La scuola è sempre più un organismo geneticamente modificato

articoli di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Antonio Vigilante, Tomaso Montanari, Raffaele Mantegazza, Maurizio Disoteo, Giovanna Lo Presti, Francesco Codello, Francesco Masala, Gianluca Gabrielli, Lucio Russo, Marco Ambra, Claudio Tosi (vignetta di Mauro Biani)

 

Lettera al Ministro Patrizio Bianchi – Francesco Masala

 

Signor Ministro, l’ho vista e sentita in tv, da Fabio Fazio, con un po’ di ritardo, l’avevo ascoltata (e letto) nel passato come economista, ma come ministro è la prima volta che sento la sua voce.

Ha trattato tanti aspetti della scuola, alcuni condivisibili, altri molto meno.

Mi soffermo sui secondi, per brevità.

Il tono complessivo è sembrato abbastanza retorico e lontano dalla realtà, lo stesso tono si percepisce spesso nelle circolari ministeriali che parlano di aspetti didattici, si capisce che chi parla, e scrive, non è mai entrato in un’aula di scuola pubblica per insegnare, e l’unica esperienza è quella personale, da studente, in gioventù, o da genitore dei figli studenti.

Allora di cosa ha parlato, signor Ministro? Del sentito dire, o in quanto colonnello o esecutore di una strategia che alcuni hanno già deciso, a tavolino (del suo libro Nello specchio della scuola ne parlano approfonditamente Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, nel sito Roars). La strategia è quella che va avanti da molti anni, sotto il titolo-slogan, ogni volta, di riforma (quello che non si capisce è perché ogni variazione delle leggi scolastiche la chiamano “riforma”, anzi si capisce bene, riforma ha alle orecchie degli ascoltatori un’accezione positiva, anche quando è peggiorativa della situazione preesistente).

Mi è sembrato inopportuno l’elogio della DAD, come se, anziché essere un temporaneo cerotto, fosse diventata ormai un nuovo organo del corpo scolastico.

Quando parla della responsabilità acquisita dagli studenti nell’uso degli strumenti informatici, vorrei invitarla a vedere come si svolgono le lezioni online, pochi si fanno vedere, e mettono la faccia solo con ripetuti inviti e minacce. E quando si riesce a vederli, gli studenti, si vedono le loro facce chine, (ir)responsabili, multitasking, guardano i loro smartphone, invincibili armi di distrazione di massa. In classe si riesce a limitarne l’uso, online è impossibile.

E che dire sull’esame, si chiamava esame di maturità, poi è diventato Esame di Stato, adesso, a differenza dei documenti ufficiali che lo chiamano Esame di Stato, lei lo chiama di maturità, che confusione…

L’unico esempio che fa dell’esame è l’esempio della danza nel liceo della danza, è un caso che può interessare lo 0,01% delle studentesse e studenti, un esempio statisticamente davvero poco significativo.

Lei dice che scrutini ed esami devono essere una valutazione di ciò che ciascuno ha raggiunto, ma anche di ciò che non ha raggiunto. La traduzione è che, dopo il disastro dell’anno scorso, di aver promosso tutti alla classe successiva (anche chi non frequentava da mesi o aveva la media del 2-3), saranno di nuovo tutti promossi? Se così non fosse non ci sarebbe stato bisogno di dire quello che ha detto, è quello che si fa normalmente. Forse non sa cosa è successo in numerose classi quest’anno, semplicemente la maggior parte di coloro i quali hanno ricevuto la promozione come regalo o come elemosina hanno fatto poco o niente, aspettandosi il bis, che ancora non si capisce se e come ci sarà.

Il denigrare le buste dei temi, che non hanno mai fatto morire nessuno, ma hanno permesso agli studenti bravi di dimostrare di esserlo, e a quelli meno bravi di scegliere un compito refugium peccatorum, che non è mai mancato fra le opzioni, non è una bella cosa, anche lei aveva avuto un tema all’esame, e poi è diventato professore e anche Ministro, che colpa ha avuto un tema non è dato sapere.

 

E visto che non ho mai avuto occasione di scrivere a un Ministro mi scuserà se ne approfitto per segnalarle (solo) alcuni punti critici della scuola, se non li conosce.

 

Come era prevedibile l’attività didattica del corrente anno scolastico è compromessa dalla scelta del precedente ministro (in quella scelta) della (d)istruzione, quella di promuovere tutti gli studenti a prescindere.

Il “mitico” recupero, tutti si sciacquano la bocca col recupero. In astratto è una bella cosa, sa cos’è nel concreto della vita scolastica? Molti alunni lo traducono così: non fare oggi quello che si può fare domani, tanto ormai si recupera fino allo sfinimento (dell’insegnante, intendo, che deve scusarsi se uno studente non recupera).

Dopo la sciagurata decisione di eliminare ore di lezione in cambio dell’alternanza scuola-lavoro, che nella stragrande maggioranza dei casi non era né scuola né lavoro (visto che non funzionava hanno fatto una riforma, cioè hanno cambiato il nome, per non cambiare nulla), dopo l’introduzione di una nuova materia, l’educazione civica, senza nuovi docenti, ma tagliando le ore delle materie coinvolte, visto che sempre di più la scuola è recupero del recupero del recupero, quello che succede a scuola è che rispetto a 10-15 anni fa agli studenti si insegnano sempre meno conoscenze e contenuti (mi scusi per queste parole ormai desuete), e sempre meno approfonditi, per cui le mitiche competenze, faro della scuola d’oggi, di costruiscono su basi meno estese e meno profonde. Potrei dire, se non rischiassi il licenziamento, che prima le competenze degli studenti erano più solide, solo che non avevano quel nome-totem d’adesso.

 

Non pensi che si sia contro il recupero, signor ministro, solo che non siamo all’ospedale, lì tutti hanno un problema, e bisogna recuperarli, ma a scuola non ci sono solo studenti da recuperare, ce ne sono tanti altri, sempre meno, purtroppo, che non devono recuperare, e che si sentono trascurati.

Ho sempre insegnato agli alunni che l’anno scolastico è come un campionato, ci sono tante partite, qualcuna si può perdere, ma l’importante è il risultato finale. L’ossessione del recupero sta pervadendo, da un po’ di anni, la scuola, e facendo indicibili danni, come se una squadra che perde una partita dovesse rigiocare la stessa partita fino a quando non vince, nella realtà il recupero della squadra si vede nelle partite successive.

Dico sempre ai miei alunni, “a fine anno avrete quello che meritate”, per alcuni suona come una promessa, per altri come una minaccia. Insisto spesso sulla responsabilità, sul sacrificio, come scrive Gramsci, “occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”

Purtroppo merito, sacrificio, responsabilità personale sono concetti che non sento mai citare dai ministri (per gli alunni mai, per gli insegnanti sempre, che cosa strana).

Eppure credo che sia necessario responsabilizzare gli studenti (parlo solo delle scuole superiori, naturalmente, solo in quelle ho insegnato), perché il continuo trattare gli studenti come “poverini” e il promuoverli tutti sia stato diseducativo, per tutti (assistenzialismo pedagogico?).

Un altro problema enorme è l’uso dei telefonini a scuola. Ormai ciascuno smartphone ha una potenza di calcolo, di elaborazione (e di distrazione) pari ai computer che hanno permesso di mandare l’uomo sulla Luna.

Perché non pensare alla scuola come un territorio neutro, non connesso, per quelle 5 ore di lezione quotidiane, gli studenti potrebbero concentrarsi di più senza le distrazioni di quello strumento. (se ne parla qui)

Non chiedo di tornare a 50 anni fa (che per gli studenti è come la preistoria), nelle scuole esistono le aule computer, nelle quali ci si può connettere al mondo, se e quando la disciplina lo richiede.

E sa che esistono sempre più le classi digitali, nelle quali non si toccheranno libri di carta? È un passo avanti per la scuola? È amore per gli alberi o disprezzo per la “vecchia” cultura, quella del libro cartaceo?

(Umberto Eco scriveva su “Libro cartaceo o ebook?”, qui).

Concludo con una invenzione del Ministero, la lezione asincrona. Dalla didattica in presenza si è passati alla didattica a distanza, e addirittura alla didattica in assenza, il docente parla per una decina di minuti da solo, poi carica il monologo sulla piattaforma informatica che usa il suo istituto, un monologo senza spettatori, e poi qualcuno, forse, a casa, vedrà o ascolterà. Tutto questo per risparmiare agli studenti il peso di fare 5 ore al computer, che pure non sono ore complete, sono tre quarti d’ora di lezione, con un quarto d’ora di riposo.

Ribadisco che parlo degli studenti delle scuole superiori, i quali, nella maggior parte, hanno il telefono cellulare in mano, o a portata di mano, per 25 ore al giorno.

 

Leggo oggi (qui) che da quest’anno ci sarà il curriculum dello studente, un documento nel quale sarà scritto tutto quello che lo studente ha fatto. Ci sarà scritto che per il PCTO ha fatto il modulo della Coca Cola (qui un po’ di danni della Coca Cola sull’organismo umano)? Ci sarà scritto che, non solo in tempi di pandemia, una parte importante del tempo sottratto alle lezioni è stato destinato a corsi on line, automatizzati, testi sul computer, senza interventi umani, sulla base dei quali riempire crocette? Che passi avanti per l’umanità!

Questo curriculum è un passo (conclusivo? chissà, al peggio non c’è mai limite) di un percorso economicistico che si conclude col vendersi e sapersi vendere, dopo i crediti e i debiti siamo alla vendita (corsi offerti spesso da aziende private che li offrono gratis, aziende che lavorano per il profitto insegnano gratis agli studenti come vendere e vendersi, qui un esempio, sia pur limitato).

 

E dire che un tempo le imprese assumevano i/le ragazzi/i con una formazione di base solida e poi li formavano all’interno. Adesso le imprese vogliono persone già formate, ci raccontano, con una preparazione di base inferiore a quella di 20 anni fa, per entrare subito nel mondo del lavoro, con contratti temporanei, ed essere sostituiti da carne fresca dopo qualche anno. E allo stesso tempo molte imprese ricercano per ruoli non secondari candidati con la laurea in filosofia. Che contraddizione, signor Ministro, la filosofia e le materie umanistiche sono importanti, ma non per la carne da lavoro, che svolge lavori sottopagati e non specializzati.

 

Purtroppo Umberto Eco è morto (ma non le sue idee), e la Confindustria detta le regole del gioco, anche a scuola.

 

Signor Ministro, da che parte sta?

 

 

 

 

La scuola del futuro del Ministro Patrizio Bianchi – Giovanni Carosotti, Rossella Latempa

 

Nel governo Draghi, l’economista Patrizio Bianchi è stato scelto come nuovo ministro dell’Istruzione in qualità di “tecnico”. Anche nel suo caso, il senso di tale espressione appare quanto mai discutibile, quasi una copertura per imporre una politica in qualche modo obbligata, motivata da uno stato d’eccezione. Nel primo di tre contributi dedicati all’idea di scuola che il neoministro ha più volte descritto – in un suo recente libro, nei documenti istituzionali, in numerose interviste – ci dedichiamo in particolare alle elaborazioni della task force da lui presieduta e attiva nella primavera dello scorso anno, in piena emergenza pandemica. Il primo degli obiettivi di tale gruppo di lavoro riguardava l’avvio del successivo anno scolastico, per permettere il rientro degli alunni nelle scuole in piena sicurezza. Ma tale obiettivo era in realtà subordinato a un’altra serie di scopi, di carattere evidentemente politico, finalizzati a trasformare la scuola secondo direzioni in piena continuità con i paradigmi della ormai sua più che decennale riforma permanente; e in particolare con la Legge 107, la Buona Scuola. La maggior parte degli strumenti previsti dal lavoro dei “tecnici” sulla scuola -sulla cui efficacia, fin dall’autunno scorso, ciascuno potrà avanzare un giudizio personale – non aveva alcun legame con la drammatica situazione sanitaria vissuta dal paese. Gli obiettivi erano altri, e riguardano il futuro dell’istruzione.

 

La nomina di Patrizio Bianchi a ministro dell’Istruzione del governo Draghi non ha destato molta sorpresa. Il professor Bianchi, infatti, ordinario di Economia e Politica Industriale, era già noto per aver presieduto i lavori della Commissione di esperti nominati dall’ex Ministra Azzolina nella primavera scorsa, per “avanzare idee e proposte inerenti alle modalità di riapertura delle scuole, dopo la sospensione determinata dal coronavirus[1]. Tali proposte sono state rese pubbliche attraverso un’audizione presso Camera e Senato, mentre i due  rapporti, quello intermedio (maggio 2020) e quello finale (Luglio 2020)[2], non sono stati mai pubblicati.

Soltanto nel febbraio 2021 il ministero ha diffuso quei documenti, dopo il cambio di vertice a viale Trastevere.

Sul perché di tale scelta non ci sono risposte o dichiarazioni ufficiali. È possibile soltanto avanzare delle ipotesi, di carattere politico, che discendono evidentemente dal contenuto di quei testi, scritti da una commissione di “tecnici”, per fronteggiare il momento più buio e complesso che la scuola si è trovata ad affrontare nella nostra storia del dopoguerra.

Non a caso, tra i membri del nuovo Governo Draghi, il professor Bianchi figura tra i ministri “tecnici”. Ciò offre un ottimo spunto per riflettere sul contenuto – che riteniamo ideologico – proprio dell’espressione “tecnico”, da tempo ormai in uso nel contesto italiano, impiegata più per imporre una politica in qualche modo obbligata, motivata da un reale o presunto stato d’eccezione, che per la specificità delle competenze dell’incarico.

Il ministro Patrizio Bianchi, in effetti, si è occupato di istruzione per la regione Emilia-Romagna, oltre a   guidare la task force su menzionata, dall’aprile al luglio 2020. Recentemente ha inoltre pubblicato un libro sulla scuola (Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola, Il Mulino, Bologna 2020), che prende le mosse da quell’esperienza per delineare la sua visione di scuola e di società. Sempre a proposito di istruzione, è stato spesso intervistato ed ospitato in trasmissioni radio televisive, anche nel periodo in cui non si immaginava che avrebbe guidato il MIUR.

Per quanto riguarda le convinzioni del neo Ministro, è difficile avere dubbi. Egli ha sempre sostenuto l’unico paradigma che deve presiedere alla riforma della scuola: quello dell’autonomia, nella sua versione più radicale. Un paradigma, in atto da circa 30 anni, che rappresenta il cuore delle riforme scolastiche da Berlinguer a Renzi.  Già solo in questo senso, definire “tecnico” la figura di Patrizio Bianchi appare riduttivo.

