La rivolta dei berberi in Marocco
Una testimonianza arrivata alla “bottega” e un articolo di Sara Borrillo (ripreso da «Reset)
LA TESTIMONIANZA
Salam, un breve aggiornamento sulla vita politica qui. Vi ricordate gli eventi di Genova? La giornata di oggi in Marocco è identica. E’ stato dichiarata una manifestazione nazionale a el Housseima alle 18 che porta il nome di Anual (la grande bataglia che ha sconfitto l’esercito spagnolo nella resistenza del Rif nel 1921) e il governo, come il solito, non ha autorizzato la manifestazione.
LE RIVENDICAZIONI SONO DI DIMENSIONE NAZIONALE: stop alla maldistribuzione e allo sfruttamento della risorse da parte dei pochi soliti… Sanità, scuola, lavoro, democrazia vera, immediata libertà non condizionata dei detenuti/e. Insomma la piattaforma di questa resistenza è più che nobile.
Poi i politici provano a dare alla scossa del nord un colore di divisione separatista ma in verità il malcontento è generale. I politici invitano a mantenere la calma promettendo progetti di sviluppo locale ad Al Houseima ma il popolo non vuole cascare nella trappola di considerare il problema solo locale.
Per il momento tutte le strade che portano a El Houseima sono chiuse. A livello nazionale la gente è partita la mattina presto per arrivare in tempo all’orario prestabilito ma ha trovato agenti che schedavano tutte /i o li mandavano indietro. All’interno di Houseima, la piccola cittadina a dire poco super blindata, i detenuti hanno già cominciato lo sciopero della fame e le figure più rappresentative del movimento dichiaravano che la manifestazione è pacifica.
Da Houseima a Genova la stessa spiaggia lo stesso mare.
Marocco: il Rif in rivolta
È stato chiamato Hirāk shaʻabī il ‘movimento popolare’ del Rif protagonista dell’attualità marocchina degli ultimi mesi. Il governo centrale risponde alle proteste con arresti e repressione
di Sara Borrillo, tratto da Reset
Le ragioni della protesta
A innescare le prime manifestazioni è stata la morte di Mohsine Fikri, commerciante di pesce, morto nell’auto-compattatore in cui si era gettato per recuperare un carico di pesce sequestrato dalle autorità perché considerato non a norma. La rabbia popolare è esplosa quando è circolata la notizia del coinvolgimento della polizia nel dare l’ordine di attivazione del compattatore. Era il 28 ottobre 2016.
Ad Al-Hoceima un sit-in spontaneo e pacifico davanti al commissariato di polizia ha indotto le autorità ad annunciare l’apertura di un’inchiesta per definire le responsabilità dell’accaduto.
Da allora migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Al-Hoceima, e poi dei centri vicini come Imzouren, dando vita a quello che è stato chiamato Movimento popolare (Hirāk shaʻabī).
Si tratta di un movimento inizialmente spontaneo, i cui metodi di protesta sono sempre rimasti pacifici, che ha saputo organizzarsi e darsi un assetto politico. Fra le parole d’ordine dei cortei, sono tornate a risuonare karāma, dignità, ḥurriyya, libertà e ʻadāla ijtimāiyya, giustizia sociale, come nelle marce del Movimento del 20 febbraio del 2011.
E come allora, obiettivo delle proteste è denunciare la hogra, l’umiliazione, subita da una popolazione per lo più giovane e disoccupata in una regione colpita da una storica marginalizzazione economica: nonostante il lancio nel 2015 del Piano di sviluppo per la regione di Al-Hoceima e l’approvazione della legge sulla regionalizzazione che avrebbe dovuto dinamizzare l’economia locale, la maggior parte degli introiti della zona deriva da attività di pesca, di produzione e contrabbando di hashish.
Ancor più di allora, le proteste sono connotate dalla componente culturale ‘berbera’, le marce sono colorate da bandiere del Movimento Amazigh (gialle, rosse, blu e verdi), da striscioni e ritratti di Fikri e dell’eroe rifano Abdel Karim Al-Khattabi (1882-1963).
