dallo Stato, milioni di persone uccidono milioni di altre persone solo perché sono straniere.8 Questa semplice identificazione ha portato nell’ultimo secolo all’uccisione di innumerevoli milioni di persone. Questa identificazione e disumanizzazione di Stato è inseparabile dall’attuale ascesa dell’estrema destra. Gli stati più ricchi e civilizzati del Nord, in particolare, hanno una lunga storia di imperial-fascismo brutale e razzista inscritta nella loro cultura. C’è poca differenza tra le “democrazie liberali” e gli stati più autoritari in questa identificazione.9 Il genocidio di Gaza, attivamente o passivamente supportato da quasi tutti gli stati, ha svelato la realtà della statualità.

3.4 Il flusso sociale si muove attraverso forme reificate che negano la loro esistenza come forme del flusso sociale, ma continua comunque a scorrere. La reificazione non è mera apparenza, è apparenza reale, ma, come il valore, è un processo, un processo antagonistico di reificazione. È la stessa dinamica costante di imporre o cercare di imporre una certa regolarità o legalità (contenente gli obblighi di legge) all’interazione umana. È un’aggressione: la reificazione è un’aggressione, l’identificazione è un’aggressione, è la restrizione delle nostre attività e dei nostri pensieri entro certi parametri, con conseguenze estremamente violente.

Come per il valore, c’è un processo costante di resistenza, una resistenza che abbraccia rabbia-memoria-ricchezza. Dignità. Dignità: il concetto portato alla ribalta in modo così bello dagli zapatisti. Sì, siamo indigeni, pieni della rabbia dei nostri antenati, pieni della memoria di secoli di lotta, pieni della ricchezza delle nostre tradizioni, siamo esseri umani oppressi che rompono qualsiasi etichetta identitaria ci venga attribuita e lottano per il futuro dell’umanità. Una resistenza che si muove nella rabbia-memoria-resistenza contro e oltre l’identità. La speranza è un movimento contro e oltre.

L’identificazione si confronta costantemente con un movimento contrario. Questo movimento viene spesso definito (da me e da altri) come movimento anti-identitario, ma ciò è fuorviante. Non si tratta di negare l’esistenza delle identità o di altri feticci: si tratta di apparenze reali, non di mere apparenze. È la sottrazione del flusso sociale dallo scambio di merci e dalle sue forme. Siamo realmente identificati, abbiamo un’identità che nega il flusso sociale, ma spingiamo contro-e-oltre questa identificazione verso una sorta di comunanza con gli altri, verso un riconoscimento della comunità condivisa. L’identificazione si confronta allora con l’identità contro e oltre, con la dignità, con la digna rabia, con la spinta verso il riconoscimento reciproco, con il non-ancora che già esiste, con la defeticizzazione-comunicazione che nasce da e contro l’esperienza dell’oppressione.

3.5 Il fatto che l’identificazione/feticizzazione/alienazione rappresenti un processo, significa che siamo tutti schizofrenici nel senso popolare di esser divisi contro noi stessi: non perché abbiamo una molteplicità di identità, ma perché siamo lacerati dal conflitto tra identificazione e superamento dell’identità, tra feticizzazione e defeticizzazione. Non esiste un soggetto non identitario puro, così come non esiste un soggetto non razzista o non nazionalista puro, o un soggetto rivoluzionario puro. La contraddizione è insita nella nostra esistenza.10 È importante riconoscerlo perché il fascismo rappresenta proprio la negazione di questa contraddizione, il perseguimento di una identità pura.

Come per gli individui, tutti i movimenti sociali sono attraversati da una tensione tra identitarismo e anti-identitarismo (che è quello che io chiamo identità contro e oltre). Gli zapatisti sono stati straordinariamente bravi nel non limitare a presentarsi con movimento indigeno, ma forse non si può dire altrettanto per tutti i movimenti di solidarietà agli zapatisti. Anche il movimento curdo è stato consapevolmente anti-identitario, ma al suo interno vi sono significativi filoni identitari. La stessa tensione esiste ed è di enorme importanza nei movimenti femministi, neri, trans e in tutti i movimenti di protesta. Il rifiuto della potente deriva identitaria che inevitabilmente emerge da una società basata sullo scambio di merci, è cruciale per il futuro dell’umanità. La grammatica dell’identità è la grammatica del valore, la grammatica della distruzione. La grammatica dell’emancipazione si muove contro e oltre l’identità.