Esiste, infatti, una profonda continuità tra la visione politica del neo Ministro e quella che ha sorretto gli interventi riformatori in campo di istruzione sino ad oggi. Con un’espressione da noi già utilizzata, potremmo parlare di “cultura della Buona Scuola”: un’idea di scuola, più o meno sfumata e realizzata in maniera più o meno estrema, che mette d’accordo tutti e il cui profilo era stato già ribadito due anni fa dal cosiddetto “Intergruppo per la sussidiarietà” , presente al Meeting di Rimini del 2019. Col termine “cultura della Buona Scuola”, ci sembra di poter ragionevolmente indicare, quindi, una linea di riforma di lungo corso, in cui inscrivere anche quella attuale. Linea che al di là dei diversi contesti storico-politici e dei diversi approcci: diretti e spregiudicati –  nel caso del governo Renzi – o connotati da attributi e coloriture di carattere sociale (la “solidarietà”, lo spirito di “comunità”, il “bene comune”, etc)  –  nel caso del Ministro Bianchi –  trova una continuità sostanziale nelle sue proposte operative, ovvero in ciò che concerne la riorganizzazione didattica,  la gestione delle risorse umane e il riordino dei  profili contrattuali dei lavoratori, la relazione scuola-società. Ancora di più: la sussidiarietà e l’autonomia, diventano, a ben vedere, le leve attraverso cui rimodellare i rapporti istituzionali, delineare “una nuova forma dello Stato”, come scriveva Stefano Versari, ex direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia Romagna, ora neo Capo Dipartimento per il sistema educativo, su proposta del Ministro Bianchi. In questa prospettiva è necessaria una nuova “gestione sociale” dell’istruzione[3].

In quest’analisi sulla scuola del futuro immaginata dal ministro Patrizio Bianchi, che divideremo in 3 parti, proveremo ad argomentare la tesi della sostanziale continuità del suo progetto di scuola con quelli precedenti attraverso l’analisi dei documenti ad oggi disponibili.

Nella prima parte, che segue, rileggeremo il contributo offerto dalla Commissione di esperti presieduta da Bianchi per la ripresa delle attività scolastiche, valutandone l’efficacia anche alla luce dell’attuale situazione.

Nella seconda ci soffermeremo sul progetto di scuola che emerge dal Rapporto Finale e dal libro appena pubblicato dal Ministro.

Infine, nell’ultima parte, sottoporremo a critica il binomio autonomia-valutazione.

 

PRIMA PARTE

 

 L’efficienza della Task Force sulla scuola e il ruolo dei “tecnici”

La commissione presieduta dall’attuale Ministro Bianchi è stata nominata nell’aprile 2020 [4], «con il compito di presentare proposte per la scuola con riferimento all’emergenza sanitaria in atto e al miglioramento del sistema di istruzione nazionale».

In un momento come quello attuale, di forte angoscia per l’intera comunità scolastica, divisa tra il desiderio di un ritorno alla presenza fisica in classe e la necessità di adeguarsi a un comportamento prudente cui richiamano le autorità sanitarie, riflettere sulle finalità di quel gruppo di lavoro ci sembra tutt’altro che ozioso. Anche perché, oggi, a 8 mesi di distanza dalla data di consegna di quel rapporto del 13 Luglio scorso, reso pubblico solo nel febbraio di quest’anno, è possibile, anzi doveroso, come cittadini e lavoratori della scuola, avanzare una valutazione del lavoro e delle indicazioni che quella commissione ha prodotto, alla luce delle condizioni attuali. A nostro parere questo bilancio appare quanto meno problematico, e tuttavia quelle indicazioni, oggi,  vengono sostanzialmente erette a sistema per la creazione di una nuova scuola.

Partiamo dall’osservare, innanzitutto, che il mandato ministeriale  prevedeva un’ampia rosa di tematiche su cui formulare proposte[5]

 

 

 

[1] Così nel Rapporto Finale 13 Luglio 2020 del Comitato di Esperti, https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/RAPPORTO+FINALE+13+LUGLIO+2020.pdf/c8c85269-3d1f-9599-141c-298aa0e38338?version=1.0&t=1613234480541, pag. 2.

[2] Entrambi i rapporti sono contenuti in un unico documento: quello citato nella nota precedente. Il Rapporto Intermedio si riferisce alle azioni per la ripartenza della Scuola; il Rapporto Finale, invece, ad elaborazioni di più ampio respiro.

[3] Una significativa lettura, in tale senso, è racchiusa nel libro di A. Poggi, edito dalla Compagnia di San Paolo per la Scuola, nel 2019: “Per un diverso Stato sociale: la parabola del diritto all’istruzione nel nostro paese”. A pag. 29: “La crisi che oggi attanaglia lo Stato sociale, più che economica, è dunque di ri-definizione dello stesso, in un contesto completamente diverso rispetto a quello che, storicamente, gli diede origine, e cioè il contesto delle lotte per il lavoro e per la previdenza sociale.”

[4] Con Decreto Ministeriale 21 Aprile 2020, n. 203.

[5] Le affermazioni che seguiranno hanno come riferimento un estratto dell’Audizione del Prof. Patrizio Bianchi presso la VII Commissione Camera dei deputati, 9 Giugno 2020.

continua qui

 

 

La scuola delle comunità e dell’uguaglianza del Ministro Bianchi – Giovanni Carosotti, Rossella Latempa

 

Dopo avere esaminato i lavori della task force presieduta la primavera scorsa da Patrizio Bianchi, in questo secondo contributo affrontiamo direttamente il tema della scuola del futuro, come viene descritta dal neo ministro e dal gruppo di lavoro che egli ha diretto. L’impressione che se ne ricava è che, al di là di una retorica tutta improntata alla novità e alla radicale trasformazione, ciò che viene proposto è assolutamente in linea con i principi fondativi della Buona Scuola, nei confronti della quale il nuovo esecutivo sembra voler agire in assoluta continuità. Essenzializzazione dei curriculi, centralità del sapere matematico-scientifico, funzionale allo sviluppo di una forma mentis imprenditoriale e progettuale, oltre che fondamento delle competenze digitali; uso estemporaneo e funzionalistico del sapere umanistico;  destrutturazione dei gruppi classe, del tempo e dello spazio- scuola; annullamento dell’autonomia intellettuale della funzione docente; ridefinizione della governance scolastica, con preminenza dell’azione dirigenziale; delega diffusa della responsabilità decisionale delle fasi decisive del progetto didattico alle esigenze di soggetti economici esterni. Questo disegno viene però presentato come proprio di un’idea di comunità inclusiva e solidale, capace di risolvere quella diseguaglianza di opportunità che affligge la scuola italiana. Si ridefinisce quindi la categoria stessa di uguaglianza, che coinciderebbe col rendere universale il modello antropologico dell’(auto)imprenditorialità e della resilienza. La vera funzione “sociale” della scuola – e il dovere deontologico dei suoi insegnanti – consiste nel formare soggettività capaci di conformarsi intellettualmente e materialmente alle “comunità” di riferimento.

 

Nel primo dei tre contributi dedicati ad una lettura critica dei documenti prodotti dal neoministro Bianchi, ci siamo soffermati sul ruolo della task force da lui guidata tra la primavera e l’estate 2020, valutandone sia i risultati, sia la funzione di “laboratorio” in vista dell’azione riformatrice da intraprendere.

Come già osservato, la valutazione sul lavoro di quella task force non può condurre a un giudizio positivo, soprattutto in relazione al fine prioritario e di maggiore urgenza per cui quel gruppo di lavoro era stato costituito: porre le basi per una riapertura delle scuole in presenza dopo la prima fase di emergenza pandemica.

Dietro quella apparente inefficienza, tuttavia –peraltro oggi negata, con un sapiente lavoro di sostegno da parte della stampa mainstream – in realtà, c’è altro, ovvero un’articolata opera di elaborazione e progettazione della visione di scuola che ci attende e degli strumenti per la sua implementazione.

Con questo secondo contributo, dunque, vorremmo entrare nel vivo di quell’idea di scuola, così come ci viene presentata nell’ampia documentazione ad oggi disponibile: il libro Nello specchio della scuola, pubblicato nell’ottobre 2020 a nome del Ministro presso Il Mulino; e il Rapporto Finale, curato dai componenti dell’intera Commissione presieduta da Bianchi, datato al luglio scorso, ma inspiegabilmente reso noto solo nel febbraio successivo.  È in particolare a queste due fonti che noi ci riferiremo[1], nonostante in questi mesi si siano rese disponibili diverse dichiarazioni sia del ministro – che ha concesso un numero elevato di interviste[2] – che di alcuni componenti della task force. Ricordiamo lo slancio dell’immagine di “scuola ibrida” , di Giulio Ceppi, o l’enfasi futurista di Cristina Pozzi, entrambi membri della gruppo di lavoro presieduto da Bianchi, quando descrivevano, nella primavera scorsa, il “cantiere” di idee in corso di elaborazione.

A partire da questa documentazione, pensiamo sia possibile avanzare un giudizio su ciò che ci attende.

 

Una retorica della novità e dell’innovazione, la realtà della continuità e della ripetizione

 

Dichiariamo fin da subito l’esito della nostra analisi: la scuola prospettata dal nuovo Ministro non ci consegna nulla di nuovo.  La scuola del futuro, dell’era post Covid, nasce già vecchia: nelle intenzioni, nelle finalità, nei valori fondativi, nel modello di governance e di organizzazione, nell’idea di ristrutturazione ordinamentale.

Ma forse è proprio la riedizione convinta, radicale e decisiva della medesima sostanza presentata all’ombra di una narrazione ispirata ai principi di coesione efficiente, di integrazione virtuosa pubblico-privato, di democrazia sussidiaria, in fondo “tipicamente emiliani”, a rendere quel modello, nella congiuntura storica, sociale e sindacale di oggi, una novità potenzialmente dirompente.

Quali sono i tratti principali della visione di scuola del nuovo Ministro?

A sentire le dichiarazioni ufficiali di Patrizio Bianchi,  presentate anche da giornalisti  poco avvezzi ai problemi reali dell’istruzione e poco inclini a proporre domande capaci di avviare un contraddittorio, sembrerebbe siano in cantiere delle assolute novità, che spingeranno finalmente la scuola italiana verso quelle prospettive di cui avrebbe drammaticamente bisogno. In realtà, se si valuta la sostanza di questa visione e la concretezza delle azioni e delle proposte,  si comprende che essa non introduce alcunché di originale rispetto a tutte le principali convinzioni che il progetto riformatore porta avanti da più di due decenni.

Schematizziamo alcuni punti di intervento:

1) Essenzializzazione dei curricoli con forte riduzione, sino al suo totale snaturamento, del sapere disciplinare e teoretico e dei suoi contenuti formativi, che si configurerebbe quale necessità educativa dovuta all’avvento della “quarta Rivoluzione industriale”. Leggiamo, ad esempio, in uno dei tanti passaggi sul tema, che non bisogna:

disperdere le occasioni fornite dalla pandemia [..] andare all’essenziale delle competenze, trasformare ogni persona nel primo ingegnere di se stessa”.

Esemplare, in tal senso, il riferimento all’idea di educazione che meglio risponderebbe ai mutamenti e alle esigenze del XXI secolo: “situata nel tempo e nello spazio, locale e globale, generale e specializzata, connessa e radicata nella comunità di riferimento”. Un’educazione trasversale e multidimensionale, denominata: C.A.M.PU.S, ovvero Computing, Arte, Musica, vita PUbblica, Sport e descritta come un insieme di:

conoscenze, carattere, abilità, autoriflessione…permette di allenare la resilienza, il coraggio, l’empatia, l’etica e la leadership; contribuisce ad insegnare ai giovani a osservare, riflettere, comprendere, decidere, immaginare, analizzare, ragionare, criticare, costruire, collaborare, mettersi in gioco, agire, apprezzare il bello; alimenta l’autoefficacia, l’autoprotezione e l’autorealizzazione, la speranza.”

 

2) assoluta centralità delle competenze matematico-scientifiche, ma in un’ottica ed entro un paradigma ben precisi. Da un lato, orientamento al problem solving e alla costruzione di pensiero algoritmico, strettamente connesso alla logica intrinseca della tecnologia digitale (Il digitale senza se e senza ma, è uno dei titoli delle sezioni del Rapporto finale), definita “booster dell’apprendimento, mezzo di uso quotidiano naturalmente integrato alla didattica attiva, così da divenire “trasparente”. Dall’altro, competenze matematiche come fondamento di quella forma mentis indirizzata allo spirito di iniziativa e alla produttività, da esercitare anche nei nuovi laboratori STEM o STEAM (Scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, con la “A” di arte)  da costruire  in ogni scuola, come recentemente auspicato dai vertici di Confindustria in Parlamento .  Nel Rapporto finale leggiamo infatti che tali spazi-laboratorio, in particolare “nella scuola secondaria di secondo grado [dovranno opportunamente] privilegiare l’educazione imprenditoriale, il pensiero progettuale”.

 

3) l’uso estemporaneo e funzionalistico del sapere umanistico, considerato come semplice supporto alla preparazione tecnico-scientifica, come dimostra la modifica dell’acronimo STEM in STEAM, dove la “A” aggiunta sta appunto per “arte”. Questa darebbe ulteriore supporto all’autentica creatività, proprietà ormai esclusiva dei tecnici, considerati gli unici depositari del pensiero creativo ai nostri giorni:

Perché parliamo di STEAM? Perché oggi è fondamentale avere una mentalità polivalente: uno scienziato, un matematico o un designer sono pensatori creativi e innovativi che risolvono problemi.”[3]

 

4) un annullamento dell’autonomia intellettuale della funzione docente, che -in linea con i documenti precedenti del MIUR che lo riducevano ai compiti di “operatore” o di “facilitatore” – avrebbe l’esclusivo compito di «un’adeguata rilevazione delle esperienze e dei saperi acquisiti». Prospettive ben note, tipiche di quella tendenza che è stata definita “politica di umiliazione dei docenti”[4], da perseguire con un loro forte disciplinamento introducendo dispositivi di differenziazione salariale e di carriera associati a un sistema di crediti professionali, di premi, incentivi e valutazione in funzione di standard esterni. Nulla di nuovo, poiché il Rapporto finale non fa che riprendere letteralmente quanto previsto dal documento del MIUR Sviluppo professionale e qualità della formazione in serviziogià commentato nel 2018;

 

5) una ridefinizione della governance scolastica, con preminenza dell’azione dirigenziale – un “dirigente che sappia  come usare bene tutti i suoi poteri”;   il tema “aperto”, che resta sullo sfondo, della revisione degli organismi di governo collettivi delle scuole, di cui si denunciano le prassi di  “collegialità ritualistica, burocratica e standardizzata”; la diffusione di una nuova cultura della progettazione “oltre che di studenti, insegnanti, genitori e familiari, anche di enti territoriali, terzo settore, imprese, mondo dell’associazionismo e delle professioni”; e quindi l’istituzione di “nuove figure professionali a livello territoriale, capaci di accompagnare e sostenere le innovazioni”.