Inoltre, rivendicazioni socio-economiche del movimento sono ben circostanziate in una sorta di Manifesto, in cui Hirak chiede la fine del ‘blocco’ economico, investimenti produttivi e posti di lavoro, infrastrutture e formazione professionale, lotta alla corruzione, sviluppo; ma anche, nella pratica, un ospedale, un’università, biblioteche, teatro, strade, e altri servizi di welfare necessari a una vita degna.
L’acquisizione di un peso sempre maggiore, sia sul piano del consenso territoriale che della presenza mediatica nazionale e internazionale (soprattutto della stampa spagnola e francese, ma anche di quella anglofona negli ultimi mesi), ha favorito l’aumento delle tensioni con le autorità di Rabat.
A gennaio, durante un sit-in in memoria di Fikri, si è verificato il primo duro intervento della polizia per disperdere le manifestazioni.
E da allora il confronto con le forze di sicurezza è divenuto sempre più aspro. Dopo il cambio ai vertici governativi di inizio aprile (in cui il Re, nel segno della ‘monarchia esecutiva’, ha sostituito il primo ministro Benkiran, leader del Partito Giustizia e Sviluppo, con Saad Eddine El-Othmani), la nomina agli Interni di Abdelouafi Laftit, originario del Rif, non sembra aver facilitato il dialogo tra potere centrale e Hirak. La risposta delle istituzioni alle rivendicazioni di piazza è percepita come lenta e inadeguata.
E il primo verdetto pubblico del 26 aprile sul processo per l’affaire Fikri (a 7 persone tra forze di polizia, impiegati del settore della pesca e della nettezza urbana, sono state inflitte una pena detentiva, fra 5 e 8 mesi, e una pecuniaria) non ha calmato la collera popolare.
Le manifestazioni sono proseguite, mentre il movimento veniva accusato di ricevere finanziamenti dall’estero (dall’Algeria), di separatismo e tradimento. D’altra parte, anche nel caso delle proteste del 2011, i manifestanti venivano tacciati di ateismo o omosessualità, considerate minacce interne per una nazione fondata sui pilastri della monarchia, dell’Islam come religione di stato e della continuità territoriale (inclusiva del conteso Sahara Occidentale).
Nella seconda metà di maggio, dopo il tentativo di una missione ministeriale di rassicurare la popolazione circa il piano di riforme per la regione, anche la ricerca di una negoziazione con gli attori associativi locali non ha ottenuto gli effetti sperati.
In seguito, la repressione delle forze di sicurezza ha tentato di frammentare il movimento disperdendo le manifestazioni che ogni sera, in pieno Ramadan, si riunivano a Piazza dei Martiri ad Al-Hoceima, e arrestando diversi esponenti di Hirak. Il 29 maggio è stato arrestato, con l’accusa di ‘attentato alla sicurezza nazionale’, Nasser Zafzafi, leader del movimento.
Il leader, la repressione, la risposta popolare, le marce femminili
39enne, titolare di un negozio di telefonia colpito dalla crisi, Nasser è descritto dal TelQuel come il nipote di Mohammad Zafzafi, compagno di lotte dell’eroe anti-imperialista AbdelKhrim Al Khattabi. Prima della morte di Fikri era attivo sul web, dove postava video contro lo ‘stato corrotto’. Fra i primi ad arringare la piazza dopo la morte di Fikri, da allora, in dharija o berbero tarifit, si è scagliato contro corruzione e autoritarismo, invocando i metodi pacifici del movimento e invitando tutti a ‘non tradire il Rif’.
In un’intervista rilasciata a Le Monde ad aprile, imputava alle autorità marocchine incompetenza e razzismo nei confronti dei rifani.
Molto carismatico e rispettato, giudicato da alcuni un populista troppo istintivo, Zafzafi sapeva di essere ricercato e qualcuno avrebbe provato – a suo dire – a comprarlo.