  1. L’antagonismo del flusso sociale si intensifica

La misurazione della grandezza del valore della merce in base al tempo socialmente necessario per la sua produzione e i suoi sviluppi, la crescente composizione organica del capitale e la tendenza alla diminuzione del tasso di profitto indicano che l’antagonismo insito nella produzione di valore subisce un costante processo di intensificazione. Per sopravvivere, il capitale deve fregarci sempre di più: per mantenere il suo tasso di profitto, deve aumentare costantemente il tasso di sfruttamento in modo da contrastare il suo crescente investimento in macchinari e materie prime.

Non si tratta di un processo automatico. Il lavoro astratto, il lavoro che produce valore, è il risultato di un lungo processo storico di disciplinamento, che comporta violenza, omicidi, guerre, la costante ristrutturazione dell’istruzione per formare persone in grado di produrre valore o di accettare la propria condizione di eccedenza con tutta la povertà e la miseria che ciò comporta, la ridefinizione della genitorialità per concentrarsi sulla competitività dei bambini, la ridefinizione dell’infanzia e così via.

Tuttavia, anche con questo enorme sforzo per aumentare la produzione di plusvalore, la velocità con cui aumenta l’esigenza del capitale è tale che si arriva periodicamente a un punto in cui l’aumento del tasso di sfruttamento (tasso di plusvalore) non è sufficiente a contrastare l’aumento degli investimenti in macchinari (l’aumento della composizione organica del capitale). Questo è il nocciolo della crisi capitalistica: la produzione di plusvalore non è sufficiente a mantenere i profitti capitalistici. Se tutto va bene per il capitale, come è accaduto finora, la crisi si risolve attraverso una ristrutturazione del capitale: un aumento della produzione di plusvalore, l’eliminazione dei capitali meno redditizi e la riorganizzazione del rapporto tra capitale costante e variabile. Nell’ultima grande crisi del capitale, negli anni Trenta, il capitale è riuscito a ristrutturarsi e ha creato le basi per la prolungata “epoca d’oro” dell’accumulazione postbellica. Questa ristrutturazione è stata ottenuta attraverso il fascismo, la guerra e l’uccisione di circa settanta milioni di persone. Può darsi che anche l’attuale crisi (manifestatasi brutalmente nel 2008) porterà a una risoluzione simile (su scala molto più ampia), ma per il momento tale risoluzione viene rimandata attraverso l’espansione a lungo termine del debito. Il capitalismo oggi funziona sempre più (e nonostante l’inasprimento della politica monetaria dal 2022) sulla base di un capitale fittizio, cioè sulla base di un plusvalore non ancora prodotto. L’espansione del debito converte la crisi dallo shock a breve termine tipico dell’epoca di Marx in una crisi prolungata, gestita e normalizzata. Sembra essere una “crisi permanente” come quella analizzata da Mattick negli anni ’30, ma allora Mattick era troppo ottimista. La base fittizia del capitalismo contemporaneo è la conversione di gran parte del capitale dalla forma produttiva a quella monetaria, ovvero l’ascesa del capitale finanziario, una forma di capitale apparentemente autonoma dal processo di produzione del plusvalore, ma questa autonomia è pura finzione.

La crisi è un’intensificazione dell’antagonismo sociale. Il capitale, a causa dell’inasprimento della competizione per ottenere una quota della massa relativamente ridotta di plusvalore sociale, è costretto a diventare più aggressivo. Coloro che sono costretti a lavorare o a cercare l’opportunità di lavorare, soffrono di un aumento dello sfruttamento, dello stress e della miseria sociale di ogni tipo. La rabbia cresce.

  1. La nostra rabbia

La regola del valore si basa su una rabbia strutturale. La crisi è l’intensificazione dell’antagonismo sociale, della rabbia sociale. Rabbia contro la disuguaglianza, la discriminazione, la violenza, l’insicurezza, lo sfruttamento, la distruzione del mondo che ci circonda. Rabbia contro le conseguenze del dominio del valore, del denaro, del capitale.

Questa è la nostra rabbia. Nella crisi vediamo la brutalità e la fragilità del capitalismo. La crisi è inseparabile dalla speranza. La speranza di poter creare un mondo diverso è radicata nella fragilità del mondo esistente. Ora è il momento della rabbia, ora è il momento di sollevarsi, ora è il momento di abbattere il sistema, ora è il momento della liberazione. ¡Ya basta! Basta! Negli ultimi anni ci sono state numerose sollevazioni sociali che hanno aperto il mondo, almeno per un momento: per esempio, l’intera ondata di occupazioni e lotte in tutto il mondo nel 2011, le esplosioni sociali in Cile e in Colombia.

Eppure, gran parte della rabbia che nasce dalla crisi del capitale (emblematicamente, dalla crisi finanziaria del 2007/2008) ha assunto una forma molto diversa e spaventosa.