 

6) Una nuova gestione sociale delle scuole, ovvero la delega di una diffusa responsabilità decisionale rispetto a tutte le fasi decisive del progetto didattico (scelta dei contenuti e delle metodologie, elaborazione dei criteri di valutazione) alle esigenze di soggetti economici esterni, in nome dell’apertura della scuola “alla comunità” e del principio di sussidiarietà. Gli stakeholders interessati a ciò che la scuola produce sono quindi sempre più legittimati a imporre, in maniera più o meno diretta, scelte didattiche ritenute più idonee. Tale affidamento dell’organizzazione scolastica ad attori esterni viene indicata con l’eufemistica espressione “Patti educativi di comunità”. Si tratta di un inganno linguistico non da poco, che nasconde la portata di questa operazione con un uso retorico dei concetti di “inclusione” e di “lotta alla diseguaglianza”. Non sono mai chiariti, infatti: né i nessi logici tra l’idea di scuola affidata alle comunità territoriali e il superamento dei divari economico-sociali e geografici; né se l’inclusione debba intendersi nella sua accezione esclusivamente localistica, nonostante i numerosi richiami all’internazionalizzazione, al multilinguismo e alla globalizzazione.

 

7) La disarticolazione del tempo scuola e dell’organizzazione per classi, che va di pari passo con quella dei curricoli e la loro riformulazione. Si rilancia l’idea del taglio di 1 anno dei percorsi secondari di secondo grado – singolare che lo si faccia in un periodo in cui si parla tanto di “recupero del tempo perso”! ;  si propone, inoltre, di integrare con opportune modifiche ordinamentali  il “tempo scuola formale”, ovvero delle attività definite “ forme note e usuali” dell’istruzione, con il “tempo scuola informale”, ovvero “percorsi che nascano dai Patti di comunità” e la cui “articolazione varierà da luogo in luogo”. La classe, d’altro canto, è associata nei documenti all’idea di “gabbia”, di “dispositivo burocratico” e “amministrativo”, di “coorte” studentesca. Va dunque superata in favore dei “gruppi di apprendimento”, che meglio si adattano a quella flessibilità e individualizzazione evocate. Non a caso si richiamano, per le scuole secondarie di primo e secondo grado, le esigenze di “maggiore libertà di scelte delle famiglie”, di percorsi opzionali “da sviluppare sia in ambito educativo che nel territorio”.

 

Come appare evidente da questo breve elenco, non esaustivo, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma una serie di temi sui quali -se si ha la pazienza di consultare l’ormai sterminata bibliografia a riguardo dell’ultimo trentennio- si è già ampiamente discusso e di cui si sono evidenziati i limiti epistemologici e le possibili derive.

Si invitano i lettori, a titolo di confronto, a consultare la documentazione prodotta in occasione della riforma Berlinguer del 1997 con quella di oggi.
Questo estratto, tra i tanti, può rendere l’idea:

si tratta di introdurre nella didattica alcuni contenuti innovativi propri di questo nuovo approccio: il superamento della “cultura del posto” a vantaggio di una nuova visione delle opportunità e delle professioni; la cultura della flessibilità attraverso la conoscenza delle nuove forme di organizzazione dei processi lavorativi; le nuove forme del lavoro, da quello autonomo a quello artigianale, a quello atipico; la preparazione all’autoimprenditorialità. Per il secondo, considerata la maggiore velocità di trasformazione dei processi strutturali rispetto a quelli culturali, il problema più urgente è di por mano all’impianto metodologico della scuola: è in gioco non solo una questione di contenuti, ma anche e soprattutto una questione di metodo di studio e di impegno umano. Si tratta allora di utilizzare e valorizzare le forme dell’apprendere proprie del mondo esterno alla scuola, sviluppando il senso di responsabilità e di autonomia che richiede il lavoro, le capacità etiche ed intellettuali di collaborazione con gli altri, la pianificazione per la soluzione di problemi concreti e la realizzazione di progetti significativi (competenze di tipo trasversale da promuovere nella scuola e nell’educazione permanente). In questo quadro andrà particolarmente valorizzato il rapporto costruttivo fra scuola, comunità locali, mondo produttivo.”.

La pressoché totale indistinguibilità delle premesse concettuali di allora, esposte con prosa più chiara e lineare rispetto a quella attuali, a nostro parere più prolissa ed enfatica, dovrebbe, quanto meno – dopo  20 anni dalla loro formulazione – consigliare prudenza nell’assumere le soluzioni proposte come l’innovazione di cui la scuola ha bisogno, non certo fervido entusiasmo.

 

Una scelta delle fonti da consultare piuttosto comoda

 

Risulta di grande interesse valutare le fonti di ispirazione cui sia la task force sia il neo ministro hanno fatto riferimento: ovvero da una parte gli stakeholders convocati per le numerose audizioni, ed elencate in dettaglio nel Rapporto finale; dall’altra la bibliografia in calce al libro di Patrizio Bianchi. Il sospetto che si volesse trovare conferma di un’idea di scuola già in partenza ritenuta valida potrebbe essere confermato dai nomi dei componenti la Commissione stessa e dalle loro dichiarazioni pubbliche precedenti; ma sembra ulteriormente corroborato da questa interessante verifica. Possibile che nessun autorevole esponente tra chi si è opposto o è stato critico in questi anni all’impianto di riforma della scuola sia stato convocato?  Quale approccio scientifico al problema è quello di chi esclude qualsiasi riferimento falsificante, qualsiasi confronto con argomentazioni in dissenso, ma sicuramente fondate sul piano epistemologico-razionale, rispetto a quelle che la Commissione intende affermare? Sarebbe importante avere accesso, in nome di quella “trasparenza” e “tracciabilità” invocate nel Rapporto, alle memorie dei dibattiti che si sono svolti nelle audizioni e nelle consultazioni avvenute nei mesi scorsi. Anche nella bibliografia riportata alla fine de Nello Specchio della Scuola le fonti sembrano accuratamente selezionate: Bertagna, Campione, Dutto, Pellerey, Ribolzi; accanto a Delors, documenti OCSE o documenti istituzionali regionali (Emilia Romagna).   Nessuna citazione dei pur importanti studi critici pubblicati in questi anni, riferimenti casuali ad alcuni classici (Adam Smith o Tocqueville), spesso utilizzati fuori contesto, e inseriti quasi per dare una cornice culturalizzante a un impianto di pensiero la cui matrice è organizzativo-gestionale.

Sebbene nel testo si faccia ripetutamente richiamo ai principi di sussidiarietà e autonomia, ai temi dello “sviluppo umano” e della “disabilità”, cari ad autori come Sen e Nussbaum (quasi a voler rimarcare un cambio di passo, in virtù del quale la scuola delle capabilities, della capacitazione, non sarebbe più quella del capitale umano), bisogna guardare alla sostanza delle proposte che danno corpo alla scuola di Patrizio Bianchi per scorgere eventuali discontinuità rispetto al paradigma di riforma dell’istruzione che domina da decenni.  È proprio qui il punto: non basta richiamare le categorie concettuali di “persona”, “sviluppo”, “benessere”, “solidarietà” o “cooperazione”. Come sempre, è la concretezza delle proposte – quelle sintetizzate nel paragrafo precedente – a dare significato effettivo ai principi che si enunciano.

La struttura argomentativa di Nello Specchio della scuola ci sembra peraltro ricalcare, soprattutto nella prima parte, quella di alcuni testi di anni passati situati sulla stessa lunghezza d’onda, e in particolare lo studio di Roberto Campione e Silvano Tagliagambe, Saper fare scuola: il triangolo che non c’è  (Einaudi, Torino 2008). Ampi excursus introduttivi, in questo caso di carattere storico o economico, in quel caso prioritariamente relativi a teorie comportamentistico-cognitivistiche, dai quali trarre significative inferenze sulla scuola, che in realtà si rivelano o estremamente deboli, o addirittura inesistenti. Ciò vale, nel caso del libro di Patrizio Bianchi, per i capitoli che vorrebbero illustrare la rassegna storica sull’istruzione, dalla Riforma protestante a oggi, molto semplificata, di cui non è ben chiara la funzione se non quella di offrire al lettore poco accorto una cornice culturale che dovrebbe dare maggiore credito a tesi che altrimenti risulterebbero alquanto forzate.

 

Un’ apparente comunità educante fondata sulla centralità dell’impresa e dell’imperativo economico…

 

 

[1] Tutte le citazioni che seguiranno, dunque, salvo quelle esplicitamente richiamate, sono tratte dal libro Nello specchio della Scuola o dal Rapporto Finale, 13 Luglio 2020.

[2] Interessante anche la presentazione del libro dell’Ottobre scorso, visionabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=_doo6mxQ_Hg

[3] Non c’è dubbio che l’aggiunta di questa “A” deve essere apparsa un vero colpo di genio a chi l’ha concepita, in un’incredibile operazione intellettuale di sopravvalutazione di se stessi;

[4]  H.Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici, La Scuola, Brescia 2014,

[5] Cfr. Rapporto finale: «È auspicabile che gli insegnanti stimolino il pensiero critico, creativo e gli interessi epistemici dei ragazzi, garantendo l’integrazione tra le conoscenze teoriche e quelle pratiche. Inoltre, impegnarsi nel promuovere le abilità cognitive di problem solving e decision making significa favorire l’utilizzo di strumenti che consentono di far fronte efficacemente alle richieste della vita e che permettono uno sviluppo armonico, anche nelle successive fasi dello sviluppo».

[6] Cfr. F.Germinario, Un mondo senza storia, Asterios, Trieste 2017: «[…] le posizioni del didatticismo hanno insistito sulla convinzione che una didattica per competenze rafforzasse il pensiero critico; in realtà, era poco più che una excusatio non poetita, che intendeva occultare la creazione di una situazione esattamente inversa. Il pilastro fondamentale su cui si reggeva la didattica per competenze era che l’allievo dovesse procedere per risoluzione di problemi. E proprio questa posizione era esattamente il contrario del pensiero critico, laddove il pilastro di quest’ultimo era che era compito dell’allievo suscitare problemi, associato alla convinzione che le soluzioni ai problemi possono essere anche diverse».

[7] Rapporto finale, Cfr pag. 47 anche, p. 5   «La formazione iniziale dei docenti pertanto necessita di un modello formativo strutturato, articolato e integrato al tempo stesso, volto a sviluppare una consapevolezza teorica, torica e culturale delle finalità e delle funzioni della scuola, e del significato del suo compito formativo e educativo. Tale modello dovrebbe costituire il quadro di riferimento per imparare a insegnare».

[8] S.Meghnagi, F.Mora, Competenze nel mondo del lavoro, in AA:VV, a c. di L.Benadusi e S.Molina, Le competenze, Il Mulino, Bologna  2018, p.78.

continua qui

 

 

Contro il binomio autonomia-valutazione – Giovanni Carosotti, Rossella Latempa

 

Nell’ultimo contributo dedicato all’idea di scuola di cui si fa interprete il nuovo ministro dell’Istruzione, ci concentriamo sulla coppia concettuale a nostro parere più rappresentativa: il binomio “autonomia” – “valutazione”. Tale accostamento non è una novità di oggi, ma si salda e si va progressivamente consolidando a partire da elaborazioni teoriche che datano agli anni Novanta. Fu allora che si pose e si formulò come ovvio quel legame scuola-società-economia su cui doveva essere rifondato per intero il paradigma dell’istruzione. L’analisi  che proponiamo, che mette a confronto i documenti di allora e quelli attuali, analizzati più ampiamente nel contributo precedente, ci sembra lo dimostri con poche possibilità di fraintendimento. È presente però un elemento all’apparenza nuovo nei documenti recenti. L’idea di scuola e di società vengono presentate con modalità linguistiche di carattere etico-sociale che le rendono indiscutibili, se non a costo di porre a rischio l’avvenire delle future generazioni. Lo scopo è quello di imporre una sorta di “vincolo deontologico” alle scuole e a chi in esse lavora. Tale strategia linguistica, tipica della cultura e dell’ideologia neoliberale, che ha trasformato lo spazio pubblico e si è consolidata nel corso di trent’anni, capita oggi in un momento assai propizio. Con una soggettività docente logorata da decenni di delegittimazione, che ha spesso interiorizzato questa comunicazione “eticamente intimidatoria” ; con scuole che hanno metabolizzato una logica economico-competitiva e che parlano la lingua del management e della promozione aziendale. Tutti segni, questi, che il binomio autonomia-valutazione, lungi dall’esser stato tradito o inapplicato, ha lavorato bene e in profondità, in  questi decenni. E che quindi la sola reale novità sarebbe rompere quest’incantesimo.

 

Siamo dunque alla fine del percorso di analisi dedicato al progetto di trasformazione dell’istruzione elaborato dalla commissione ministeriale presieduta da Patrizio Bianchi e presentato anche nel suo libro Nello Specchio della Scuola (qui il primo contributo di questa serie di approfondimenti; qui il secondo).

È giunto dunque il momento di sottoporre a critica il nucleo centrale di quel progetto, che si può sintetizzare in due parole chiave: autonomia e valutazione.

Questo binomio inscindibile, a partire dagli anni 90, ha rappresentato il filo rosso tra tutti gli interventi di riforma del nostro sistema di istruzione, muovendo da esigenze di tipo amministrativo- economico-sociale, ben collocate su un terreno internazionale, poi assorbite e metabolizzate dall’istituzione scolastica.

È il 1990 quando Sabino Cassese, scrive, in occasione della Conferenza Nazionale per la Scuola organizzata dal Ministero della Pubblica Istruzione, anticipando quelle che sarebbero state le principali direttrici della politica scolastica successiva, che:

col mutare del rapporto tra Stato e società e di quello tra scuola e Stato, ci si è andati lentamente rendendo conto che lo Stato non può essere responsabile dell’istruzione. Lo è la scuola, in quanto corpo dotato di autonomia. [..] La scuola non serve allo Stato, non ne è organo, né può essere organo della regione, della provincia o del comune, ma serve a una funzione, quella dell’istruzione, di cui è responsabile”.

