La ricetta progressista per la violenza giovanile a Napoli
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(*)Dopo i recenti fatti di cronaca che hanno portato all’uccisione di due giovani nel centro di Napoli e uno a San Sebastiano al Vesuvio, il terzo settore cittadino ha convocato un’assemblea pubblica in piazza del Gesù.
Nel manifesto di convocazione, che evita accuratamente di nominare le uccisioni di ragazzi per mano di appartenenti alle forze dell’ordine, si reclama “un patto costante tra istituzioni, mondo del terzo settore, scuola, associazionismo, realtà imprenditoriali, chiese e realtà religiose”. E poi “un lavoro dignitoso, una sicurezza senza retorica, un controllo del territorio e un piano educativo straordinario che contempli interventi straordinari dagli asili all’età adulta, e non provvedimenti presi sull’onda mediatica e che puntano solo sulla repressione, senza prendere in carico le persone e i contesti”.
Gli enti del terzo settore affermano di essere stati “troppo soli, troppo precari, troppo inascoltati in questi anni”; e considerano questo “un momento per rendere visibile lo straordinario lavoro che facciamo e per chiedere che le nostre pratiche innovative, generative, informali, collaborative diventino una politica pubblica”.
Sulle enormi contraddizioni del lavoro del terzo settore, non solo a Napoli, abbiamo scritto e continueremo a scrivere. Così come i ricorrenti sacrifici di queste giovani vite sono stati per noi le tristi occasioni per far sentire una voce diversa dalla litania progressista, tanto ipocrita quanto impotente. Riproponiamo qui uno degli ultimi articoli, originato da un libro di Isaia Sales, sintesi perfetta di tutte le velleità di questo schieramento.
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Napoli non è tra le prime cinquanta città più violente al mondo per numero di omicidi. E nemmeno in Europa. E neanche in Italia. E nemmeno per numero di minori coinvolti in reati.
Esordisce con questi dati di fatto Isaia Sales – saggista, docente universitario, già deputato dei Ds –, nel suo ultimo libro, Teneri assassini. Il mondo delle babygang a Napoli (Marotta&Cafiero, 2021).
Allora perché dedicare un volume alla violenza dei minori napoletani? Cosa caratterizza la situazione della città al punto da rendere la questione una vera emergenza? La “qualità” di questa violenza, sostiene l’autore; la “radicalizzazione” dei giovanissimi; l’alto tasso di recidiva da adulti dei minori finiti in carcere, ma anche “la percezione che si ha della fase attuale”.
C’è uno scorrimento permanente – scrive Sales – tra criminalità minorile, giovanile e camorristica; tra delinquenza comune e organizzata. I gruppi camorristi sono più frammentati e instabili di quelli di mafia e ndrangheta. E questo ne aumenta la pericolosità. Le nuove bande, che spesso sorgono nel vuoto lasciato dai successi delle forze repressive, sono composte da persone sempre più giovani e incontrollabili, che per i gruppi di camorra costituiscono un “esercito delinquenziale di riserva”, da cui attingere in modo permanente.
Secondo Sales il processo in atto non è più nemmeno definibile come “camorra”, la quale abitualmente esercita la propria influenza su uno strato più ampio, che non coincide del tutto con quello delinquenziale. Sales lo chiama “gangsterismo sociale”, una miscela più autoreferenziale di “illegalità di strada e affari milionari”.
Con la droga di massa, la possibilità di arricchirsi si è estesa a dismisura e “attira masse di giovani un tempo dediti a lavori di sopravvivenza”. Provengono da un mondo di miseria, ma a quel mondo restano aggrappati anche quando hanno raggiunto l’obiettivo. La loro reputazione e le loro relazioni non varcano i confini del quartiere a cui appartengono.
“Non si integrano”, annota Sales con sgomento. E non si accontentano di sopravvivere.
