La scuola (borghese) lontana dalla terra
di Daniela Pia
Non erano certo figli dei salotti borghesi quei ragazzi di Vicchio che frequentarono la scuola di Barbiana, negli anni ’60, in quella piccola frazione dove operò don Lorenzo Milani, scomodo intellettuale, sensibile ai problemi dell’educazione, che nella sua «Lettera ai giudici» – testo scritto per difendersi dalle accuse di “Apologia di reato” per aver difeso l’obiezionr di coscienza contro la guerra – ci ha lasciato la testimonianza di un uomo deciso a sostenere con forza i temi della coscienza e dell’obbedienza, della giustizia e della solidarietà, dunque di una scuola in grado di permettere a tutti di diventare sovrani di se stessi.
Un insegnante, don Milani, capace di spendersi per l’elevazione culturale dei ceti meno abbienti, insegnando ai figli dei contadini del Mugello che il riscatto sociale passava soprattutto attraverso l’istruzione. Alla sua scuola i ragazzi si fecero cittadini veri, uomini capaci di andare in fondo alle cose e ragionare con la loro testa.
Eppure parrebbe che il tempo sia trascorso invano se, ancora oggi, vi è chi, nella scuola, in ruoli apicali, spinge il bottone “dell’orgoglio sociale” solleticando in studenti/esse l’appartenenza alla borghesia più o meno alta, per distinguersi dalla massa che suda sulla terra, in pianura collina o montagna.
Ne conseguirebbe dunque che la città stessa sia luogo di distinzione sociale, dove il pane sarebbe prodotto al supermercato, come le galline e le uova.
Questo il fatto.
Al liceo Seguenza di Messina, in occasione dell’assemblea d’istituto, la dirigente scolastica, Lidia Leonardi, per giustificare il «contributo volontario» delle famiglie, per le attività didattiche del suo Istituto, ha così concionato: «Si tratta solo di 50 euro, il costo di un caffè a settimana, non credo che le vostre famiglie non possano permettersi un caffè al giorno». E poi la frase incriminata: «Questo è un liceo di alto prestigio, non è come le scuole di montagna, non siete figli di contadini». Unanime il coro di protesta degli studenti/esse al quale si è aggiunta la voce del sindaco di Messina: «Io stesso sono figlio di contadini – dice Cateno De Luca – e ho frequentato scuole di montagna, non me ne devo vergognare. Queste affermazioni sono molto gravi, io non chiedo le dimissioni della preside ma le sue scuse sì».
Arriveranno queste scuse: tardive, arraffazzonate. Ma verranno come accade ogni volta che chi la spara grossa viene messo con le spalle al muro. Voglio credere che il classismo di cui era ammantato il discorso della preside Leonardi sia un caso isolato, più unico che raro. Voglio crederlo fortissimamente, temo però che non sia così: lo avverto nelle differenze sempre più marcate esistenti fra le diverse tipologie di Istituti superiori, diseguaglianze che la scuola della Repubblica dovrebbe saper cancellare.
Non sono solo gli studenti/esse a dover ripassare l’articolo 34 della Costituzione: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».
Alla dottoressa Leonardi, dirigente del liceo di Messina, un ripassino non guasterebbe.