Il principio affermato in quella sede diventa poi elemento essenziale di un ampio Rapporto sulle condizioni delle Pubbliche Amministrazioni del 1993, coordinato dallo stesso Cassese, governo Ciampi, che inserisce l’istruzione nel quadro di una ristrutturazione generale del sistema di amministrazione del Paese, di cui la prima tappa è la legge 29/1993, con cui si privatizza  il rapporto di impiego pubblico, trasformando lo status giuridico degli insegnanti in quello di lavoratori subordinati,  con diretto  superiore gerarchico. Si affermano i principi di trasparenza, qualità, soddisfazione dell’utenza, controllo dei risultati; si denuncia, nel sistema di istruzione, una carenza della “cultura della valutazione” necessaria per la sua modernizzazione.

Nei pochi anni che seguono si attua una vera e propria rivoluzione dell’assetto del sistema scolastico.

IL 24 Settembre 1996, nel  Patto per il Lavoro tra Governo Prodi e Parti sociali si conviene che :

L’assenza nel nostro Paese di un’offerta sufficientemente dimensionata e articolata di professionalizzazione per giovani ed adulti per un verso, la rigidità e impermeabilità della scuola dell’altro, hanno determinato una grande dispersione di risorse umane, una frattura fra sistema formativo e lavoro che rischia di avere ricadute negative sul nostro sistema produttivo.[..] In questo contesto l’autonomia consentirà alle istituzioni scolastiche di dialogare efficacemente con tutti i soggetti interessati, sociali e istituzionali, e di rendere flessibile e personalizzare il percorso formativo. [..]

E’ necessario [..] attivare un sistema di ricognizione permanente della quantità/qualità dell’offerta formativa che ne verifichi la coerenza con gli effettivi fabbisogni della domanda di lavoro richiesta dal sistema produttivo anche settoriale; [..] riordinare l’assetto complessivo del sistema scolastico. Rivedere e riqualificare i programmi scolastici anche attraverso l’introduzione di metodologie didattiche idonee ad attivare abilità e a valorizzare propensioni in un rapporto costruttivo e dinamico con il mondo del lavoro.

[..] La possibilità di aggiornare e modificare conoscenze e abilità anche professionali deve essere agevolata dall’adozione di un sistema di crediti formativi, secondo la logica proposta dai più recenti orientamenti dell’Unione Europea. Il sistema di istruzione e di formazione, anche di livello universitario, va collocato in questa prospettiva, e diviene la base su cui innestare proficuamente interventi di formazione continua e di educazione degli adulti.”

Tra le riforme Bassanini del 1997, in particolare la legge 59, all’art. 21  istituisce l’autonomia delle scuole, cui seguono la legge sulla parità scolastica voluta dal ministro Berlinguer (legge 62/2000)- ovvero la fungibilità tra scuole statali e paritarie –  e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che richiama esplicitamente l’autonomia delle istituzioni scolastiche nella definizione del riparto di competenze legislative Stato- Regioni.

Uno dei documenti più significativi di quegli anni di grande trasformazione, che permette bene di cogliere la cornice culturale in cui collocare quell’autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche – didattica, organizzativa e di ricerca – regolata con decreto nel 1999,  è rappresentato dalle “Linee guida per la diffusione della qualità nella scuola” del 2001, del Ministro Tullio De Mauro. Ne riportiamo di seguito la premessa e pochi passaggi chiave.

Come è noto, da più anni il Ministero della Pubblica Istruzione e Confindustria hanno instaurato sistematici e proficui rapporti di collaborazione, finalizzati all’innalzamento della qualità e dell’efficienza del sistema dell’istruzione, all’ampliamento dell’offerta formativa, alla realizzazione di organici e puntuali raccordi e interazioni tra scuola e mondo della produzione e del lavoro, al costante adeguamento e miglioramento dei livelli di istruzione, in sintonia con i rapidi e continui processi di trasformazione che caratterizzano la società in cui viviamo. [..]

Sono stati stipulati tre protocolli d’intesa sottoscritti rispettivamente: il 18 luglio 1990, il 19 aprile 1994, il 16 marzo 1998. I citati protocolli, con i quali si è dato senso e rilevanza istituzionale a forme di cooperazione tra il sistema scolastico e il sistema imprenditoriale, per il passato sperimentate solo in maniera episodica ed occasionale, hanno trovato fondamento nella consapevolezza, ormai matura e diffusa, che la scuola, per rispondere nella maniera più idonea alle attese e aspettative della società civile, non può essere lasciata sola, ma va adeguatamente sostenuta, indirizzata e incentivata.. Si è superato così, e non solo sul piano formale, un vecchio luogo comune secondo cui la scuola doveva interessarsi e farsi carico solo dell’istruzione, mentre l’impresa doveva preoccuparsi solo di produrre beni e servizi  [..]

In tale ottica nasce e prende consistenza la “Qualità dell’istruzione”[..]

L’autonomia, ponendo le istituzioni scolastiche al centro dell’impianto educativo e formativo, ha operato una vera e propria rivoluzione nella cultura e nel modo di essere e di funzionare del sistema scolastico.

[..]

È noto che la scuola dell’autonomia, ispirandosi nelle sue azioni ai canoni e alle regole della “Qualità”, si propone come un soggetto culturale che attende al proprio ruolo e ai propri compiti con mentalità imprenditoriale, capacità progettuale, spirito di iniziativa e senso di responsabilità, razionalizzando e ottimizzando le proprie risorse e facendo sì che i risultati siano coerenti con gli obiettivi prefissati.”

L’autonomia scolastica, interpretata e salutata dalle scuole di quegli anni come foriera di un rinnovato spazio di elaborazione culturale, come occasione di autogoverno e culmine di una stagione di profonda partecipazione, cominciata negli anni 70, aveva dunque una sua matrice culturale ben delineata e dichiarata.

Sta qui la reale rivoluzione, che segna un cambio di passo: trasformare la scuola in un soggetto culturale che attende al proprio ruolo con mentalità imprenditoriale; inserire nel vocabolario e nell’immaginario scolastico i principi di ottimizzazione e razionalizzazione, di gestione e promozione tipici del management aziendale.

La “qualità” istituisce il nesso autonomia-valutazione, per cui risulta naturale dichiarare, come si scrive oggi, nel Rapporto Finale della task force presieduta dal ministro Bianchi che:

L’autonomia scolastica si accompagna necessariamente al processo di valutazione del sistema. Nel ridisegnare la nuova scuola la valutazione deve essere potenziata e percepita dalle stesse istituzioni scolastiche come atto di responsabilità necessario.”

E per valutazione si intende, ovviamente ed in perfetta continuità con la china riformista che ci accompagna da allora:

-“definizione di forme di valutazione/apprezzamento dell’insegnamento, nonché di feed-back circa la sua qualità”,

il che sarebbe il fondamento di quella che oggi si definisce didattica inclusiva, in quanto:

«[una didattica inclusiva necessita anche di] dimostrazione di efficacia (i risultati dell’insegnamento devono essere dimostrati e non soltanto affermati)”.

E ancora:

– [definizione degli] standard da raggiungere in tutto il paese.. rilancio del Sistema nazionale di valutazione (SNV), indispensabile per permettere a ogni istituzione di verificare e migliorare il proprio posizionamento”.

Gli anni 1990-2000 sono anche quelli in cui si avvia la costruzione di uno “spazio internazionale dell’educazione“ e prende forma a livello comunitario la cosiddetta Strategia di Lisbona che si impegna a “rendere l’Europa la società basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo”, o, come si va immediatamente traducendo,  con significativo slittamento semantico, una “economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo”.

Questa iniziale sovrapposizione delle categorie “società- economia” sarà destinata progressivamente a crescere, fino a giungere a definitiva integrazione nei decenni successivi[1]. Si apre quella che una letteratura interdisciplinare ormai consolidata individua come fase di trasformazione neoliberale dello spazio pubblico.  Le istituzioni educative non si sottraggono a tale radicale metamorfosi.

Non a caso, è nel 2000 che nasce la prima indagine standardizzata su scala internazionale delle competenze dei 15-enni preparata dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE). Il Programma Internazionale per la valutazione degli Studenti (PISA, Program of International Student Assessment) diverrà, come a distanza di oltre 20 anni sappiamo, uno strumento di governo e di indirizzo delle politiche educative[2] e delle pratiche scolastiche dei sistemi di istruzione dei paesi aderenti.

Nel Memorandum europeo sull’istruzione e la formazione permanente del 2000 si dichiarano apertamente le linee di riforma scolastica che gli Stati membri saranno chiamati ad implementare, ribadite poi nelle numerose comunicazioni e raccomandazioni[3]  successive.

È interessante rileggere alcuni dei documenti di quegli anni, per almeno due motivi. Da un lato, la prosa che oggi ci appare chiara e lineare, non ancora deformata dall’enfasi retorica e dalle forzature linguistiche che hanno caratterizzato i documenti istituzionali successivi, rende evidenti le premesse, i nessi e le finalità; dall’altro, le riforme e le intenzioni dichiarate in quegli anni consentono di riposizionare e storicizzare ciò che oggi ci viene proposto come “innovazione”, esigenza “necessaria”, addirittura come unico esito socialmente  possibile dopo l’attuale crisi pandemica.

Segnaliamo per punti gli elementi a nostro parere più significativi[4] che l’Europa indirizzava agli Stati Membri:

  • I sistemi di apprendimento devono adattarsi agli odierni stili di vita e alla nuova impostazione dell’esistenza;
  • Imparare ad apprendere, sapersi adattare al cambiamentogestire i grandi flussi d’informazione sono le competenze generali di cui ciascuno di noi oggigiorno dovrebbe disporre. I datori di lavoro esigono sempre più dalla manodopera la capacità di apprendere, di assimilare rapidamente le nuove competenze e di adattarsi alle nuove sfide e situazioni;
  • Si possono acquisire conoscenze utili in maniera piacevole anche nell’ambito della famiglia, durante il tempo libero, in seno alla collettività locale e il proprio lavoro quotidiano;
  • Si propone di trasformare le scuole e i centri di formazione in centri locali polivalenti di acquisizione delle conoscenze, dotati di collegamento a Internet e accessibile ai cittadini di ogni età;
  • Partenariati non restrittivi e approcci integrati consentono di raggiungere i (potenziali) utenti e di rispondere in maniera coerente ai loro bisogni e alle loro esigenze in materia di apprendimento; Tali partenariati beneficiano innanzitutto della partecipazione attiva degli organismi locali e regionali e delle organizzazioni della società civile, che sono prestatarie di servizi vicini ai cittadini e che meglio rispondono ai bisogni specifici delle comunità locali;
  • Bisogna innanzitutto procedere ad una revisione e ad una riforma minuziosa della formazione iniziale e permanente degli insegnanti [..] Il profilo professionale del docente cambierà sostanzialmente nei prossimi decenni: insegnanti e formatori diventeranno consulenti, tutori e mediatori. [..]metodi didattici basati sulle TIC, miglioramento e innovazione di metodi pedagogici [..];
  • La domanda crescente di manodopera qualificata da parte dei datori di lavoro e l’intensificazione della concorrenza [..necessitano di..]forme innovative di certificazione dell’apprendimento non formale al fine di allargare lo spettro del riconoscimento delle qualifiche;
  • Vanno precisati il ruolo e l’impegno dei diversi protagonisti sul mercato della formazione (le imprese commerciali, le ONG, gli organismi professionali, le autorità locali, lo stato e, ovviamente, i singoli interessati). [..]
  • Con il prender forma di un mercato dell’istruzione e della formazione, è necessario raccogliere informazioni sui prestatori e sulle componenti economiche…sui costi e sulla disponibilità dell’offerta.

Se proviamo, anche solo come esercizio teorico, a confrontare l’elenco di proposte qui richiamate con quelle ben individuabili dalle pagine della documentazione istituzionale più recente (vedi secondo contributo ) o dalla bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza [5], è immediato cogliere la sostanziale sovrapponibilità di idee e di indirizzi: riforma della carriera docenti, da trasformare progressivamente in “tutori” e “consulenti”; scuole come “centri polivalenti” del territorio (i “Patti di comunità”); costruzione graduale di un mercato dell’istruzione e della formazione.

Ciò che rende marcatamente differente i testi degli anni 90 da quelli prodotti dalla commissione Bianchi oppure, ancor più, dalle tavole rotonde o dibattiti attuali è una sorta di nuovo galateo linguistico, che utilizza categorie concettuali e lessico eticamente “intimidatori”, facendo largo uso di parole semanticamente riconfigurate, dunque ormai completamente vuote.

Così, nei documenti di oggi la parola autonomia è sempre “cooperativa” o “solidale”; la valutazione diventa “responsabilità”; il controllo, “trasparenza”; la concorrenza, “miglioramento”, la subordinazione gerarchica, “valorizzazione dei profili”, la povertà è quasi sempre “educativa” e mai materiale;  l’equità è la costruzione di standard uguali per tutti. Il capitale è spesso “umano”, ma soprattutto “sociale” o “culturale”. Si predilige oggi la categoria di “sviluppo umano”, in cui le “capacità”, al posto delle skills rendono il lavoratore/consumatore, “persona”.

Insomma, siamo ancora nel bel mezzo di una controrivoluzione culturale, che in 30 anni ci ha convinti che gli obiettivi della società potessero coincidere con obiettivi di natura puramente economica e che la cultura d’impresa, i suoi standard e la sua organizzazione, potessero essere applicati  anche all’educazione e all’istruzione.

Marco D’Eramo, fisico e sociologo, nel suo ultimo libro, “Dominio”, ci ricorda che in “quella che al pari di tutte le ideologie, si presenta come non-ideologica, a-ideologica e scientifica, a colpi di equazioni e formule matematiche” giochiamo una “partita truccata”.  Con quest’immagine si riferisce alla capacità dell’ideologia neoliberale di servirsi di sempre nuove categorie concettuali, di un lessico e di una simbologia che rendono sostanzialmente illeggibili le fondamenta del progetto di riforma dello spazio pubblico.

Incredibile, ad esempio, sentire oggi una vera e propria “litania sulla crescita delle disuguaglianze”, ma contemporaneamente anche una sua “totale sconnessione” dal problema del “dominio”. Porsi questo problema significa chiamare in causa i rapporti di forza in gioco, anche in campo globale.