  1. La nostra rabbia è identificata. E non

Enough is enough! è stato lo slogan scandito dalle folle di estrema destra che in agosto (in Inghilterra, ndr) hanno attaccato moschee e centri in cui sono ospitati i richiedenti asilo.

Enough is enough! È il nostro slogan. ¡Ya basta! Un messaggio di speranza, il rifiuto dell’oppressione, l’apertura verso un mondo di reciproco riconoscimento. Ma nello slogan dell’estrema destra, non c’era alcun reciproco riconoscimento. È stato un attacco verso i diversi, gli altri, i migranti, i musulmani, gli arabi. C’è la rabbia, ma il flusso sociale dell’umanità viene negato. Le persone sono alterizzate, identificate ed etichettate, cosificate. E quando le persone vengono cosificate, possono essere attaccate e persino uccise: uccidere le donne, i migranti, i gay, le trans, gli ebrei, gli arabi. Non perché le disprezziamo sul piano personale, ma è l’esatto contrario: è per via dell’astratta categorizzazione che imponiamo loro.

La nostra rabbia contro il capitalismo è stata deformata in qualcos’altro, in una rabbia che rafforza l’oppressione in modi terribili. Il nucleo di questa distorsione è l’identitarismo: l’etichettatura, l’alterizzazione e la conseguente disumanizzazione dell’altro. Ogni forma di rabbia sociale è di per sé contraddittoria, lacerata dalla tensione tra l’identificazione e la spinta contro e oltre l’identificazione, ma negli ultimi anni è l’identitarismo che sta crescendo in forza. Si è passati dal “odiamo il sistema capitalista”, evidente nelle proteste del 2011, al “odiamo i migranti – e le donne, gli arabi, gli ebrei, i gay, i trans, i neri”.

6.2 La risposta più semplice all’ascesa della destra è quella di identificarsi in una controparte. Loro sono fascisti. Combattere i fascisti. Persino uccidere i fascisti. Vediamo le immagini delle rivolte ed è difficile non identificare i partecipanti: queste persone non sono come noi, sono fascisti.

Ci sono elementi di identificazione nelle spiegazioni funzionaliste del neofascismo, come in quelle che vedono l’ascesa della destra come ciò di cui il capitale ha bisogno al momento, o quelle che si concentrano semplicemente sui leader, su persone come Trump o Milei o Bolsonaro. C’è il rischio di trattare le persone che seguono questi leader solo come masse, come oggetti di propaganda, piuttosto che come soggetti con idee proprie. L’ossessione della destra per i leader si riproduce spesso nelle stesse critiche.11

È difficile non farsi trascinare dalla grammatica dell’identificazione, la grammatica del valore, del fascismo. Il fascismo è un’espressione estrema di alterità, di identificazione. Noi alterizziamo le persone fino a disumanizzarle. E da lì all’attacco alle moschee, ai pogrom, ai campi di concentramento e alle camere a gas, è solo un passo. O, in altre parole, “Auschwitz ha confermato il sillogismo della pura identità come morte”. (Adorno 1966/1990, 362).

6.3 Per contrastare il neofascismo, abbiamo bisogno di una comprensione contro-e-oltre-identitaria dell’ascesa dell’identitarismo estremo, dell’identificazione estrema della (nostra) rabbia sociale.

Cos’è allora che porta l’identificazione a diventare tossica, patologica, omicida?

L’elemento chiave sembra essere la paura, una paura che viene fomentata da agitatori e politici ma che ha una base reale nell’insicurezza generata dalle crisi capitalistica. La crisi viene vissuta come un momento di crescente insicurezza o ansia: crescente disoccupazione, crollo delle imprese, diminuzione del tenore di vita, tagli a qualsiasi sistema di welfare o di sostegno sociale, aumento della popolazione mondiale in eccesso rispetto alle esigenze del capitale. A ciò si aggiunge la caratteristica specifica di questa crisi, la gestione e la normalizzazione della crisi attraverso l’espansione del debito. L’indebitamento di gran parte della popolazione, che non ha riscontro nelle precedenti crisi del capitalismo, impone un conformismo sociale (se scioperiamo, come facciamo a pagare il mutuo o la macchina alla fine del mese?) ma anche un senso di insicurezza fortemente individualizzato. Il debito contiene e distorce il malcontento sociale.

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È sorprendente che Bloch, scrivendo poco dopo la caduta del nazismo, apra il suo Il principio della speranza con un contrasto tra la grammatica della paura e la grammatica della speranza:

“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Che cosa stiamo aspettando? Cosa ci aspetta? / Molti si sentono solo confusi. La terra trema, non sanno perché e per cosa. Il loro è uno stato di ansietà; se diventa più definito, allora è paura. / Una volta un uomo ha viaggiato in lungo e in largo per imparare la paura. Nel tempo appena trascorso, è divenuta più facile e più vicina, l’arte è stata padroneggiata in modo terribile. Ma ora che i creatori della paura sono stati affrontati, è arrivato un sentimento più adatto a noi. / Si tratta di imparare la speranza”.