L’emergenza criminale a Napoli è cominciata alla fine degli anni Settanta e non è ancora finita. Tra le sue cause, ricorda Sales, la fine della promiscuità sociale nel centro storico, dovuta allo spostamento dei ceti abbienti nei quartieri residenziali e al trasferimento dei ceti popolari nelle nuove periferie prive di tutto a partire dagli anni Sessanta. Poi il caos del dopo-terremoto e in anni recenti la crisi dello stato sociale; l’isolamento della città a livello nazionale; la mobilità sociale bloccata, e l’esercizio della violenza come unica chiave per sbloccarla.
Sales sottolinea l’alto numero di minori coinvolti in procedimenti per associazione mafiosa. E il fatto che solo il dieci per cento dei reati di minori sia commesso da stranieri, molto meno che in altre grandi città italiane. La questione è quindi tutta “indigena”.
Questi giovani provengono sempre dagli stessi quartieri e da un’unica condizione sociale. Sales li definisce “sottoproletari”. L’alta recidiva da adulti rivela, tra l’altro, la continuità con l’esperienza delinquenziale delle famiglie. Sono, infatti, spesso figli, fratelli o nipoti di pregiudicati.
Da buon progressista, Sales sa (e lo afferma, che è già tanto di questi tempi) che “tutto ciò non ha niente a che fare con il destino, con i geni criminali nel sangue”, ma piuttosto con l’incidenza di specifici indicatori in determinate aree: gli alti tassi di disoccupazione e di abbandono scolastico, il disagio abitativo, i precedenti penali nel nucleo familiare. “Non si nasce camorrista, ma ci sono molte più probabilità di diventarlo in alcuni ambienti sociali del centro storico, delle periferie di Napoli o del suo hinterland”.
Sales traccia un parallelo con Parigi e Londra. “L’insuccesso di Napoli come metropoli – scrive – è determinato dal continuo formarsi, lungo tutti i tentativi di modernizzazione che l’hanno caratterizzata, di consistenti sacche sociali irriducibili all’integrazione, di cui la camorra ha attirato e organizzato le parti più violente”.
Al centro dell’attenzione quindi non sono i modi in cui la “modernizzazione” è stata realizzata dalle classi dirigenti locali e nazionali, ma le “resistenze” esercitate da queste “sacche” di presunti irriducibili. Un’altra caratteristica di questi refrattari sarebbe infatti questa: la “sostanziale assuefazione nei secoli delle classi popolari e plebee rispetto alle loro miserabili condizioni”. E ancora: “A Napoli non è la città del benessere che si separa dall’altra (come avviene di regola nelle metropoli moderne), è la città del malessere che si isola, si barrica, scava le trincee per rendere ancora più forte, più violenta la distanza”.
Quest’ultima affermazione non corrisponde in nulla all’esperienza che ho della mia città, ma andiamo avanti. Ora, si dà il caso che proprio a partire dagli anni Sessanta della “grande modernizzazione”, anche a Napoli le classi popolari, talvolta su binari paralleli, talvolta intrecciando i propri percorsi con studenti, operai, esponenti delle professioni, abbiano compiuto enormi sforzi collettivi per emanciparsi dalla propria miseria, non solo rivendicando l’accesso ai fondamenti della modernità (una casa decente, un lavoro stabile, la possibilità di studiare, di curarsi, di abitare in quartieri salubri, ecc.), ma anche reclamando protagonismo e partecipazione alla vita pubblica attraverso forme autonome organizzate. Si dà anche il caso che tutti questi tentativi siano sempre stati osteggiati o abilmente svuotati dall’interno dal sistema politico, con il partito comunista in prima fila.
Di questo recente periodo della storia cittadina, durato almeno quindici anni, Sales non fa menzione, soffermandosi invece sulle alleanze strette nei secoli passati tra il sistema di potere ed elementi popolari, o popolari e criminali, in funzione anti-riformista. Ci sono poi alcune annotazioni vaghe e opinabili sulle presunte connessioni tra i gruppi politici armati, che alla fine degli anni Settanta cominciarono a operare in città, e la camorra di Raffaele Cutolo allora in auge. Fino a questo sillogismo: “La camorra si rivela un’organizzazione criminale estremamente sensibile e permeabile alle ideologie politiche estreme e, a Napoli, sia quelle di sinistra, sia quelle di destra hanno storicamente tentato di rappresentare il sottoproletariato e i suoi contraddittori interessi”.