Significa storicizzare e politicizzare i processi e le scelte, sottraendoli alla dimensione del “mito”  e dell’inevitabilità; notare le incredibili  convergenze attorno alle proposte culturali e ai principi – come è possibile che  oggi la  Fondazione Agnelli, il Consiglio Nazionale delle scuole della CEIConfindustria,  INVALSI e tutte le forze politiche in campo condividano lo stesso progetto di riforma educativa?

Significa, ancora, rilevare lo stato drammatico della nostra informazione, in cui la concentrazione di potere ed interessi è ormai palese; o il livello del dibattito politico e pubblico insussistente. La “lotta all’eufemismo”, che sta alla base di quella che D’Eramo, gramscianamente, considera il primo passo del processo di ricostruzione culturale di una contro-egemonia (una “battaglia delle idee”, perché “le idee sono armi”) deve dunque partire dalla minuziosa analisi delle proposte concrete dei progetti di riforma e delle loro azioni, ripulite dal substrato retorico linguistico che le promuove. Sono tali azioni che, lungi dall’essere simboliche, produrranno materialissime conseguenze.

E se è vero che non esistono ancora proposte formalizzate dal nuovo Ministro Bianchi e dal governo Draghi, è altrettanto vero che molte possibili formulazioni sono già disponibili all’analisi. È per questo che abbiamo ritenuto fondamentale sottoporre ad attento approfondimento i documenti istituzionali e le tesi proposte nel libro del Ministro, nei contributi precedenti.

Ci chiediamo, allora [6]:

come è possibile, riproporre, oggi, lo stesso paradigma di riforma dell’istruzione, fondato sul binomio autonomia-valutazione?

La constatazione del declino culturale generalizzato  – corroborato, come piace adesso, dalle statistiche internazionali e nazionali -la constatazione dell’aumento dei divari e delle differenze Nord- Sud, o aree interne-periferiche e grandi centri cittadini; la polarizzazione sociale, la frammentazione schizofrenica della gestione pandemica; lo stato in cui versa il sistema sanitario nazionale, trasformato in un insieme di aziende territoriali in concorrenza gestite con criteri manageriali e largamente privatizzato non sono forse conseguenze empiriche sufficientemente evidenti da indurre ad una messa in discussione del modello di riforma?…

 

[1] Vedi saggio di Andrea Cerroni: “Per una scuola di qualità: l’europardismo e la brezza di Ventotene”, nel volume “Il contributo dell’orientamento e del counselling all’agenda 2030, a cura di Soresi, Nota, Santilli, 2019.

[2] V. Rossella Latempa, “La valutazione totalitaria”, in La scuola dell’ignoranza, Mimesis, 2019.

[3] Cfr.  nota 2 o i tanti contributi dell’associazione belga “APED”, coordinata dal fisico e ricercatore indipendente Nico Hirtt: https://www.skolo.org/ .

[4] Tutte le citazioni sono tratte dal Memorandum europeo nel link del testo.

[5] La bozza a cui ci riferiamo sembra essere stata confermata nelle sue linee di intervento dall’attuale Ministro Bianchi, espressosi in audizione al Senato, il 16 Marzo 2021 https://www.youtube.com/watch?v=2MALos6Wb8Y .

[6] Sia Nel libro Nello Specchio della Scuola che nel Rapporto Finale riteniamo importante il riconoscimento del sottofinanziamento strutturale e decennale alla radice delle problematiche scolastiche.

da qui

 

 

Dad. Life on Mars? – Girolamo De Michele

 

È uno dei capolavori di David Bowie: una ragazzina triste e sola che si lascia catturare da uno schermo argentato e dal freakiest show di una successione demenziale di immagini che scorrono davanti ai suoi occhi – un film noioso, che lei ha già vissuto dieci volte; finché da spettatrice, diventa lei stessa creatrice di immagini allucinatorie: che si susseguono demenziali come le precedenti, perché questo film lo ha già scritto dieci volte. Chissà se lo sa che è il suo, il best selling show? Sarà forse su Life on Mars?

Reso più saggio e triste dalla maturità, Bowie ricordò questa canzone come una piccola storia di alienazione quotidiana: credo che oggi la troverei piuttosto triste, concluse il Duca Bianco.

È quello che accade anche a me: questa canzone che mi accompagna da quarant’anni, mutando significato col trascorrere del tempo, oggi mi sembra di una infinita tristezza. Sono io che faccio lezione davanti a un PC, o sono le mie studentesse e studenti sul rovescio (nel sottosopra, mi verrebbe da dire) dello schermo, soli dentro una stanza e tutto il mondo fuori (come quella studentessa morta d’infarto durante la DaD, sola nella stanza, senza che nessuno se ne accorgesse, perché la connessione andava male), ad essere nel freakiest show?

Ancora tu che ti fai delle storie, ma dai!, cosa vuoi più di così?

Eh… è che io, se non al potere quantomeno alla scuola, la fantasia la volevo davvero. E non m’è mai venuto il pelo sullo stomaco.

 

Provo a spiegarmi, assumendo come riferimento polemico Un elogio della DAD di Pietro Montani. La didattica multimediale non è venuta giù con il Covid-19: c’era già da tempo, coi suoi pregi e difetti, che non sto qui a elencare. La DaD è un’altra cosa. Integrarla con la didattica in presenza, si dice oggi: e infatti ha cambiato nome, ora si chiama DDI, didattica digitale integrata: due è meglio che uno, diceva Stefano Accorsi da giovane, no?

E invece è una truffa linguistica: perché il digitale che integra la presenza riempie un vuoto di presenza, che quindi presenza non è più: e se 1 diventa 0, 1+0 non fa 2. Ma non fa neanche 1, perché il digitale allo schermo 1 non è. Basterebbe ripercorrere l’ordine del discorso didattico-digitale per accorgersene: la scorsa primavera andava di moda l’entusiasmo per la novità che finalmente svecchiava la scuola, erano arrivati persino i podcast dal ministero per l’esame (i bigini digitali di Stato!). Poi, poco a poco, (quasi) tutti avevano dovuto riconoscere che la qualità della didattica era crollata, che la DaD non aveva funzionato. Dalla non più sostenibile colpevolizzazione a priori degli insegnanti, che in poche settimane e senza alcun supporto avevano dimostrato di sapersi autoaggiornare e attuare una forzata didattica digitale, si è passati, da parte di interessati sostenitori di agende e didattiche digitali, a sostenere che l’errore è stato di voler fare col digitale quello che si faceva in presenza, il che non era possibile: è necessario quindi che con digitale si faccia “altro”. Come quando introdussero le misurazioni quantitative degli apprendimenti (INVALSI, OCSE-PISA), che non misurano tutto il processo di apprendimento, solo alcuni aspetti. Quindi misuriamo, degli apprendimenti, solo quello che si può misurare: si diceva così, in principio. Poi è successo che essendo misurabile solo una fetta della torta, la torta è diventata quella fetta lì, con buona pace delle incongruenze logiche, didattiche, matematico-statistiche, persino.

 

Schema che vince non si cambia: col digitale si finirà per fare solo quello che è fattibile col digitale, che è solo una fetta di ciò che si fa in presenza.

Di nuovo, sembra tutto rientrato nell’ordine della ragione: giunti nel mondo del mago di Oz, continuano a dirci che siamo ancora nel Kansas. E intanto la Strega Cattiva dell’Ovest s’è messa in volo.

Perché anche questo discorso è rovesciato: con i piedi nelle nuvole e la testa rivolta al suolo, direbbe Ejzenštejn. Rovesciato, perché parte da ciò che il digitale può fare, e non da ciò di cui la didattica ha bisogno: e finisce per conseguire gli scopi possibili al digitale, non quelli necessari alla didattica. Possibili al digitale, cioè entro i suoi limiti: quelli dell’impersonalità, della mancanza di fisicità, dell’assenza di relazione, eccetera. Che non sono accessori ornamentali, ma l’essenza della didattica, il principale canale di trasmissione. Sarà banale dire che la presenza è meglio dell’assenza, ma dentro questa banalità abita una nozione che si credeva ormai acquisita: che la comunicazione non è trasmissione di pacchetti di contenuti, ma apertura di uno spazio comunicativo, sfondamento retorico; che il linguaggio non è uno staffettista che consegna un testimone, ma una funzione complessa e indefinibile – un ambiente, come minimo.

 

Dentro questo ambiente io devo essere libero di muovermi, inventare, creare, ripetere, aggiungere; entro questo linguaggio io posso concatenare alla mia persona i supporti digitali di ogni tipo, accrescendo il mio essere e collegandolo a quello di studentesse e studenti entro un’esperienza comune. Il che non avviene se il mio essere è compresso dai limiti tecnici dello strumento digitale che, occupato il centro della scena, limita il mio essere e mi impone una pseudo multimodalità che riorganizza secondo modalità tecniche il rapporto tra forme espressive e mondo materiale. Pseudo-, perché il fatto stesso dello schermo induce la falsa percezione che ci sia un qua e un là, un mondo interiore distinto da quello esteriore, un reale che appare essere lì, come qualcosa di dato e oggettivo.

 

Secondo Massimo Recalcati (“No alla Generazione Covid”, la Repubblica, 23 novembre 2020), “Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale”, la formazione avviene “sempre controvento, con quello che c’è e non con quello che dovrebbe essere e non c’è”. Sarà anche una lezione di vita: ma la vita insegna anche a non essere passivi di fronte alle decisioni politiche che conseguono dall’irruzione dell’imprevisto, e a non accettare la decurtazione dei diritti come ineluttabile fatalità. Fra la lamentazione e l’accettazione delle “lezioni della vita”, c’è la terza via della coscienza critica e della disobbedienza, come insegnava don Milani.

 

Fatto è che, cavalcando il vento della retorica dell’innovazione digitale, arriva per concludere quarant’anni di Termidoro la Strega dell’Ovest della Restaurazione culturale. Accompagnata dalla Strega dell’Est del capitalismo digitale, delle gig-economy, delle piattaforme digitali: per fare qualche nome, Confindustria, Assolombarda, Base Italia, o aziende come Acer ed Epson, che hanno dipartimenti di didattica e chiedono l’accesso a quei tavoli territoriali dove la scuola non siede.

Uno dei segni del passaggio dal Termidoro alla Restaurazione culturale che stiamo attraversando è il fatto che il dibattito sul digitale – forse perché si svolge principalmente sul/nel mondo del digitale (e ha come protagonisti molti che nella scuola non ci mettono piede da anni, se mai l’hanno messo) – sembra svolgersi in uno spazio vuoto, asettico, sterilizzato. Come se anche il digitale, come tutto ciò che esiste, non fosse prodotto da interessi economici e di classe, e in questi interessi non fosse impigliato, e di questi interessi non portasse lo stigma. Come se fosse un fatto neutro che questo interesse per la digitalizzazione della didattica si intreccia a doppio filo, per bocca degli stessi soggetti, con l’idea che la scuola deve fornire le competenze richieste dal mondo del lavoro; un’idea che, vale ricordarlo, era contenuta nel rapporto “Studio ergo lavoro” col quale McKinsey & Company (sì, proprio quella società che fornirà consulenze spontanee nell’elaborazione del Recovery Plan) contribuì, sua sponte, alla creazione del frame che vuole correlate disoccupazione e scarsa acquisizione delle competenze: era il 2014, e Renzi si affrettò a metterlo a profitto nella concomitante Buona Scuola. Come se fosse casuale l’assonanza, quasi al limite della parafrasi, fra i testi di Confindustria (il libro bianco Investire sulla Formazione e Il coraggio del futuro, ambedue del 2020) e del Rapporto Finale della commissione di esperti presieduta dall’attuale ministro Patrizio Bianchi, e le pagine sulla scuola del Recovery Plan del precedente governo, in attesa del nuovo.

 

E non è casuale che la didattica digitale viaggi nelle stesse carrozze in cui c’è la riduzione del tempo scuola, dei curricoli, della qualità della didattica in favore di una didattica “essenziale”. Non è casuale, perché già da tempo vengono prodotti manuali che accanto a un’offerta multimediale pongono una riduzione e semplificazione (banalizzazione, talvolta) dei contenuti. E da tempo circolano progetti o proposte di redazione di lessici minimi per competenze dei contenuti disciplinari, ai quali sembrano ispirarsi quei manuali “multimediali”. Come ignorare questo tentativo di sforbiciare la didattica, lasciando intatto solo quel sedicente “nucleo essenziale” compatibile con la sua realizzazione a distanza, o digitalizzata?

 

Pietro Montani sostiene che se “ci fosse stata la rete, insieme all’assoluta facilità con cui attingiamo al suo immane archivio e ne riutilizziamo i materiali, il grande Sergej Ejzenštejn, che aveva lavorato per almeno due anni al progetto di un film sui concetti fondamentali del Capitale di Marx e poi si era arreso, quel film lo avrebbe fatto di certo”. Io credo invece che Ejzenštejn, che quel film alla fine non l’ha realizzato, il Capitale l’ha pur letto e capito (e qualche sasso nelle strade di Pietroburgo lo avrà pur tirato, per metter forza in quelle mani che avrebbero poi montato capolavori): e proprio per questo l’errore di decontestualizzare l’arte e considerare mezzi neutri e neutrali gli strumenti non lo avrebbe mai compiuto. E non avrebbe mai narrato di marinai in rivolta per la carne rancida che si acquattano davanti all’offerta di un tecnologico e moderno rancio quattro salti in padella.

Ma Ejzenštejn non c’è più, dicono: e noi qui, davanti a uno schermo, nel nostro freakiest show, a chiederci qual è il nostro posto nello spettacolo, se c’è vita su Marte, o se siamo su Life on Mars.

da qui

 

 

 

Innamoriamoci della scuola – Raffaele Mantegazza

 

Parlare della scuola come bene comune significa innanzitutto rispettarne la specificità. La scuola è un’istituzione, non un servizio, e soprattutto non un servizio a domanda individuale. Non è come la macchinetta del caffè nella quale inserisco la moneta e ciò che ne esce è mio e solo mio. La scuola è il luogo della socializzazione del sapere; fa proprio il dettato democratico per cui la cultura è da condividere, anzi è insito nella struttura della conoscenza l’atto della sua condivisione. Ma il fatto che la scuola sia di tutti non significa che ciascuno possa usarla come vuole a seconda dei propri desideri. La scuola che mio figlio frequenta non è la scuola che deve fare ciò che io voglio per mio figlio; deve farlo crescere, anche mettendo in dubbio le verità acquisite nell’ambito familiare.