Secondo i media locali, all’origine dell’arresto c’è un episodio preciso: l’interruzione di Zafzafi di un sermone del venerdì in moschea, in cui pare che l’imam tacciasse il Movimento popolare di fitna, minaccia all’ordine: Zafzafi avrebbe accusato l’imam stesso di corruzione e invitato i fedeli ad unirsi alle proteste.
Oltre a Zafzafi, oggi nella prigione di Ouakhacha di Casablanca, sarebbero circa 200 i detenuti di Hirak secondo le stime. Il 2 giugno Reporters Sans Frontières ha chiesto che venisse garantita la libertà per tutti i giornalisti di coprire le vicende del Rif, dopo aver denunciato l’arresto di Houssein Al-Idrissi, fotografo di Rif Press, e di Fouad Assaidi, di AwarTV, e la scomparsa di Mohammad El-Asrihi, giornalista della testata web Rif24 e membro del nucleo centrale di Hirak, il cosiddetto Comitato Galaxi, dal nome del bar in cui Zafzafi si riuniva con lui, Mohammad Jelloul, già attivista del Movimento del 20 Febbraio, Mohammed Mejjaoui, professore sindacalista, Nabil Ahamjik, autore di molti slogan del movimento.
In questo clima, a Casablanca è nato il collettivo Hiraki news con l’obiettivo di tenere alta l’attenzione mediatica sul movimento. La pagina Facebook rilancia appelli a manifestare e aggiornamenti video. Manifestazioni in solidarietà e sostegno agli attivisti sono state organizzate a Rabat, Tangeri, Agadir, Casablanca dove è anche stato creato il ‘Comitato di supporto per i detenuti di Hirak’.
Non va sottovalutato il ruolo che anche le donne hanno assunto nel movimento.
Nawal Benaissa, giovane madre di 4 figli, leader dei cortei di Al-Hoceima, si è consegnata alle autorità il 1° giugno perché anche su di lei pendeva un mandato d’arresto. In un video diffuso sulla sua pagina Facebook, girato su una terrazza poco prima di recarsi in commissariato, ha ricordato le costanti del movimento: la protesta pacifica, la richiesta di liberazione dei detenuti di Hirak e lo sviluppo della regione.
In alcuni video apparsi su Youtube, attacca lo stato centrale in quanto ‘responsabile delle discriminazioni contro la popolazione del Rif’ e precisa che le donne di questa regione ‘subiscono la stessa marginalizzazione subita dagli uomini e al pari di questi sono responsabili della lotta per la dignità’. In un altro video più recente invitava la popolazione a partecipare alla Marcia del 20 luglio ‘per il diritto all’istruzione, alla salute, per i figli del Rif, per la libertà’.
Anche Salima Ziani, artista e cantante ventitreenne nota come Silya, si è distinta alla guida dei cortei di Al-Hoceima. Dal 5 giugno è l’unica detenuta donna dell’Hirak, nonché in isolamento in carcere a Casablanca.
Per la sua liberazione, come per quella degli altri, la mobilitazione è stata organizzata rapidamente. L’8 luglio la manifestazione ‘Donne marocchine per la liberazione dei detenuti politici di Hirak’ ha contato centinaia di persone davanti al parlamento a Rabat al grido di Kullunā Silya, kullunā al-Rif (‘siamo tutti Silya, siamo tutti il Rif’).
La manifestazione è stata interrotta dalle forze di polizia, che hanno usato ‘una violenza feroce e isterica contro donne, uomini e passanti’, secondo Khadija Riadi dell’Associazione marocchina per i diritti umani. Ciò nonostante, le donne hanno lanciato una campagna nazionale di proteste per la liberazione di Silya e di tutti i prigionieri politici di Hirak.