L’aspirazione di Sales, se ne deduce, sarebbe una “integrazione” centrista, moderata, responsabile, sostanzialmente guidata dall’alto. Ma chi dovrebbe guidarla, e con quali modalità? Sales riconosce che finora si è operato poco e male al riguardo. Ma è proprio quando deve indicare una via d’uscita plausibile che il discorso progressista, costretto a misurarsi con i fatti, rivela tutta la sua inconsistenza.
Colpisce, intanto, la disparità tra l’accuratezza della disamina sui mali e la superficialità dei rimedi proposti. Sulle duecento pagine del testo, l’autore dedica alla pars costruens, alle possibili soluzioni dei problemi esposti, appena sei pagine.
Del disastro delle periferie dovrebbe occuparsi Renzo Piano. Punto. Renzo Piano, il “ricucitore”.
Per i quartieri del centro storico, invece, si dovrebbe riuscire a “scompaginare la composizione sociale senza comprometterne la vitalità”. Come? Per esempio, trasformandoli nei “principali quartieri culturali e artistici della città”, ristrutturando edifici per farne case per studenti e lanciando un nuovo programma di edilizia economica e popolare.
Alle famiglie a rischio bisognerebbe erogare prestiti o esenzioni per incentivare la frequenza scolastica dei figli. Andrebbero formate équipe multidisciplinari per seguire oltre l’orario scolastico i bambini di “particolari zone e quartieri, selezionati sulla base della percentuale di reati riscontrati tra i minorenni”. Lo stato dovrebbe supportare direttamente l’iniziativa, assumendo “migliaia di psicologi, assistenti sociali, insegnanti, tutor, affinché ogni bambino sia affidato fin dalla nascita a esperti che li seguano in tutti i passaggi della loro vita”.
Per i più grandi, di fresco approdo nel circuito della giustizia, sarà necessario trasformare in scuole e fabbriche a tempo pieno gli attuali istituti di pena. “Chi arriva in quei circuiti deve conoscere la scuola che non ha conosciuto prima e imparare un mestiere che altrimenti non troverà e nessuno dovrà rifiutarsi”. All’uopo lo stato selezionerà gli insegnanti migliori, riserverà dei posti nelle università e nelle imprese, stabilirà sgravi fiscali per incentivare queste ultime. “Sarebbe interessante immaginare una scuola di alta formazione per il personale che si occuperà nel futuro di minori a rischio”.
Il tono delle proposte è ispirato, da sogno a occhi aperti.
Ma la realtà – e questo Sales non può non saperlo – è molto più terra terra.
Come ignorare, per esempio, che la scuola pubblica a Napoli non ha più da tempo alcun tipo di presa su bambini e adolescenti che provengono da situazioni di grande precarietà e deprivazione.
Inutile rifare l’elenco delle ragioni. Basti dire della consuetudine, nelle scuole di confine (tra quartieri bene e quartieri popolari), di selezionare accuratamente gli alunni per comporre classi omogenee, così che gli ambienti dei benestanti siano depurati dalla presenza di elementi popolari, e viceversa.
Questo per il clima culturale. E basterebbe. Ma pensare di poter contare sulla scuola per un compito simile, dopo che due anni di gestione pandemica hanno messo all’angolo le già sparute sacche di tolleranza, dando briglia sciolta agli elementi più autoritari, sadici e paranoici tra i dirigenti e gli insegnanti; dopo che la transizione accelerata al digitale, sia a scuola che nel lavoro sociale, ha approfondito ulteriormente il baratro tra gli alfabetizzati e gli ignoranti, tra chi ha una famiglia stabile e chi non ce l’ha, tra chi vive in spazi adeguati e chi no; fare affidamento su questo panorama di macerie per pensare di redimere i “ragazzi cattivi” non è solo una fumosa velleità, ma una consapevole bugia.