 

Ma la specificità della scuola significa anche altro: in Italia oltre ad avere 60 milioni di commissari tecnici quando gioca la Nazionale abbiamo anche 60 milioni di sedicenti esperti di didattica che tutti i giorni all’uscita dei bambini dalle scuole pensano di dare giudizi, formulare proposte, e soprattutto criticare con i cannoni puntati. Questo non significa che la scuola sia al di sopra delle critiche: i decreti delegati e gli organi collegiali servono proprio a questo, per coinvolgere i genitori nella gestione della scuola. Ma la didattica è una cosa seria: occorre studiarla, formarsi, aggiornarsi, non la si inventa su un gruppo WhatsApp delle mamme. Dunque, occorre prima di tutto schierarsi al fianco delle scuole, letteralmente innamorarsi di esse e far innamorare i nostri figli. L’innamorato può anche amorevolmente criticare la fidanzata ma non vuole distruggerla e comunque ne rispetta le scelte e l’autonomia. Se la scuola in questi decenni è stata oggetto di scellerate scelte economiche (le si è chiesto sempre di più dandole sempre di meno) è anche perché attorno a essa i cittadini e le cittadine non hanno saputo costruire un quadrato, un guscio protettivo.

Una scuola partecipata. Come spesso accade, è nelle piccole cose, più che nelle dichiarazioni di principio, che si notano le differenze. Anzitutto la partecipazione: la solitudine di certe riunioni con i genitori nelle quali su 25 famiglie partecipano quattro mamme o papà è un segnale gravissimo che indebolisce la scuola, ma prima di tutto rende meno efficace il ruolo del genitore. Una famiglia che non dà valore alla scuola si gioca la possibilità di un aiuto fondamentale e per ora insostituibile per la crescita dei ragazzi. La parental education è a mio parere una scelta insufficiente e molto pericolosa, prima di tutto per le dinamiche intrafamigliari; per la confusività di ruolo che essa causa, trasformando il genitore in una specie di superman/woman che riunisce in sé i ruoli parentali e istruzionali, rischiando di bloccare il percorso di distanziamento del ragazzo dalla famiglia e alimentando un familismo forzato e artificioso.

Il rispetto per i tempi, gli spazi e i riti della scuola è un altro degli atteggiamenti che evidenzia il fatto che la percepiamo come bene comune: arrivare in orario, preparare la cartella, recarsi a un colloquio con gli insegnanti, sono gesti quotidiani attraverso cui il valore dell’esperienza scolastica si fa strada nel cuore dei bambini e dei ragazzi grazie all’esempio adulto. Ciò non toglie che ci possano essere momenti di confronto, ma devono essere svolti nei luoghi e nei tempi giusti (le riunioni collegiali, i colloqui) e non tramite l’adesione al regno della chiacchiera e del pettegolezzo.

 

Non lasciare indietro nessuno. Occorre, però, maggiore chiarezza sulla questione della socializzazione del sapere. La scuola è il luogo di tutte e di tutti, l’integrazione scolastica è un diritto riconosciuto a livello internazionale e sancito dalla Costituzione. Questo significa che non esiste il problema di chi arriva prima e di chi rimane indietro. La scuola non è la finale dei 100 metri alle Olimpiadi, non conta chi va più veloce, conta il ritmo che tutta la collettività, la classe, l’Istituto riesce a mantenere nella strada dell’apprendimento, senza perdere nessuno per strada. Questa è la grande difficoltà dell’insegnare: proporre tutto a tutti seguendo i ritmi individuali e mantenendo saldo il gruppo. Per questo l’insegnamento è una delle professioni più difficili e ogni tentativo di banalizzarla e ridicolizzarla rischia di minare alle radici il senso della nostra democrazia. Il gruppo non è soltanto un ambiente dell’apprendimento, ne è anche il soggetto: non si va a scuola per imparare quando è morto Napoleone – cosa che si potrebbe tranquillamente trovare in rete –, ma per impararlo da specifiche persone, gli insegnanti, e insieme ad altre specifiche persone, i compagni di classe.

La scuola non è uno spazio di competizione, e neppure di selezione. Questi due concetti avvelenano la scuola perché ne vanno a contaminare quello che è il vero ruolo di orientamento e d’individuazione per ogni bambino e per ogni ragazzo della strada che permette di sviluppare al massimo i suoi talenti. La scuola è il luogo delle diverse intelligenze, non misurabili – perché pensare di poter misurare l’intelligenza è assolutamente folle – ma combinabili, contaminabili. Ogni bambino e ogni ragazzo deve ricevere dalla scuola il disegno delle sue intelligenze, non un grafico ma una specie di gioco di colori a partire dal quale, più avanti, capire quale possa essere il suo contributo alla crescita della società.

Una scuola di questo tipo, che è la sola scuola prevista dalla nostra Costituzione, investe sulla formazione e sull’aggiornamento. È triste vedere come quando si parla di innovazione in ambito scolastico si intenda sempre riferirsi all’uso dei computer, come se non fosse innovativa una riflessione sulla relazione educativa, sul lavoro di gruppo, sulla psicologia dell’età evolutiva. Una scuola che smarrisce le sue radici umanistiche perde un punto di riferimento che è quello sociale e politico che ne sostiene il ruolo. Una scuola che per inseguire le mode non tiene fermo quello che è il suo pilastro, ovvero l’educazione di cittadini e cittadine responsabili e partecipativi, non è soltanto inutile, è anche dannosa: non è più un bene comune.

Da lavialibera n°5 settembre/ottobre 2020

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Il modello insegnante INVALSI-Fondazione Agnelli: di nuovo. – Giovanni Carosotti, Rossella Latempa

 

La Fondazione Agnelli torna a proporre alcuni risultati della sperimentazione “Osservazioni in classe”, condotta diversi anni fa in collaborazione con l’ INVALSI, i cui esiti erano in parte stati anticipati nel 2017  e da noi già commentati. Le ulteriori “elaborazioni e interpretazioni dei dati” proposte oggi, di poco si discostano da quelle di allora e sono state riprese e amplificate da quotidiani, trasmissioni radio, riviste di settore. Persino da Vanity Fair. Come potete immaginare, il quadro che emerge dal racconto è desolante. Giudizi sommari e generici, privi di qualsiasi analisi dei metodi utilizzati, ripetuti acriticamente e senza che sia lasciato alcuno spazio alle posizioni di chi dissente. I soli nomi di Fondazione Agnelli e INVALSI bastano a fornire il crisma di scientificità e indiscutibilità a numeri e percentuali. Questi  sarebbero  frutto di una ricerca “scientifica” basata su una valutazione “oggettiva”, corroborata da criteri quantitativi che non ammetterebbero obiezioni. Senza tornare sui dettagli della metodologia utilizzata per dare “le pagelle agli insegnanti” – in un momento quanto mai propizio, che politicamente serve a fiancheggiare le riforme previste dal Recovery Plan – vale la pena riportare l’attenzione sulle caratteristiche del “buon insegnante”, che emergono dal “manuale” del (buon) osservatore, elaborato dall’INVALSI.  Si capisce allora che i criteri utilizzati per dare i voti ai docenti hanno un tale margine di soggettivismo, se non di arbitrarietà, da non corrispondere affatto a quella  valutazione oggettiva che ci viene raccontata. Diciamo piuttosto che si fa valere  il  principio d’autorità che, quando a parlare sono Fondazione Agnelli, INVALSI o Associazione Nazionale Presidi, conta sempre. Meno se a esprimersi sono i docenti, che in classe ci stanno veramente.

 

Le pagelle dei professori: così, in buona sostanza,  tutti i  quotidiani,  i rotocalchi , le testate di settore, le trasmissioni radio hanno considerato quei dati pubblicati dalla Fondazione Agnelli relativi al progetto “Osservazioni in classe”, pubblicizzati enormemente a partire dal 2 Febbraio scorso. Dopo aver messo in fila gli istituti scolastici, dai più bravi ai più cattivi nelle classifiche di Eduscopio, ora sembrerebbe il turno degli insegnanti…

 

…1. Un momento propizio

Non c’è dubbio che l’attuale fase politica sia quanto mai propizia a generare un diffuso consenso nei confronti dei risultati della ricerca pubblicata dalla Fondazione Agnelli. E, allora come oggi, ci attendiamo una ricezione del tutto passiva da parte dei principali organi di informazione, senza alcuna analisi critica dei dati offerti e delle metodologie utilizzate.

Il direttore della Fondazione, presentando i risultati, afferma:

Investire in innovazione didattica e formazione degli insegnanti deve essere un obiettivo del piano italiano in vista di Next Generation EU”.

E tale investimento è direttamente finalizzato a imporre precise metodologie didattiche e contenuti formativi che, decisi sulla base di esigenze estranee al mondo dell’istruzione, trasformerebbero definitivamente il docente in un “operatore”, ovvero in un professionista che mette in atto schemi comunicativi, “moduli prepensati” da altri soggetti, i famosi stakeholders che avrebbero le competenze per definire gli obiettivi che la scuola deve perseguire, in linea con gli interessi d’impresa. Possiamo immaginare siano in effetti queste le «comunità educanti», di cui le scuole di fatto costituirebbero una componente marginale, più volte richiamate dal neo ministro Patrizio Bianchi.

Attribuire pagelle ai professori in un frangente politico come quello attuale, dunque, serve proprio per fiancheggiare le politiche di ristrutturazione dell’istruzione che ci attendono con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e per suffragare con dati e percentuali –  su cui poco o nulla poi importa approfondire – quell’operazione di delegittimazione professionale che deve accompagnare i radicali interventi all’orizzonte.

Dovrebbe invece generare quanto meno sospetti almeno in chi legge – se non nei giornalisti che danno spazio solo alle stesse voci – il fatto che tali risultati vanno sempre a coincidere con quel senso comune che una martellante campagna di stampa vorrebbe imporre da decenni, e che invece contrasta con l’esperienza effettiva della vita scolastica quotidiana, e con il pensiero diffuso in buona parte di studenti e famiglie.

In ogni caso, dall’indagine pubblicata derivano i seguenti i giudizi sommari: bravi i maestri, cattivi gli insegnanti delle scuole secondarie di primo grado; quasi 1 insegnante su 5 sarebbe da licenziare perché del tutto “inefficace”; meglio gli insegnanti di matematica, peggio quelli di italiano.

Conviene a questo punto allora richiamare brevemente alcuni aspetti della metodologia di indagine adottata, rimandando per ulteriori dettagli al nostro precedente contributo, per valutare se essa possa effettivamente restituire una serie di indicazioni tanto stringenti riferite a una relazione comunicativa così delicata come quella tra docente e alunni; e che Fondazione Agnelli ed INVALSI pretendono di far accettare all’opinione pubblica.

 

  1. dividereciascuna delle difficoltà da esaminare in tutte le parti in cui fosse possibile” (R. Cartesio, Discorso sul metodo)

 

Il presupposto alla base del progetto è quello di scomporre il momento didattico in tante micro-azioni, in unità minime, ciascuna delle quali può essere valutata separatamente secondo criteri numerici.

L’idea è in fondo quella di mettere in pratica la seconda regola del metodo cartesiano, senza poi accertarsi se, in tale ambito, essa possa poi dare luogo a quella catena deduttiva sintetica che produrrebbe, successivamente, il giudizio generale. Conviene forse ricordare tuttavia che, secondo il grande filosofo francese, tale impostazione può applicarsi, con l’assoluta certezza di vedersi restituiti dall’esperienza dei parametri oggettivo-quantitativi, solamente alle qualità oggettive dei corpi, relative alla Res extensa.

L’applicazione dell’analisi all’ambito della comunicazione scolastica è certo legittima, come potrebbe esserlo qualsiasi procedimento di destrutturazione di un modello linguistico, ma non può restituirci in parametri quantitativi i risultati della relazione di insegnamento e apprendimento, ovvero il condizionamento reciproco, e per forza di cose asimmetrico, tra soggettività psicologicamente complesse, che matura e agisce su tempi lunghi.

Decisivo infatti, in questo caso, risulta il “fattore di contesto”, per cui un’azione che possiamo giudicare di per sé poco o molto produttiva, auspicabile o meno in via generale, potrebbe mutare totalmente la propria efficacia in una singolare e specifica situazione, o riferita a una particolare personalità.

È inutile dire che tale supposta oggettività è il frutto di una egemonia di un approccio piattamente positivistico alle tematiche psicologiche e di conseguenza anche formative, derivanti dalla pretesa da parte della scienza economica di possedere una competenza tecnica per giudicare qualsiasi attività, sulla base di una quantificazione credibile dei risultati “attesi” dalla stessa, e della capacità effettiva di conseguirli.

Una prova di questa subordinazione alla logica economica  è ad esempio la pretesa di quantificare addirittura in punti percentuali di PIL ciò che si sarebbe perso con l’adozione della DAD, con un uso della matematica quanto meno disinvolto non tanto sul piano tecnico, quanto sulle conseguenze di carattere politico che se ne vorrebbero trarre.

Ma torniamo ai risultati della ricerca “Osservazioni in classe”. Il principio base è dunque quello della progettazione minuziosa e computabile di ogni attività didattica.

Ovvero il docente scandisce ogni sua azione in una serie di micro-procedimenti, che devono essere contenutisticamente e metodologicamente differenziati e valutabili con una scala di efficacia.

Ovviamente, senza questa frammentazione dell’azione didattica, che viene eufemisticamente chiamata «progettazione», sarebbe impossibile qualsiasi valutazione oggettivo-quantitativa; che invece può essere restituita da una griglia di valutazione capace di monitorare ogni singolo passaggio.

A ben vedere è questa la logica delle Unità Didattiche di Apprendimento (UDA), cui sono ormai costretti obtorto collo molti docenti italiani; esse realizzano di fatto una sorta di formattazione dell’insegnamento, con predeterminazione dei risultati di apprendimento, espressi in termini di “evidenze” ;  e anche una forma di controllo, che mette in crisi di fatto la libertà d’insegnamento…

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La scuola che fa paura alla mafiaTomaso Montanari

 

Un grande fiorentino adottivo che ha dedicato la sua vita alla lotta contro tutte le mafie, Antonino Caponnetto, non si stancava di ripetere che «la mafia teme la scuola più della giustizia». Caponnetto lo sapeva da siciliano, e da cittadino, prima ancora che da magistrato antimafia. E tutti noi lo sappiamo, e lo ripetiamo. Ma se non vogliamo che questa giornata resti solo vuota celebrazione, se vogliamo che quelle parole profetiche ci scuotano fin nelle viscere allora dobbiamo chiederci: di quale scuola, di quale università, di quale cultura, hanno paura le mafie?