Queste manifestazioni seguono l’ondata di solidarietà nazionale e internazionale che l’11 giugno a Rabat ha visto migliaia di persone partecipare alla imponente Marcia della Dignità, che per l’impressionante numero di manifestanti ha ricordato a molti il febbraio 2011. Nella manifestazione del 20 luglio presente anche una carovana internazionale, con attivisti provenienti soprattutto dal nord Europa e dalle città della diaspora rifana.
In questo dialogo tra locale e globale, vanno inserite anche le dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa da Macron a seguito di una sua visita privata al Re di metà giugno.
Il Presidente francese ha fatto riferimento all’intenzione del sovrano di risolvere la situazione. Cosa singolare, considerato il silenzio di Mohammed VI, che ancora non si è pubblicamente pronunciato sul Rif. Questo episodio ha generato un dibattito acceso circa l’eredità coloniale e il singolare intervento di Macron nella politica interna marocchina, risvegliando un sentimento anti-coloniale in molti attivisti, mentre invece un gruppo di cittadini e intellettuali avevano inviato un appello proprio al Presidente francese per accelerare la risoluzione della crisi del Rif.
Continuità storiche e sviluppi possibili
Due aspetti sembrano nodali in queste proteste: la loro continuità storica, che emerge da un’analisi di longue durée dei movimenti sociali locali inscritti nella storia nazionale e regionale; e la difficoltà del regime marocchino nel gestire spinte dal basso e rivendicazioni di massa senza usare la repressione.
Quanto al primo aspetto, è possibile situare gli eventi degli ultimi mesi in un percorso storico che li collega alla resistenza anticoloniale di inizio Novecento, passando per le lotte del periodo post indipendenza, ottenuta nel 1956, sino alle cosiddette ‘primavere politiche’ del 2011.
Il Rif è terra d’origine di Abdel Kharim al-Khattabi, eroe della resistenza conto l’armata spagnola e francese (1921-1926), e leader della Repubblica del Rif. Nella regione sono stati effettuati i primi attacchi chimici sulla popolazione inerme. Allo stesso tempo il Rif è stato anche teatro della rivolta autonomista del 1958, repressa nel sangue dalla monarchia marocchina appena indipendente.
D’altra parte, il Movimento Popolare va collegato al movimento del 20 febbraio che nel 2011, sull’onda di quanto accadeva in Tunisia e in tutto il Medio Oriente, ha chiesto a gran voce riforme politiche ed economiche. Al grido di dignità, libertà e giustizia sociale, migliaia di persone sono scese in piazza per denunciare lo stato di umiliazione in cui versa gran parte della popolazione, contro la corruzione dilagante del sistema burocratico noto come Makzen [‘magazzino’, termine che indica l’elefantiaca macchina dell’apparato statale ndt].
Manifestazioni che hanno segnato un cambio di passo nella vita politica nazionale, in cui la popolazione ha dato un segnale netto contro la sperequazione di classe sempre più ampia e contro condizioni di vita indegne: disoccupazione, analfabetismo, un sistema di salute pubblica e di istruzione molto carenti per le fasce svantaggiate della popolazione, a fronte di una forbice della ricchezza sempre più ampia.
Uno spettro di forze sociali eterogeneo si era unito in piazza: dagli islamisti del movimento antimonarchico Al-ʻadl wa-l-iḥsān alle forze della sinistra, alle sezioni giovanili dei partiti, alle realtà Amazigh, femministe, ecologiste.
Anche le rivendicazioni erano molteplici: dai diritti di riconoscimento di stampo culturale, come quelli dell’ufficialità (poi inserita nella Costituzione del 2011) della lingua Amazigh accanto all’arabo, a quelli materialisti, come l’aumento dei posti di lavoro e dei salari.
Il regime, noto per la sua stabilità, in parte legata anche alla legittimità islamica del potere monarchico in virtù della discendenza diretta della dinastia alawita dal profeta Muhammad, ha reagito ben presto alle manifestazioni con un discorso alla nazione (9 marzo 2011) e una costituzione calata dall’alto sottoposta a referendum confermativo (1 luglio 2011). Oltre all’ufficialità della lingua berbera e all’uguaglianza formale tra uomini e donne, sembra che poco sia cambiato in termini di equilibrio tra i poteri dello stato, di cui il Re resta sempre ago centrale e arbitro nazionale.