Per Bloch, l’antifascismo è una critica alla paura, un’apertura alla speranza. È una questione di grammatica, di come vediamo e pensiamo il mondo. È un’apertura alla Speranza, “Pensare significa avventurarsi oltre”. La paura è un pensiero di recinzione, di definizione. La paura è una politica di muri alti, sia letteralmente che concettualmente.

Il feticismo o l’identitarismo forniscono una risposta all’insicurezza. Fornisce qualcosa che sembra essere fisso e stabile, qualcosa a cui aggrapparsi in un momento di inquietudine. Il flusso sociale del fare è complesso e in continua evoluzione. Il feticismo fornisce una falsa sicurezza, un’astrazione dal flusso sociale, una coagulazione a cui ci si può riferire troppo facilmente. Lui è un arabo, lei è un’ebrea, lui è un bianco. Il movimento del divenire viene negato, così come l’intero processo sociale di costituzione e ricostituzione di un arabo, di un ebreo, di un bianco o persino di un tavolo, del Messico, degli Stati Uniti, del Canada. Il Canada, ad esempio, è un feticcio, una coagulazione instabile del flusso di interazioni sociali, tanto quanto l’ebreo, l’arabo, la donna: tutte astrazioni che si proclamano assolute e indiscutibili, separate dal flusso dell’attività sociale. Sono tutte semplificazioni ingannevoli che ci forniscono un quadro apparentemente sicuro per vivere giorno per giorno. Identificazioni o coagulazioni semplificanti che, di fronte alla paura, possono facilmente trasformarsi da un’affermazione come “mangia cibo piccante perché è messicano” a “odiamo i messicani perché ci tolgono il lavoro”. La forma valore genera insicurezza e identificazione, e l’identificazione genera discriminazione e anche peggio.

L’insicurezza può facilmente trasformarsi in un rimbalzo infinito, definito da Haiven “revanscismo preventivo”: odiamo e temiamo i neri perché sappiamo che ci odiano perché li abbiamo schiavizzati in passato; quindi, dobbiamo colpire per primi prima che ci attacchino. In un recente articolo (The Guardian, 13 agosto 2024) Omer Bartov commenta gli attuali atteggiamenti riscontrati in Israele: “Dopo quello che abbiamo fatto a loro, possiamo solo immaginare cosa ci farebbero se non li distruggessimo. Semplicemente non abbiamo scelta”.

  1. La nostra rabbia: verso una politica del Noi

7.1 La sfida è sviluppare un approccio contro-e-oltre-identitario all’ascesa dell’identitarismo estremo.

Una risposta incentrata sullo Stato è problematica, semplicemente perché lo Stato è, nel migliore dei casi, un’espressione solo meno estrema dello stesso processo di identificazione. Le lotte simmetriche sono autolesioniste: partito contro partito, Stato contro Stato, identità contro identità. Anche se “vittoriose”, finiscono per riprodurre ciò a cui si opponevano inizialmente. Il sionismo israeliano ne è l’esempio più ovvio.

7.2 La nostra rabbia: partiamo dalla prima persona plurale, non dalla terza. Proviamo rabbia contro un sistema che ci sta distruggendo. Questa è la nostra rabbia che è stata identificata, spersonalizzata e ci è stata portata via. La nostra rabbia è una rabbia resistenza-ricchezza-memoria.

Una politica identitaria è una politica spersonalizzante, alterizzante, incarnata soprattutto dallo Stato come forma organizzativa e portata alle estreme conseguenze dal fascismo. Una politica contro-e-oltre-identitaria è il tentativo di costruire una politica in prima persona plurale, una politica del Noi basata sul riconoscimento reciproco della comunanza. Questa politica contro-e-oltre-identitaria, in prima persona plurale, ha una lunga tradizione nella storia della lotta anticapitalista. È la tradizione dell’assemblea, il consiglio, la comune, il soviet, la forma organizzativa di base del movimento zapatista, del movimento curdo e di molti altri movimenti in tutto il mondo. Si tratta di un processo necessario ma difficile, che implica una capacità di dialogo non solo con i nostri amici, ma anche con persone che non ci piacciono, che ci danno sui nervi, le cui opinioni sono difficili da tollerare. Queste sono le persone con cui dobbiamo convivere su questa terra.