Danilo Dolci, mite profeta di giustizia, lo spiegava già nel 1955. Per vincere la mafia, scriveva, «occorre promuovere azioni politiche morali, dal basso. […] Educazione morale nei pubblici uffici, scuola sicura ai bambini e ai giovinetti – e scuola che collabori alla realizzazione del mondo nuovo. Efferati o incoscienti si è, se non si dà modo subito a tutti di partecipare alla vita: di lavorare, studiare, curarsi; di partecipare alla pari alla responsabilità, alla vita pubblica. Cominciando a garantire proprio gli ultimi, quelli che non ce la fanno, a qualsiasi costo (costo giusto, si capisce); proprio, in un certo senso, il contrario di come si sta facendo». Il contrario di come si sta facendo: le parole, chiarissime, di Dolci colpiscono anche le nostre sicurezze di oggi. Invitano a convertirci: cioè, letteralmente, a cambiare strada.

Perché la scuola che fa paura alla mafia è quella della Costituzione. Rivolgendosi, nel 1950, a una platea di insegnanti, Piero Calamandrei definì la scuola un «organo costituzionale», al pari delle Camere del Parlamento o della Presidenza della Repubblica. La funzione costituzionale della scuola – dalla primaria all’università – è formare cittadini. Ma come si fa a formare cittadini, cittadini resistenti contro le mafie?

La chiave è il primo comma dell’articolo 9 della Carta, dove si dice che la Repubblica è fondata anche sullo «sviluppo della cultura» e sulla «ricerca scientifica e tecnica». Ora, quella «ricerca scientifica» va intesa nel senso più ampio possibile: è la ricerca di base, ma ancora prima è la ricerca della conoscenza. La ricerca della verità come diritto e dovere dei cittadini. È una concezione dello Stato frontalmente antimachiavellica: perché si fonda sul fatto che i cittadini non siano tenuti all’oscuro, ma invece sappiano. E sappiano perché sono stati provvisti degli strumenti cognitivi per cercare la verità. Si prende sul serio l’idea che la sovranità appartiene al popolo: mentre l’ignoranza si addice ai sudditi, il sovrano deve ricevere un’istruzione. Implicitamente, ma non troppo, la Repubblica si fonda sulla capacità dei cittadini di essere in dissenso: in dissenso con chi detiene, pro tempore, il potere; in dissenso con la maggioranza.

La scuola, dunque, dovrebbe permettere di conoscere la realtà, ma anche offrire gli strumenti per criticarla. Non allora il luogo di formazione di chi si prepara a diventare un pezzo di ricambio per lo stato delle cose (per esempio con l’alternanza scuola-lavoro intesa come una palestra di schiavitù), ma una scuola in grado di trasmettere, accanto agli strumenti cognitivi e a quelli culturali, il pensiero critico necessario per essere cittadini. E dunque per esercitare un discernimento civico, anche in relazione al voto: la buona scuola è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è.

L’ingiustizia sociale che produce diseguaglianza è travestita da meritocrazia fin dalla scuola, che dovrebbe costruire eguaglianza e favorire la mobilità sociale e invece fa esattamente il contrario. I figli di genitori privi di titolo di studio proseguono oltre l’obbligo solo nel 44,9% dei casi, mentre per i figli di genitori laureati la percentuale è del 99,1%. Ma la selezione sociale non è finita: la metà di coloro che riescono a continuare e si iscrivono alle superiori prende ripetizioni private. Un giro d’affari da 800 milioni l’anno, per il 90% al nero: ma soprattutto un potentissimo fattore di discriminazione economica. E chi non ce la fa entra nella categoria dei Neet (Not in education employment or training) che ingoia il 25,7% dei giovani dai 15 ai 29 anni, ossia 2,3 milioni di persone. Non è una scuola per poveri, quella italiana: perché «non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza, e si limita a certificarle». Il che non vuol dire soltanto che il figlio del notaio farà il notaio e quello del contadino il contadino, ma che si riprodurranno disuguaglianze tra Nord e Sud, città e aree interne, laureati e non laureati, attraverso processi di selezione interna e di legittimazione di questo classismo. È questa scuola non fa affatto paura alla mafia: proprio oggi non possiamo non dircelo! Perché non è la scuola che prepara il mondo nuovo, come la voleva Danilo Dolci, ma una scuola che cementa il mondo vecchio.

Tutto è cominciato «quando abbiamo cercato di mostrare che un buon sistema formativo produce un ritorno economico». Fino ad arrivare a tappe forzate a un tempo – il nostro – in cui l’alternanza scuola-lavoro fornisce al mercato una gran massa di mano d’opera gratuita senza alcuna prospettiva di avere in cambio una qualche formazione: fa una certa impressione apprendere che diecimila studenti italiani vengano inviati ogni anno nei fast food di Mac Donald’s. La meritocrazia appare anche in questo senso il contrario dell’eguaglianza: perché è semmai livellamento, riduzione a uno standard produttivo, negazione di qualsiasi originalità e differenza individuale. Ha più merito chi si piega di più insomma: ecco la prima lezione che si rischia di imparare in una scuola che educa al “successo”.

In Italia lo scopo della scuola non è più quello, assegnatole già da Condorcet nel Settecento, di «diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, mescolare tra di loro le classi che tale differenza tende a separare». No, oggi è quello teorizzato dall’economista americano Kenneth Arrow: «l’istruzione superiore non aumenta né la conoscenza né la socializzazione. Al contrario, serve come dispositivo di screening, in quanto seleziona persone di diversa abilità, trasmettendo così informazioni a chi compra lavoro». La scuola della cosiddetta meritocrazia, cioè una scuola che di fatto seleziona per censo lasciando intatti i privilegi, non forma alla giustizia, ma alla legge del più forte: che è proprio quella in cui la mafia si riconosce. «Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose»: sono parole di don Lorenzo Milani; che aggiungeva: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali».

All’università le cose vanno ancora peggio, se possibile. Oggi si laurea solo il «5,3% dei figli di genitori senza titolo di studio, il 14% dei figli di genitori con la sola licenza elementare, il 45% dei figli di diplomati e l’83,6% dei figli di laureati». E «le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono una offerta formativa ai clienti». Le università pubbliche, per quanto finanziate dallo Stato, sono in concorrenza tra loro, si fanno pubblicità, si piazzano sul mercato. Avere le foto di un calciatore famoso che fa l’esame in Ateneo è il sogno proibito di ogni rettore: ma, bisogna chiederci, quanto si preoccupano tutte le università italiane del diritto allo studio, della vita fuori sede degli studenti poveri, della carriera dei docenti precari schiavizzati senza ritegno? Che posto ha la giustizia nell’università italiana di oggi? E, per dirla proprio tutta, che paura può fare alla mafia un’università sempre più devastata da fenomeni di corruzione, di potere, di concorsi truccati? Fenomeni per i quali le procure ravvisano il reato di associazione a delinquere, e i giornali parlano di “mentalità mafiosa”: perché fondata sull’appartenenza a clan accademici, perché violentemente vendicativa, fortemente gerarchica e acritica. Davvero pensiamo che questa università possa fare paura alla mafia?

Qualche anno fa, l’allora presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche disse letteralmente queste parole: «il dovere nostro è di fare andare avanti l’Italia. Quindi, di fare sinergie, mettere insieme le forze, senza pensare a principi etici». Quel professore credeva che l’Italia non sia frenata dalla corruzione, ma dalle troppe preoccupazioni etiche. Oggi dobbiamo avere il coraggio di dire il contrario. Se vogliamo che le parole di Caponnetto siano ancora vere, dobbiamo costruire una scuola e un’università che invece pensino, eccome, ai principi etici. Quelli della nostra Costituzione: l’eguaglianza sostanziale da costruire, il pieno sviluppo della persona umana come obiettivo, il rifiuto del principio d’autorità e il primato del pensiero critico.

Sogno un’università, una facoltà di economia, in cui un giovane brillante nato in una famiglia povera, emarginato dalla scuola pubblica e quindi “adottato” da un clan mafioso e avviato a una formazione da manager, da colletto bianco al servizio degli interessi criminali – sappiamo bene quante storie così esistono davvero – ebbene, un’università in cui quello studente brillante e destinato al peggio possa aprire gli occhi.

Possa imparare che il successo e il profitto non sono l’unico metro; possa imparare non solo una tecnica che lo renda competente ed esperto, ma anche un orientamento morale, e una responsabilità civile; possa incontrare professori spogli di ogni potere se non quello della conoscenza, non padroni, capi, baroni, ma servitori del bene comune. E che, allora, almeno un dubbio possa attraversargli la mente, facendogli vedere che c’è un’alternativa. Che un riscatto è possibile.

Da professore, oggi il mio impegno è questo: fare la mia parte fino in fondo per costruire una scuola e una università che facciano davvero paura alla mafia. E dunque, ripetiamo le parole di Danilo Dolci, una scuola e un’università che collaborino alla realizzazione di un mondo nuovo. Un mondo libero, e giusto.

da qui

 

 

“La pandemia è come un terremoto”: la “guerra lampo” della task force scuolaGiovanni Carosotti, Rossella Latempa

 

Proporre una riflessione sul destino della scuola italiana a partire dal rapporto finale del comitato di esperti in materia economico sociale coordinato dal prof. Colao e dal lavoro coordinato e presentato dal prof. Bianchi sulla ripartenza della scuola, pone chi scrive in una posizione d’imbarazzo, dovendo ribadire analisi e dati più volte evidenziati. D’altronde, nei documenti sopra citati, ricorrono e trovano coerenza sistemica tutte le proposte che abbiamo commentato in questi ultimi mesi, apparentemente risultati di gruppi di lavoro disparati. L’impressione più che fondata è che la politica da imporre alla scuola a causa dell’emergenza provocata dal Covid-19 fosse già decisa da tempo, e che i gruppi di lavoro nominati abbiano lavorato su indirizzi già stabiliti.

Il rapporto Colao e l’ audizione presso la Commissione Cultura alla Camera di Patrizio Bianchi fugano ogni dubbio.  Dalla loro lettura pare evidente che non si intende approntare un piano di azioni contingenti, ma piuttosto dare forma a quella definitiva riconfigurazione dell’istruzione in chiave autonomistica e localistica inseguita da decenni e mai attuata pienamente. Realizzare insomma un disegno politico di trasformazione della scuola concepito a partire da altre esigenze e con diverse finalità.

Conviene dunque ritornare su alcune questioni di contenuto e di metodo più volte espresse, sia perché gli pseudo riformatori ripetono senza alcun ritegno sempre le stesse affermazioni, garantiti dall’impunità di un sistema comunicativo che non verifica la fondatezza, né pone a confronto quanto da loro sostenuto con le numerose posizioni critiche, sia per immaginare una possibile strategia di resistenza culturale.

Eviteremo però di tornare a discutere l’infondatezza di pseudo concetti la cui illegittimità –almeno se li vogliamo considerare alla stregua di paradigmi scientifici irrinunciabili- è stata già tante volte oggetto di dibattito, in particolare la leva retorica delle competenze, che ritorna ossessivamente sia nel documento Colao che nelle affermazioni di Bianchi.  Né ci soffermeremo sullo strumentale richiamo ai risultati dei test PISA, per i quali la disparità degli esiti territoriali – problema diffuso in tutta l’area OCSE –  non è ascrivibile a sole responsabilità didattiche. Dall’analisi di tali disparità, inoltre, non è mai è scaturita –e non lo è  tanto meno adesso – alcuna pianificazione politica di interventi per quei territori in cui la scuola subisce, non genera, situazioni di effettivo disagio.

 

  1. La centralità dell’Impresa

Andiamo invece alla finalità concreta che viene prevista per la scuola italiana, in parte dissimulata ma evidente per chi è in possesso di un’adeguata capacità di lettura critica, la stessa di cui tali riformatori vorrebbero, per ragioni più che interessate, privare gli studenti delle prossime generazioni.  Il punto fermo del rapporto Colao è la centralità dell’impresa, concepita quale “motore dello sviluppo, rispetto alla quale scuola e università devono costituire il “fattore chiave”, il cardine su cui imperniare un complesso di rapporti e nessi: dal diritto all’istruzione, alla riproduzione sociale, dalla divisione di genere del lavoro, alla precarizzazione, all’idea di scuola come servizio assistenziale sostitutivo di un welfare al collasso.

A partire da quest’assunto, il rapporto disegna una cornice ideologico-culturale ben nota.  Partendo  dal presupposto che non vada “sprecata la crisi”, non mette in discussione quel modello che proprio la crisi ha sottolineato essere distruttivo (a partire dalla gestione sanitaria lombarda e dalla retorica dell’eccellenza)  ma al contrario prosegue lungo la stessa china a testa bassa, fino all’ asfissia definitiva del sistema pubblico.

Si tratta di una retorica non nuova, presente negli ultimi anni in buona parte dei diversi rapporti pubblicati dal ministero: dal Piano scuola digitale ai diversi sillabi dedicati ai vari fronti disciplinari nell’epoca delle competenze.

La strategia perseguita suona sottilmente ricattatoria: ci troviamo di fronte a una crisi economica che rischia di provocare un’enorme devastazione sociale e, se si vuole che le nuove generazioni abbiano possibilità di accesso ad un mercato del lavoro totalmente destrutturato, è necessario che il mondo dell’istruzione si pieghi alle esigenze delle imprese.
Come è facile constatare, si tratta di un’affermazione di principio non giustificata, come si è più volte argomentato in questi anni, fondata su falsi presupposti, spacciati invece per auto evidenti: in particolare il collegamento tra la precaria situazione economica del Paese e l’organizzazione scolastica, che inverte la causa con l’effetto.

Tuttavia, se l’iniziativa del privato era stata sino ad ora realizzata mediante interventi sostanzialmente indiretti o quanto meno governabili dall’impianto scolastico – pensiamo all’alternanza scuola lavoro o alla formazione docenti, alla retorica della “comunità educante” e dell’ampliamento dell’offerta formativa – qui siamo di fronte ad un decisivo salto di qualità. Le iniziative di upskilling previste dal Piano Colao – la “campagna di donazioni “Adotta una classe”; il programma di aggiornamento “Impara dai migliori”, l’organizzazione da parte di aziende e donatori delle “Gare dei talenti” – disegnano un nuovo orizzonte di partenariato pubblico privato.  Si collocano nel solco del dibattito sviluppato in questi mesi da esponenti della nota filantropia capitalistica nostrana. Quella classe dirigente imprenditoriale –  i vari Montezemolo,  Berlusconi, Brugnoli  – autoinvestitasi della sfida sociale di soccorrere il capitale umano, che occupa quotidianamente le testate dei quotidiani nazionali con iniziative come i  Telethon per la scuola, oggi rese  più accettabili dall’uso emergenziale delle piattaforme digitali.

