La rivolta anticapitalista del Brasile

di David Lifodi*

Alla fine le contraddizioni del Brasile sono venute a galla. Il paese del miracolo economico, quello che fa parte del Brics (il gruppo dei paesi emergenti composto anche da Russia, India, Cina e Sudafrica), gioca un ruolo di potenza sub imperialista a livello continentale, promuove le grandi (e assai discutibili) opere, ma al tempo stesso è riuscito, seppur con programmi meramente assistenzialisti, a ridurre per certi aspetti la povertà, senza però impegnarsi seriamente a combatterne le cause strutturali, ha visto la sua gente scendere in piazza: non solo per protestare contro l’aumento dei prezzi del trasporto pubblico (peraltro ritirati in tutta fretta), nemmeno per protestare esclusivamente contro gli sprechi dovuti ai Mondiali del 2014 e alle Olimpiadi del 2016, e neanche per limitarsi a contestare il carovita. Più semplicemente, i fuochi del Brasile ci dicono che la popolazione si è ribellata ad un sistema che di fatto ha continuato a promuovere, fin dall’era Lula, un capitalismo escludente che a portato le istituzioni ad occuparsi dei problemi sociali del paese solo in superfice. “Un paese muto è un paese che non cambia”, era scritto in uno dei tanti striscioni che in questi giorni sono stati esposti durante i cortei per le strade delle città brasiliane, grandi e piccole.