Vediamo le immagini delle persone che protestano con violenza in Inghilterra o che esultano ai comizi di Trump o che ridono con Milei, e proviamo un senso di ripugnanza: non potremmo nemmeno sederci nella stessa stanza con loro, tanto meno parlare con loro. Ma forse dobbiamo farlo. L’esclusione crea un loro escluso. Che ci escludano è chiaro, ma se partiamo dall’escluderli anche noi, non stiamo forse scadendo nella grammatica del valore declinata in terza persona?

La questione nasce concretamente in relazione all’idea di dittatura del proletariato. Pannekoek criticò la repressione dei “nemici della rivoluzione” da parte di Lenin, sostenendo che la dittatura del proletariato era una questione di organizzazione: organizzazione sulla base di consigli operai. I consigli operai avrebbero escluso automaticamente la borghesia. Non si trattava quindi di un’esclusione identitaria, ma di un cambiamento nella forma dell’organizzazione sociale. La soluzione di Lenin, a prescindere dal fatto se le persone represse fossero state veramente controrivoluzionarie o meno, non rompeva con la grammatica dello Stato, mentre quella di Pannekoek sì.

Esistono molte forme di organizzazione comunitaria. I consigli dei lavoratori non hanno più lo stesso rilievo pratico o teorico come nel secolo scorso. Eppure, l’esperienza del Rojava suggerisce che un’organizzazione comunitaria che prescinda dalla continua produzione di valore sul posto di lavoro rischia di incontrare dei problemi. Comunitarismo e valore sono grammatiche in conflitto. (Aslan 2023)

Parlare di una politica del Noi non significa in alcun modo rivendicare la purezza o la superiorità di un Noi. Si tratta piuttosto dell’organizzazione politica di un soggetto schizofrenico per superare una politica identitaria e in terza persona che genera ed è generata sia dallo Stato che dal fascismo.

Parlare di un Noi contro-e-oltre-identitario come di un soggetto, può sembrare l’abbandono dell’idea di lotta di classe o di analisi di classe, ma non è così. Il flusso del fare sociale passa attraverso combinazioni, coagulazioni, classificazioni, materialmente e concettualmente. Una coagulazione o classificazione fondamentale è la separazione molto reale tra coloro che, attraverso il capitale, comandano le attività degli altri e coloro che, per mancanza di accesso ai mezzi di produzione e di sopravvivenza, sono costretti a obbedire agli ordini di coloro che comandano.

La classe-ificazione è un involucro, una terza persona, un’identificazione. La lotta di classe è la lotta tra l’essere classe contro l’essere classificati. La lotta della classe operaia è la lotta di coloro che sono costretti a lavorare contro il lavoro e contro la classe. In quanto classe operaia siamo antilavoristi e anti-classisti. La lotta di classe è la lotta del Noi contro la nostra spersonificazione: in altre parole, la lotta per il riconoscimento reciproco, per la dignità. La lotta di classe non è una questione di chi-che (Lenin), ma un antagonismo tra i come, i come dell’organizzazione sociale. Il problema non è chi ha il potere (la classe capitalista), ma come è organizzata la società.

Questo approccio è anti-sociologico. La sociologia si basa sulle categorie di coagulazione delle relazioni sociali, ma c’è sempre un margine che non rientra nelle categorie di coagulazione, c’è sempre un flusso sociale che si spinge contro e oltre quelle coagulazioni. La sociologia vede il mondo che esiste, ma è cieca di fronte al flusso attuale del mondo che non esiste ancora. È necessariamente una visione identitaria del mondo in terza persona. Quando si sostiene che l’estrema destra è un movimento del sottoproletariato, ad esempio, non si vede che il movimento del capitale ci sta proletarizzando tutti, sottoponendoci a un nuovo livello di insicurezza sociale. Ecco perché ogni esplosione di rabbia sociale è in un certo senso nostra, anche se sta percorrendo la strada sbagliata. Il movimento del capitale, cioè il flusso delle relazioni sociali, è teoricamente precedente allo studio delle aggregazioni o dei coaguli attraverso cui passa.

Da parte nostra, la lotta di classe è una spinta contro e oltre. Spingiamo contro e oltre l’identitarismo, che si tratti dell’ordinario identitarismo Stato-denaro-valore o dell’identitarismo patologico fascista. Spingiamo verso un riconoscimento reciproco, l’Io-che-siamo-noi e il Noi-che-siamo-io che Hegel ha intravisto nella Rivoluzione francese.12 Spingiamo verso un dialogo basato sul riconoscimento attraverso l’organizzazione comunitaria. Il valore è la rottura del riconoscimento reciproco, l’istituzione di un riconoscimento basato sul lavoro astratto. Il valore impedisce un dialogo umano, necessario per la sopravvivenza della nostra specie.