“L’integrazione delle masse sottoproletarie”, come dice di volerla Sales, non riuscirà a questa classe dirigente. Non ci sarà alcun piano di edilizia economica e popolare nel centro storico, ci saranno invece sempre più case vacanze, maggiori pressioni dei proprietari per sfrattare e ristrutturare, sempre più ristoranti e friggitorie che offriranno lavori sempre più precari, usuranti e sottopagati per i giovani che vorranno accettarli.
Non ci saranno equipe multidisciplinari, ma sono già qui gli sgomberi di senzatetto e la militarizzazione dei quartieri centrali: è il modo in cui la nuova giunta comunale si è presentata alla città.
Non ci saranno scuole di alta formazione per gli educatori, perché le imprese del terzo settore non hanno alcun interesse a investire su educatori e operatori sociali, ma solo a usarli come pedine usa e getta nel Risiko di bandi e progetti sempre più frammentari e slegati dai bisogni dei territori. Piuttosto che favoleggiare sul ruolo delle istituzioni esistenti, il “progetto integrazione” dovrebbe innanzitutto passare da una critica approfondita alle pratiche e alla cultura che quelle istituzioni veicolano.
La “radicalizzazione” dei giovani violenti, sostiene Sales, non ha motivi apparenti. Si tratta di “insoddisfatti che non sanno bene i motivi della loro insoddisfazione”. È una “radicalizzazione del niente”, perché “niente sono quelli che la praticano e niente di concreto perseguono”.
Ma si sbaglia di grosso. Troppa è qui la distanza del progressista dall’oggetto della sua analisi. Questi ragazzi, certo, galleggiano nell’ignoranza, ma non c’è bisogno di una laurea per accorgersi che la propria vita è priva di sbocchi. E, d’altra parte, dovrebbero vivere da eremiti per riuscire a sottrarsi ai messaggi ossessivi che provengono dalla società degli integrati: fai soldi, ottieni successo, consuma senza limiti, o non sarai niente.
La cosa interessante, la cosa davvero meritevole di studio, è che la maggior parte di essi, nonostante tutto, sa sottrarsi al richiamo, sa riconoscere la trappola dell’autodistruzione. In molti, infatti, stringono i pugni, abbassano lo sguardo e accettano quel che c’è; fanno piani nella loro testa, tengono vivi i sogni, e intanto non si “integrano”.
Non si illuda chi li vede servire ai tavoli, fare una consegna o armeggiare sotto la pancia di un’auto. Anche volendo, è difficile integrarsi in un mondo senza futuro.
E poi ci sono gli altri. Quelli che oscillano, quelli che sbagliano e poi tornano indietro, quelli che vorrebbero tornare indietro ma ormai è troppo tardi, e quelli che si bruciano subito tutti i ponti alle spalle (la casistica è molto più varia di come la immaginano i progressisti). Sono quelli che daranno e riceveranno dolore, che andranno a sbattere da soli contro un muro o saranno ridotti alla resa con la forza. Si potrà provare a debellarli con strumenti gentili: le riqualificazioni urbanistiche, la “turistificazione” o l’emigrazione di massa.
Ma per adesso sono ancora troppo numerosi perché spariscano tutti dentro le nostre sovraffollate galere.
Non ci sarà nessuna integrazione. Tirarne fuori uno alla volta non paga. Non ha pagato.
Ce ne siamo accorti in tutti questi anni, accompagnando i tentativi più onesti delle persone di buona volontà. I ragazzi cattivi dovranno uscirne tutti insieme oppure non ne usciranno.
Le strade dell’emancipazione dovranno cercarle da sé, oppure insieme a chi avrà ancora la forza di accompagnarli per un tratto di strada: senza riserve mentali, senza appuntarsi medaglie, senza distrarsi dagli obiettivi. Ma intorno a loro dovranno succedere anche altre cose perché si possa alimentare qualche speranza. Devono fare da soli, ma non dipende solo da loro.
(*) Tratto da Napoli Monitor.
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