L’immagine del Brasile da cartolina, pazzo per il calcio e la Seleção, non esiste più, così come si è rotto l’idillio con la classe dirigente petista, quella che all’inizio degli anni Duemila aveva incantato il mondo per la favola del presidente operaio Lula, giunto alla presidenza dopo anni di durissimi conflitti sindacali, e adesso infangata dagli scandali e dalla corruzione  hanno travolto i suoi vertici. A questo proposito è interessante citare una dichiarazione di Lula riportata sul blog del sociologo Emir Sader, uno degli intellettuali e analisti politici di maggior prestigio in Brasile, riportata sul Mininotiziario di Aldo Zanchetta America Latina dal basso: “Le elites non hanno mai guadagnato denaro come durante il mio governo… . Le imprese e le banche mai hanno guadagnato tanto”. Quando Lula giunse al Planalto aveva ereditato una situazione economica disastrosa dal governo neoliberale di Fernando Henrique Cardoso, con un debito pubblico astronomico, un’inflazione galoppante e le disuguaglianze sociali profonde. A differenza degli altri presidenti che hanno contribuito all’ondata rosa (e in qualche caso rossa) che per alcuni anni era riuscita ad avanzare in America Latina, Lula fu costretto a mutare la sua agenda sociale e dovette riadattarla alle esigenze della finanza, dei grandi proprietari terrieri, della borghesia e delle multinazionali: probabilmente Lula credeva che un capitalismo temperato sarebbe servito a rimettere in sesto il paese. Al tempo stesso, Lula prima e la presidenta Dilma Rousseff  poi, sono riusciti, secondo i dati Cepal (la Comisión Económica para América Latina), a ridurre la povertà dal 37,5% al 20, 9%. Inoltre, programmi sociali come la Bolsa Familia hanno raggiunto quasi 50 milioni di brasiliani e, al tempo stesso, sotto la presidenza di Lula e Dilma, il Brasile ha giocato un ruolo di primo piano nell’integrazionismo latinoamericano, da Unasur al Mercosur post neoliberista, peraltro in chiave di potenza egemone. Contemporaneamente, sia Lula che Dilma hanno contribuito alla derechización del Pt, che da forza politica socialmente impegnata e solidale ha visto la sua classe dirigente avvicinarsi ai settori più conservatori del paese: dalla bancada ruralista, trasversale agli schieramenti politici e padrona della terra (negli ultimi anni gli assassini di leader sociali, indigeni e contadini hanno fatto registrare un aumento preoccupante), all’enorme potere accordato alle chiese evangeliche (ad esempio la Commissione dei diritti umani è stata affidata ad un pastore evangelico famoso per suoi sermoni quotidiani contro gli omosessuali), molti analisti politici di sinistra sostengono che Lula e Dilma sono stati i fautori del miracolo economico del… neoliberismo brasiliano. È un dato di fatto che la persecuzione contro il Movimento Sem Terra è tutt’altro che diminuita nell’ultimo decennio e, paradossalmente, le occupazioni della terra sono aumentate rispetto alla presidenza di Cardoso.  Le manifestazioni oceaniche di questi giorni non possono essere classificate come un semplice cacerolazo in salsa brasiliana, e nemmeno come  il Que se vayan todos gridato dagli argentini all’inizio degli anni Duemila: riprendono molto da quelle proteste, certo, ma soprattutto rappresentano un nuovo modo di fare politica, non necessariamente antipartitico, come invece le ha interpretate la stampa borghese e della destra brasiliana in un patetico tentativo di cavalcare la più grande mobilitazione nel paese dall’impeachment del presidente Fernando Collor de Mello del 1992. Non si tratta, però, soltanto dei limiti del governo petista, a livello statale e federale, sebbene il bubbone sia scoppiato nelle mani di Dilma Rousseff, e nemmeno dell’arretratezza intellettuale o dell’autoritarismo delle destre: il popolo ha deciso che era stanco di accettare passivamente tutte le decisioni prese dall’alto e senza essere consultato: da qui è nata la rivolta. È evidente, dopo giorni di scontri e mobilitazioni, che le istituzioni hanno difficoltà a ad avere una relazione da pari a pari con i movimenti popolari e a riconoscere quel diritto di cittadinanza spesso negato alle organizzazioni sociali. Il Brasile è esploso perché sono venuti a galla i mille malcontenti di un paese che spende cifre esorbitanti per organizzare la Coppa del Mondo 2014 e sgombera senza troppi problemi  i quartieri popolari per riqualificarli in vista di quell’evento sportivo e di Rio 2016. La rabbia dei brasiliani è scoppiata per la costruzione della diga di Belo Monte e per le decine di centrali idroelettriche che costringeranno intere comunità a trasformarsi in sfollati ambientali, per le ripetute operazioni di pulizia sociale condotte contro i movimenti urbani, quali i Sem Teto, e ancora per lo stretto legame tra il governo e le banche, divenute l’interlocutore principale del Planalto, mentre l’istruzione, la sanità e i trasporti continuano ad essere trascurati e milioni di persone vivono in condizioni di estrema indigenza. Tutte queste forme di resistenza (una parte minima delle tante presenti nel paese), si sono saldate e hanno cessato di essere di nicchia. Il Movimento Passe Livre (Mpl), ad esempio, è un movimento di base attivo da anni presente nelle principali città brasiliane, e non è la prima volta che conduce campagne per la gratuità del trasporto pubblico. Quei venti centesimi che hanno aumentato il costo dei biglietti degli autobus a San Paolo, da 3 reais e 3,20, “rappresentano il nostro Gezi Park” hanno spiegato i leader dell’Mpl, composti da collettivi di giovani molti dei quali alla loro prima esperienza politica. Eppure, già nel 2003 si verificò una rivolta studentesca a Salvador Bahia contro gli aumenti indiscriminati delle tariffe del trasporto pubblico che avevano colpito gli universitari, gli studenti medi e le fasce più povere della popolazione, così come ci fu un’ondata di proteste, nel 2007, a San Paolo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte, Recife, Porto Alegre, Fortaleza e Curitiba. Sempre in quegli anni l’Mpl smascherò il Conselho Municipal de Transportes della regione metropolitana di San Paolo, la cui maggioranza era costiuita proprio dalle imprese di trasporto, le principali interessate all’aumento del biglietto e ai relativi guadagni. Nel 2007 si lottava per evitare che la tariffa passasse da 2,40 reais e 2.60: dopo sei anni siamo già a 3 reais. Gli stessi Comitês Populares da Copa, sorti nelle città che ospiteranno i Mondiali, sono stati trattati sempre con una certa sufficienza, anche a sinistra, eppure hanno avuto il merito, nel corso degli anni, di far riflettere il paese almeno su tre aspetti. Il primo è  legato alle opere faraoniche, vedi l’ammodernamento o la costruzione di nuovi stadi. In molti degli impianti, compreso il leggendario Maracaná, gli operai hanno incrociato le braccia per mesi per protestare contro le pessime condizioni di lavoro, ricevendo la solidarietà solo dei Comitati popolari. Il secondo: è stato grazie alla tenacia del movimento Copa pra Quem? che è emerso il progetto del treno ad alta velocità che collegherà ventidue quartieri di Fortaleza, condurrà i tifosi allo stadio ma taglierà in due interi bairros e costringerà le comunità a dover abbandonare le proprie abitazioni. Infine, il terzo aspetto: i Comitati hanno battagliato, fino a poco tempo fa in solitudine, contro la Fifa, che intendeva imporre la privatizzazione del merchandising, costringendo così alla fame i piccoli venditori ambulanti. Il grande (?) Pelé ha invitato i brasiliani a godersi la Confederations Cup e i mondiali ricevendo una sequela di insulti sui social network che lo hanno costretto ad un repentino dietrofront : innanzitutto i prezzi dei biglietti sono proibitivi per un brasiliano medio e, in secondo luogo, molti si sono riconosciuti nello slogan “un professore vale più di un Neymar”, riferendosi alla giovane e promettente stella della nazionale brasiliana e del Santos. La protesta difficilmente terminerà con la revoca dell’aumento del biglietto dell’autobus: l’Mpl ha già fatto sapere che lotterà per la liberazione dei suoi militanti arrestati e lo stesso faranno i movimenti sociali che fin qui hanno subìto una violenta repressione, sia da governatori autoritari quali Geraldo Alckmin (stato di San Paolo), sia da Fernando Haddad, ex docente universitario laureatosi con una tesi su Marx e Habermas e adesso sindaco petista della città di San Paolo, ma che non si è fatto alcun scrupolo a dare campo libero alla polizia, anche se va riconosciuto come almeno una parte delle forze dell’ordine abbia solidarizzato con i manifestanti.

Il Movimento Passe Livre ha dichiarato più volte che non è stata solo la sua mobilitazione a convincere le autorità a ritirare l’aumento del prezzo del trasporto pubblico, ma un intero popolo. In Brasile è ancora forte quello che João Pedro Stedile chiama il “latifondo mediatico”: la grande stampa ha cercato di strumentalizzare la protesta per dimostrare l’incapacità dei governi di centrosinistra con l’intento di dipingere il quadro di un movimento sociale con diverse ragioni, ma allo sbando, la condizione ideale per favorire il ritorno della destra al Planalto nel 2014. Questa eventualità rappresenterebbe una vera e propria catastrofe in un contesto in cui Dilma Rousseff avrebbe perso già almeno l’8% di popolarità. Il sociologo Boaventura de Sousa Santos ha scritto sul manifesto del 22 giugno che il Brasile ha perseguito il progresso senza dignità, favorendo il nuovo consumismo, megaprogetti e sottovalutando la corruzione dilagante: se non sarà cambiata rotta le proteste non finiranno.

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