7.3 La questione rimane: cosa significa sviluppare un approccio contro-e-oltre-identitario all’identitarismo estremo dell’estrema destra? La politica del Noi suggerita sopra non può basarsi sull’idea di un “noi-siamo-una-famiglia-felice” esistente. Deve essere una spinta verso un Noi che non è ancora compiuto.

Non ho una risposta chiara. Chiedendo camminiamo, Preguntando caminamos. Ma ci sono alcuni punti che mi sembrano importanti e che sono indicati nei paragrafi che seguono.

Il fascismo, il razzismo, la misoginia sono tutte forme estreme di identitarismo. L’identitarismo fa parte della grammatica del valore, della confluenza sociale a cui partecipiamo. Senza negare che facciamo parte di questa stessa grammatica e che siamo tutti razzisti e misogini, in misura diversa, a prescindere dal colore o dal genere, ci spingiamo contro e oltre, per romperla. Di questo ci sono molti esempi eccellenti e abbastanza comuni.

La lotta è contro il razzismo, il fascismo, il sessismo: non contro i razzisti, i fascisti, i sessisti. È importante riconoscere la nostra inevitabile schizofrenia. In questa società è impossibile essere non-razzisti, ma possiamo certamente (e dobbiamo) essere antirazzisti nel senso di lottare contro il nostro razzismo e quello degli altri. Semplificare l’inevitabile e onnipresente tensione tra identità e identità contro e oltre, in una relazione dualistica amico-nemico, è inutile e ipocrita.

Il riconoscimento del nostro carattere scisso suggerisce una modalità per rompere l’interpretazione spersonificante dell’estrema destra. L’argomentazione di Ernst Bloch, negli anni Trenta, secondo cui al centro del fascismo c’è una perversa promessa utopica13 è molto importante a tale riguardo. Tutti condividiamo una sorta di promessa utopica: è la perversione che è ripugnante. Così come il titolo di questo pezzo – Rebellion rushin’ down the wrong road (La ribellione corre lungo la strada sbagliata): la ribellione è nostra, è la strada sbagliata che rifiutiamo.

L’apertura di un approccio politico comunitario del Noi ci porta inevitabilmente a riconoscere ciò che abbiamo in comune, che ci piaccia o meno. Al livello più elementare, riconosciamo la nostra umanità. Così, ad esempio, se vediamo una dichiarazione come quella del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che ha dichiarato, “Stiamo combattendo degli animali umani e dobbiamo agire di conseguenza” (Bertov 2024) e reagiamo rispondendo che “no, qui l’animale umano sei tu” (e questa è certamente una tentazione), allora scadiamo esattamente nel fascismo a cui ci opponiamo. Se ci rifiutiamo di dare questa risposta, come dobbiamo fare, allora stiamo già accettando che c’è una certa comunanza tra di noi. Stiamo in effetti dicendo “per quanto ci addolori ammetterlo, anche tu, Gallant, sei umano”.

Dobbiamo andare oltre. Almeno per il momento, quando parliamo dell’ascesa dell’estrema destra, non parliamo di Hitler o di Gallant o delle guardie di Auschwitz o dei sostenitori disciplinati e militarizzati del nazismo degli anni Trenta, ma piuttosto dei sostenitori indisciplinati di Trump o di Milei o di Bolsonaro o di Orban o di Le Pen. Potremmo anche conoscere alcune di queste persone e probabilmente non avremmo difficoltà ad ammettere la loro umanità, il livello di base dell’essere Noi. E se ascoltiamo quello che dicono, siamo costretti a riconoscere altri punti che abbiamo in comune, o che perlomeno troviamo facili da capire.

La reazione più ovvia è la disillusione, la perdita di fiducia nei partiti politici esistenti. È impossibile comprendere l’ascesa di Milei in Argentina o di Bolsonaro in Brasile se non come risposta al fallimento dei governi di “sinistra” dei Kirchner o di Lula e Dilma nel realizzare il cambiamento sociale radicale che avevano promesso. È facile da capire, persino da condividere. Lo stesso vale per le loro proteste contro il crescente impoverimento, una caratteristica importante del sostegno sociale, soprattutto per i partiti di destra europei. Anche la critica al progresso capitalistico e al potere delle élite politiche e sociali e la nostalgia per le comunità, anche se immaginate, sono facili da comprendere. L’aspetto principale con cui è assolutamente impossibile empatizzare, ma facile da capire, è il razzismo, la misoginia e altri fenomeni di identitarismo estremo. Sono facili da capire perché non sono solo promossi dai politici mainstream, ma sono già insiti nell’esistenza stessa dello stato, come forma di confluenza sociale basata sul valore. Torniamo così alla necessaria rottura della grammatica della politica identitaria, alla necessaria creazione di una politica discorsiva e comunitaria basata su assemblee-consigli-comuni.