Quanto al secondo aspetto, relativo alla difficoltà del regime nel garantire la stabilità del paese senza l’uso della repressione, il recente Arab Human Development Report del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP, 2016) collegava l’alta probabilità di una nuova ondata di proteste nella regione MENA all’incapacità dei regimi di incorporare le rivendicazioni popolari in politiche economiche strutturali, rivolte soprattutto alle fasce giovanili più marginalizzate.
Gli slogan scanditi nel Rif come ‘Dio, Patria, Popolo’, anziché la classica divisa nazionale ‘Dio, patria, Re’, oppure ‘Viva il popolo, Viva il Rif’ e non ‘Viva il Re’, raccontano di un ampio scollamento fra la popolazione e le istituzioni centrali, che i corpi intermedi e soprattutto i partiti politici evidentemente non riescono a colmare. Paiono dunque necessarie riforme economiche, soprattutto in materia di occupazione e sviluppo, capaci di restituire fiducia ai cittadini attraverso un nuovo contratto sociale ed economico.
Secondo l’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), la tensione ad Al-Hoceima resta molto alta: durante il Ramadan i militanti venivano ricercati in una caccia all’uomo costante. Amnesty International ha denunciato l’utilizzo della tortura negli interrogatori e accusa le autorità di usare gli arresti di massa come misure punitive dopo mesi di dissenso pacifico.
Nonostante la repressione e l’interruzione delle manifestazioni in Piazza dei Martiri ad Al-Hoceima, le manifestazioni sono continuate in modo pacifico secondo schemi di cortei diversi, di volta in volta organizzati in modo differente per evitare la repressione della polizia. Durante le sere di Ramadan, ad esempio, i manifestanti fuggivano dalla polizia nascondendosi in strade periferiche, o aggiravano i blocchi passando da sentieri montuosi.
Il primo luglio Hirak ha manifestato in spiaggia ad Al-Hoceima e la polizia si è prestata ad un singolare e insolito corpo a corpo (semi-nudo) con i manifestanti. Nel frattempo sui social media è continuo il flusso di informazioni, aggiornamenti sulla situazione in città, di nuovi appelli per la liberazione dei detenuti.
Simili forme di resistenza, diversificate sul piano strategico e operativo, insieme alla chiarezza delle rivendicazioni e all’inclusività nella partecipazione, hanno portato The Economist a definire Hirak un movimento ‘creativo e persistente’.
Vanno anche sottolineati altri aspetti che lo rendono un movimento in apparente fase di rafforzamento. La capacità di convertire in opportunità la conoscenza e l’attaccamento al territorio, fino a ‘coincidere con il Rif’, come ha notato il ricercatore marocchino Montassir Sakhi; e la capacità di creare rapidamente reti solidali per la liberazione dei detenuti nel paese e all’estero, anche grazie alla visibilità su internet e sui social network, ma anche attraverso network reali, sia locali che diasporici.
Questo ha facilitato l’aumento di un capitale simbolico da tempo sopito, in quanto le lotte del Rif non rappresentano soltanto un esempio di rivendicazioni socioeconomiche e per il riconoscimento culturale, nutrito da elementi identitari connotati di memoria storica, ma anche un bacino di approvvigionamento simbolico emancipatorio oltre i confini della regione.
Pratiche di lotta che insieme ad un rinnovato immaginario di r/esistenza sembrano aver risvegliato le speranze di cambiamento del 2011.