L’enorme risposta collettiva in Inghilterra alle rivolte anti-migranti va nella stessa direzione. Al di là di questo, ci deve essere un’apertura a una sorta di dialogo comunitario. Non si tratta di un dialogo facile, e probabilmente si tratta di un confronto con chi non vuole parteciparvi. Ma sono persone con cui dobbiamo vivere e dobbiamo stabilire una convivialità o una confluenza sociale che non passi solo attraverso lo scambio di merci o lo Stato.

È una follia? Forse, e forse è una follia necessaria. Dov’è questa anti-grammatica comunitaria? Dov’è questa digna rabia che è la nostra unica speranza? La digna rabia è intorno a noi, condizione latente ma necessaria della nostra convivialità.

  1. I forconi si rivoltano?

È interessante notare come un editoriale del Financial Times scritto alla fine del 2020 mettesse in guardia: “Dopo la crisi finanziaria globale, questo senso di tradimento ha alimentato una reazione politica contro la globalizzazione e le istituzioni della democrazia liberale. Il populismo di destra può prosperare sfruttando questo fenomeno pur lasciando i mercati capitalistici al loro posto. Ma poiché non è in grado di mantenere le promesse fatte alle persone economicamente frustrate, è solo questione di tempo prima che i forconi si scaglino contro il capitalismo stesso e contro la ricchezza di coloro che ne beneficiano” (Financial Times, 30 dicembre 2020).

Il sostegno all’estrema destra ha una base materiale: la mancata realizzazione di promesse e aspettative economiche. Negli ultimi trent’anni, ovunque, la ricchezza dei ricchi è aumentata in modo impressionante, mentre quella dei poveri è rimasta più o meno costante. I governi di sinistra, dove ci sono stati, hanno cambiato poco o nulla in questo senso. I partiti di destra promettono di realizzare un cambiamento economico che andrà a vantaggio dei loro sostenitori. Come sottolinea Schmidt, “I nazisti promettevano tutto a tutti. Gli operai si aspettavano posti di lavoro e assegni generosi, i contadini speravano di ottenere buoni prezzi per i loro raccolti, i negozianti si preparavano a un aumento delle vendite e i capitalisti non vedevano l’ora di ripristinare i profitti distrutti dalla crisi” (Schmidt, 2020, 37). Oggi i partiti di estrema destra (e in realtà tutti i partiti politici) non sono molto diversi. È improbabile che, salendo al potere, riescano a realizzare il cambiamento radicale che promettono. Il tipo di espulsione dei migranti di cui parla Trump sarebbe un disastro economico per gli Stati Uniti. E probabilmente non esiste un grado di disciplina partitica o sociale che possa portare a un aumento significativo del tasso di sfruttamento, come nel caso dei nazisti. A meno di una guerra, è possibile che i governi di estrema destra, laddove vengano eletti, si limitino a ripetere il ciclo di speranze-promesse seguite da una rabbiosa disillusione.

E allora: è “solo una questione di tempo prima che vengano fuori i forconi per il capitalismo stesso e per la ricchezza di coloro che ne beneficiano”? Vuol dire che la ribellione si spingerà lungo la strada giusta, che la tempesta si abbatterà sull’albero giusto? Probabilmente il tasso di instabilità sociale della destra e della sinistra è molto più alto di quello degli anni Trenta. C’è un modo in cui le nostre rabbie possano unirsi? C’è un modo in cui la rabbia perversa, identitaria, razzista e statalista possa rompere le identità e avvicinarsi a quella rabbia dignitosa, la rabia digna, che è l’unica base della speranza rivoluzionaria? C’è un modo per spingere in questa direzione?

Forse. Non necessariamente. Ma forse. Preguntando caminamos.

Bibliografia
Abahlali baseMjondolo, “KwaZulu-Natal and Gauteng are burning, we need to build a just peace”, 13 luglio 2021. http://abahlali.org/node/17320/
Adorno, T.W. 1966/1990. Negative Dialectics, London: Routledge.
Aslan Azize 2023, Anticapitalist Economy in Rojava: The Contradictions of Revolution in the Kurdish Struggles, Wakefield: Daraja Press.
Bartov, Omer 2024. “As a former IDF soldier and historian of genocide, I was deeply disturbed by my recent visit to Israel”, The Guardian, 13 agosto
Bloch Ernst, 1959/ 1985. The Principle of Hope. 3 vol.Cambridge, Massachussetts: MIT Press Bloch, Ernst 1936/1991. Heritage of our Times. Cambridge: Polity Press.
Gandesha, Samir (ed.) (2020) Spectres of Fascism: Historical, Theoretical and International Perspectives, London, Pluto Press.
Gunn, Richard e Adrian Wilding. 2020. Revolutionary Recognition. London: Bloomsbury Press.
Marx, Karl. 1867/1990.Capital, vol. 1, tradotto da Ben Fowkes. London: Penguin.
Regalado Mujica, Rogelio (2024),Elementos hacía una Teoría Crítica del Fascismo en el Siglo XXI, tesi di dottorato, Benemérita Universidad Autónoma de Puebla.
Reitter, Karl (2025) “Elements of Marx’s Critique of the State”. Di prossima pubblicazione.
Schmidt, Ingo 2020. “The “Hope of the Hopeless”: Contemporary Lessons
from Marxist Struggles Against Hitler and Mussolini”, in Gandesha (2020), 27-43.
Sohn-Rethel, Alfred. 1978. Intellectual and Manual Labour. A Critique of Epistemology. London: Macmillan.
Toscano, Alberto (2017) “Notes on Late Fascism” Historical Materialism (blog), 2 aprile 2017, www.historicalmaterialism.org/blog/notes-late-fascism

Note
1 Il titolo viene da Five Nights of Bleeding di Linton Kwesi Johnson, che recita:
Notte numero quattro alla danza blues, ballo degli abusi
Due sale gremite e la pressione che sale
Caldo, teste calde
Rituale di sangue alla danza blues
Vetri rotti che si scheggiano, fuoco
Asce, lame, esplosioni di cervelli
Ribellione che corre lungo la strada sbagliata
Tempesta che si abbatte sull’albero sbagliato
E Leroy sanguina quasi a morte la quarta notte
della danza blues, una notte nera di ribellione, è
Guerra tra i ribelli
Follia, follia, Guerra
Si può ascoltare la canzone al seguente link https://www.youtube.com/watch?v=JF-nh2aL6rQ
2 Un enorme ringraziamento a tutti coloro che hanno commentato una versione precedente di questo articolo: Panagiotis Doulos, Edith González, Lars Stubbe, Milena Rodríguez, Marcel Stoetzler, Josep Rafanelli, Alejandro Merani, Ana Cecilia Dinerstein, Sergio Tischler, Inés Durán Matute, Adrian Wilding and Karla Sánchez.
3 Sohn-Rethel (1978, 5) parla di sintesi sociale, ma questo implica una chiusura eccessiva. Preferisco la coesione sociale o la confluenza sociale, perché presuppone un movimento costante.
4 Partiamo dal capitalismo, non dal neoliberismo. In Messico, dove il governo proclama costantemente la lotta contro il neoliberismo, parlare di neoliberismo è spesso un modo per dire “non c’è niente di male nel capitalismo, ma non deve essere portato all’estremo”. Max Horkeimer dice che “Se non si vuole parlare di capitalismo, allora è meglio tacere sul fascismo”. Lo stesso si può dire del neoliberismo.
5 La nozione stessa di critica ne è testimonianza. La critica implica necessariamente un’alterità. Il fatto che noi critichiamo significa che non siamo completamente sussunti nella relazione del valore: che non siamo solo nella relazione, ma anche contro e al di là di essa.
6 Sul dibattito sulla derivazione dello Stato, vedi Holloway e Picciotto (1978).
7 Ciò non significa negare che lo Stato stabilisca anche altre forme di classificazione e gerarchizzazione essenziali alla riproduzione del capitale, ma la dimensione più immediata della sua stessa esistenza è l’identificazione dei cittadini e degli stranieri.
8 La guerra può anche essere incentrata sulla competizione per la distribuzione del plusvalore sociale totale, ma l’uccisione di persone da parte di altre persone può essere spiegata solo attraverso un’alterazione disumanizzante di queste persone.
9 Scrivendo nell’agosto del 2024, spero vivamente che Trump non vinca le prossime elezioni negli Stati Uniti. Tuttavia, non è chiaro se causerebbe più morti nel mondo un governo Trump o uno guidato da Harris.
10 Dire “loro sono identitari, noi no” è autocontraddittorio, come il bugiardo cretese.
11 Non seguo qui i dettagli della sua argomentazione, ma la distinzione di Rogelio Regalado tra interpretazioni “exoteriche” ed “esoteriche” del fascismo è molto utile (2024). La linea seguita qui è chiaramente esoterica, ma, all’interno di questa, desidero distinguere tra approcci identitari e contro-e-oltre-identitari.
12 Sul tema, vedi Gunn e Wilding (2020).
13 Vedi Bloch (1936/1991); Toscano (2017).

Questo saggio è stato preparato per un seminario promosso a Vancouver in agosto. Traduzione di Virginia Benvenuti per Comune.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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