LA FOTO E’ RIPRESA DA www.qcodemag.it
alcuni amici arabi- marocchini immigrati a Bologna nel ringraziare la bottega per l’attenzione che ha sempre dimostrato e dimostra nei confronti della situazione complessiva in Marocco
mi hanno fatto notale una contraddizione nel titolo che poi è in contrasto con quanto riportato di seguito sia nell’articolo che nell’introduzione, arrivata come testimonianza diretta dal Marocco
In pratica dal titolo sembrerebbe una rivolta etnica berbera mentre il movimento-rivoltoso è organizzato e diretto dal R.I.F. ben altra cosa di una semplice etnia . Sostengono che attribuire la contraddizione etnica ai diversi conflitti che esplodono . rischia di offuscare L’ANIMA DELLA RIVOLTA CHE E’ DI CLASSE- e poi come mai il ministro degli interni che è berbero , si presterebbe alla repressione dei berberi mentre il RE arabo discendente diretto da Allah manterrebbe il ruolo di pacificatore neutro ?
I
o semplicemente sto riportando alcune osservazioni non mie che però mi convincono , penso però che potremmo- dovremmo fare pìù chiarezza e conoscere più dettagliatamente gli avvenimenti e la storia
tra l’altro queste notizie di lotta, come l’approvazione da parte del governo tunisino della legge contro la violenza sessuale alle donne
arrivano come una ventata di speranza nel nostro paese che langue e coltiva atteggiamenti sempre più nikilisti e
“ODIA RENZI COME ELABORAZIONE DEL LUTTO PER LA PERDITA DELLA SINISTRA”
SARA’
bell’approfondimento, grazie!
però, se posso permettermi, il titolo “la rivolta dei berberi!” contrasta – mi sembra – con il contenuto che, sia nella testimonianza introduttiva, sia nell’articolo, molto approfondito, si focalizza su aspetti “nazionali”, “popolari”, “socio-economico-politici” che travalicano di molto gli aspetti più specificamente “etnici” (la pretesa centralità della contraddizione berberi vs arabi). C’è una forte specificità della dimensione “locale” (cioè riffana, non genericamente berbera, perché berberi sono anche nel centro e nel sud, praticamente in tutte le aree rurali, ma il Rif, è chiarito bene nell’articolo, custodisce una particolarissima memoria di lotta) ed anche la dimensione nazionale come orizzonte geografico e quella popolare come orizzonte di classe sono preponderanti rispetto alla dimensione etnica, mi pare.
Da notare addirittura, come giustamente sottolinea l’articolo, che il ministro degli interni che ha ordinato le repressioni è berbero – guarda un po’! (quindi è una “rivolta berbera” che si fronteggia con una “repressione berbera”? e dunque il re – arabo e discendente del profeta – giocherebbe il ruolo dell’arbitro pacificatore?)
Insomma, stiamoci attenti con l’abitudine quasi automatica di scivolare sulla lettura etnica di ogni conflitto: di solito, zoommando sull’immagine i contorni si sgranano in una miriade di contraddizioni che poi vengono volta a volta raggruppate a seconda degli interessi in gioco
Sono d’accordo che il titolo è fuorviante. Non l’avrei messo un titolo del genere. MA non perchè la questione Amazigh non centra niente. La questione del Rif ha sempre avuto molte dimensioni e quella della reppressione della lingua e cultura berbera ne ha sempre fatto parte. Anche se buona parte della sinistra maghrebina, storicamente panarabista, ha sempre fatto finta di non vedere le violazioni di stampo nazionalista arabo. E il fatto che il ministro in carico della reppressione per conto del re (anche se giocano al poliziotto buono e poliziotto cattivo pubblicamente) sia berbero, o che buona parte degli sbirri che picchiano come matti lo siano anche loro non toglie questo carattere ad ogni rivolta del Rif. Anche perchè altrimenti come spiegare il numero di bandiere ammazigh presenti in piazza?
Detto questo è vero che la questione culturale, linguistica, non è centrale. Fa parte ma non è la prima cosa. La maggior parte delle rivendicazioni sono di tipo sociale e politico che sono comune a tutto il paese anche se vissute con più durezza in una regione colpita da politiche di isolamento da più di mezzo secolo.