Ma una denuncia del carattere estremisticamente ideologico del rapporto Colao non sarebbe completa se tralasciassimo un ulteriore aspetto che, anche dal punto di vista etico, lo rende a nostro avviso intollerabile: la pretesa di lavorare a favore  dell’eguaglianza di opportunità e di una reale inclusione.

 

  1. Via il gruppo classe e largo ai patti di comunità

È all’interno di questa cornice che vanno ascoltate e inquadrate anche le parole pronunciate dal prof. Bianchi, in audizione alla Commissione Cultura della Camera, il 9 Giugno scorso, in occasione della presentazione delle  “proposte per la scuola con riferimento all’emergenza sanitaria e al miglioramento del sistema di istruzione nazionale[1].

 

L’intera relazione di Bianchi si comprende appieno proprio alla luce della logica di privatizzazione. Si tratta in fondo delle consuete ricette liberiste, quei mantra manageriali  rimestati oramai da 30 anni e riproposti incredibilmente quale avanguardia di un progetto d’inclusione e di lotta alle disuguaglianze. Tali disuguaglianze non vengono analizzate o riferite a concrete situazione sociali ed economiche, ma motivate soprattutto sulla mancanza di competenze metodologiche da parte dei lavoratori della scuola. Un approccio totalmente diverso, fondato sul digitale, garantirebbe magicamente eguali condizioni d’apprendimento.

Con la consueta retorica che fa appello ai concetti di comunità e di socialità, l’indirizzo che il comitato di esperti suggerisce al governo, in perfetta continuità con lo spirito delle riforme che lo hanno preceduto, è nei fatti la totale delega, da parte dello Stato, della gestione e della regolazione dell’istruzione pubblica. Esattamente come accaduto per la Sanità, per la quale lo Stato ha progressivamente ma sostanzialmente “rinunciato ad esercitare i poteri di cui dispone” limitando di fatto “il proprio ruolo al contenimento della spesa, lasciando gli indirizzi di politica sanitaria[2] ai territori (nel caso specifico, le Regioni), così per l’istruzione siamo giunti all’atto finale di quel processo che da Berlinguer a Renzi ci porteranno alle scuole dei “patti di comunità.

Come un simile scenario possa agire su quelle disuguaglianze che pure si dichiara di voler superare, non è dato sapere. Nessuna traccia, se non pure petizioni di principio, in merito al tema cruciale del divario Nord -Sud o dei divari interni alle varie realtà e zone del paese (centri-periferie, di genere o di provenienza degli studenti, di indirizzi scolastici, etc).

Pare poi addirittura incredibile che in nome dell’immagine di “territorio educante” e del patto locale di comunità debba essere sacrificata proprio la prima comunità in cui si misura e si realizza la crescita culturale di ciascuno studente: il gruppo classe. L’idea distorta di un’ uguaglianza che si attua soltanto attraverso l’individualizzazione dei percorsi e delle proposte educative, già fondamento del documento politico dei dirigenti dell’Associazione Nazionale Presidi di recente pubblicazione, è centrale nella proposta Bianchi:

Il concetto di classe, come definizione amministrativa è superato. La classe è una microcomunità in cui potere sviluppare le diverse capacità dei ragazzi. Gruppi più piccoli permettono all’insegnante di dare supporto personalizzato che oggi è quello che si pretende e che si deve poter dare. Sta nascendo questo concetto di uguaglianza che sembra molto forte, la capacità di permettere ad ognuno di essere diverso, dunque bisogna ascoltare ognuno”.

siamo stati troppo concentrati sull’idea che la media italiana [degli spazi d’aula] era di 45 metri. Abbiamo cominciato a ragionare sugli esterni. Ma ragionare sugli esterni non vuol dire fare all’esterno la stessa cosa che facevi all’interno. Significa cambiare modello didattico [..]

Utilizziamo questa tragedia per riportare la scuola al centro di un dibattito che dica cosa deve essere insegnato ai nostri ragazzi per permettere di star bene a scuola e per avere anche quel volano fondamentale per lo sviluppo.  [..]” 

In realtà ciò che viene meno è proprio l’idea stessa di comunità, favorita in particolare dall’esperienza del gruppo classe; si propone peraltro una falsa individualizzazione, per il fatto stesso che la trasmissione didattica avverrebbe secondo modalità formalizzanti, ben sintetizzate dall’espressione «percorsi didattici progettati»[3], che chi conosce la logica delle Unità di Apprendimento sa ben decodificare. In realtà ciò che si vuole disgregare è l’autentica dinamica collettiva e cooperativa fondata sul gruppo classe, per impedire al singolo di sottrarsi al processo di condizionamento con cui si intende determinarne la soggettività, per formare personalità subordinate, plasmabili, adatte a integrarsi in un mercato del lavoro iniquo, senza peraltro avere gli strumenti per metterlo in discussione.

 

  1. Soft and collaborative problem solving skills

Venendo alle proposte concrete, ritorna nella relazione Bianchi tutta la retorica delle soft skills, mai- evidentemente – definite in modo rigoroso:

oggi quello che è indispensabile per la scuola è [..] disegnare le nuove competenze per lo sviluppo. Una volta lo sviluppo era dato da competenze lineari, gerarchiche, ripetitive. Oggi le competenze per lo sviluppo del paese sono date dalla creatività, dalla capacità di mettere insieme le persone. Quella che l’OCSE chiama le collaborative problem soving skills, su cui noi siamo [..]sotto la media. Collaborative, problem solving skills, competenze per risolvere i problemi insieme”.

L’emergenza, dunque, va collocata all’interno di una “visione lunga”, che richiederebbe una completa ristrutturazione di sistema, sintetizzabile su 2 piani, reciprocamente connessi: nuovo ruolo e formazione docenti e nuovo ruolo del territorio.

Oggi la logica dell’impresa è tutta basata sulle soft skills, cioè la vera competenza richiesta è mettere insieme persone diverse facendole operare insieme, giocare insieme, suonare insieme, lavorare insieme. Al di là della specifica competenza disciplinare.”

Sulla base di questo assunto, per “tornare ad avere l’orgoglio di essere insegnante” sarà necessario, a parere del comitato di esperti, ridisegnare la figura professionale, in particolare della scuola secondaria di secondo grado. Oltre ad una formazione con “supporto psicologico”, ad un “equipaggiamento per la gestione delle emozioni”, ad una “formazione tecnologica [..] non soltanto sulla desterity [dei nuovi strumenti] ma anche sul judgement”, occorrerà ripensare le attività quotidiane, soprattutto sulla base di due aspetti inizialmente resi necessari dal protrarsi di una situazione di emergenza, ma che a regime potranno diventare strutturali: la  “riarticolazione sul territorio” e la “rimodulazione del tempo delle lezioni”.

Proprio il binomio territorio-autonomia, che ha mostrato in questi anni tutto il suo vuoto retorico e la sua drammatica concretizzazione in disuguaglianze incolmabili, viene ancora e sorprendentemente riproposto come panacea e risposta all’emergenza.

La rimodulazione del tempo delle lezioni si deciderà. Lo deciderà il collegio, gli organi collegiali. Ma il tempo di differenza non deve essere razionalizzazione, ma ascolto dei singoli studenti, o tempo per essere più fuori, sul territorio. L’offerta didattica deve riuscire a tenere dentro anche le attività che verranno fatte con i patti educativi di comunità. [..]

Le attività di socializzazione non sono sotto-materie. La musica di insieme, lo sviluppo delle attività artistiche, la capacità di usare il computer anche per il gaming, per le attività di educazione civica vissuta nel territorio, la capacità di lavorare sullo sport che vuol dire la propria corporeità. Sono materie che già esistono ma sono materie in cui hai un’ora, due ore. Sono confinate.  Nel dibattito queste diventano invece fondamentali e sono fatte insieme col territorio..”

E ancora:

La scuola deve essere al centro del territorioil motore del territorio. [..] i patti educativi di comunità [permetteranno]  di coinvolgere il territorio nella gestione ordinaria della vita scolastica, non nelle gite scolastica. Vado nel territorio perché lì ci sono quelle materie che non solo fanno la nuova socialità, ma fanno anche le competenze del vivere in una comunità aperta, oggi troppo conflittuale e che invece deve tornare a vivere coesa.

[..]

La pandemia è come un terremoto. [Bisogna] andare verso semplificazioni formative; valorizzare tutti gli attori formativi: insegnanti, sostegno, educatori, coloro che potranno apportare esperienze, per i grandi le esperienze delle imprese..”

Se ciò che il coordinatore del comitato tecnico dice può apparire destabilizzante, lo è ancor più ciò che non dice. La recente evoluzione normativa in tema di valutazione e le spinte politiche più o meno evidenti che lavorano da decenni in questa direzione, aggiunte alle apparenti necessità di personalizzazione e superamento del concetto di classe di studenti, conducono irrimediabilmente ad una ridefinizione in chiave di certificazioni individuale della valutazione scolastica. Questo voleva l’Europa fin dai tempi del Libro Bianco di Edith Cresson (1996), questo richiamavano prima Moratti (2003) poi Checchi, Ichino e Vittadini (2008) e questo reclamano oggi l’Associazione Nazionale Presidi e le associazioni datoriali.

 

  1. Una unanimità politica desolante…

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[1] Le citazioni riportate di seguito sono trascrizioni degli interventi del prof. Bianchi e dei parlamentari partecipanti al dibattito, reperibili al link: https://www.radioradicale.it/scheda/607855/commissione-cultura-scienza-e-istruzione-della-camera-dei-deputati.

[2] M. Villone, “Lo Stato ha rinunciato alla sanità”, Repubblica Napoli, 11 Giugno 2020.

[3] Documento “Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022”, punto 78, pag. 36.

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La scuola che verrà – Antonio Vigilante

 

Gli studenti sono i grandi assenti nel dibattito pubblico sulla scuola. Parlano tutti, di scuola; anche, e soprattutto, quelli che mai hanno insegnato: psicologi, pedagogisti, politologi, politici, politicanti. Non sorprende: l’accesso al discorso pubblico è legato allo status sociale, e se gli insegnanti hanno uno status sociale basso – per cui quello che dice un docente con vent’anni di esperienza conta meno dell’ultima uscita d’un Galli della Loggia – gli studenti (e questo è uno dei problemi della nostra società) non esistono quasi, come soggetti degni di parola. Per questo non si può non accogliere con favore le 95 tesi del collettivo studentesco torinese Rinascimento Studentesco per ripensare la scuola italiana post-pandemia.

Considerare gli studenti come interlocutori validi vuol dire anche non far loro sconti. Per questo comincerò l’analisi delle loro tesi con qualche considerazione critica. Cominciando dal numero delle tesi. Comprendo la suggestione di Lutero, ma elencare 95 tesi significa mettere insieme in modo confuso quello che è importante e quello che lo è meno e soprattutto dare l’impressione che si sia aggiunta proposta a proposta, più che discutere e cercare insieme un profilo coerente, sia dal punto di vista pedagogico che dal punto di vista politico. Qualche tesi è banale, qualche altra enuncia principi astratti più che formulare proposte, qualche tesi non è nemmeno una tesi (la 59: perché non metterla alla fine?). La tesi 93 – “Intensificare i controlli su tutti i congedi di cui usufruisce il personale scolastico (malattia, malattia del bambino ecc.)” – asseconda la penosa retorica dei docenti fannulloni, ignorando che dopo la riforma Brunetta il docente nei primi dieci giorni di malattia ha lo stipendio decurtato da ogni trattamento economico accessorio.

Nell’impossibilità di discutere tutte le tesi – occorrerebbe scrivere un libro – prenderò in considerazione quelle che mi sembrano più interessanti ed urgenti. Cominciando dalla prima – “Studenti più coinvolti nelle decisioni scolastiche (più studenti nei Consigli di Istituto)” – e dalla terza: “Una scuola più democratica e luogo di dibattito (garantire il diritto di assemblea, di classe e d’istituto)”. Il fatto che queste richieste siano in cima alle 95 tesi deve far riflettere. Si tratta, in effetti, di uno dei problemi più gravi della scuola italiana: la passivizzazione degli studenti. Che rivendicano, in questo caso, il diritto di assemblea garantito dalla legge. Ma devo osservare amaramente, da docente, che il rispetto rigoroso di questo diritto – e mi sorprenderei se qualche scuola non lo rispettasse – non è affatto garanzia di democrazia: ciò che emerge dalle assemblee può essere bellamente ignorato da chi di fatto gestisce la scuola. Il punto è che lo studente non è considerato, a scuola, un interlocutore, il membro di una comunità democratica, un legittimo portatore di interessi e punti di vista, ma, a seconda delle concezioni della scuola, un paziente da curare o un cliente da soddisfare. Ed è da qui che bisognerebbe partire, secondo la mia idea di scuola. È ridicola una scuola che voglia educare alla democrazia, alla partecipazione e all’impegno sociale senza coinvolgere costantemente gli studenti nella stessa pratica scolastica. Non si tratta di rafforzare la componente studentesca negli organismi decisionali – che in realtà si stanno sempre più svuotando di senso – ma di lavorare affinché la scuola sia una comunità in dialogo, ed in dialogo principalmente su sé stessa: una comunità di docenti e studenti che ragionano su cosa vuol dire fare scuola, cultura, educazione.

Democratizzare in questo modo la scuola è anche il miglior modo di fare educazione civica. L’altro aspetto centrale per una formazione politica degli studenti è ben colto dalla tesi 19: “La scuola dev’essere luogo d’incontro e formazione tra associazioni, obiettivi e cittadini della zona”, cui si collega la tesi 58: “Introdurre a scuola la storia del volontariato in Italia e nel mondo, spronando gli studenti all’attivismo sin da piccoli, piuttosto che occupare il tempo con programmi spesso troppo lunghi”. Si può fare a dire il vero di più, e di meglio, introducendo in Italia il Service Learning, come già si sta facendo da qualche anno in alcune scuole. È una pratica che va oltre il volontariato, perché porta gli studenti a impegnarsi nella loro comunità mettendo in pratica quello che studiano in classe. Studio e impegno civile sono legati in modo organico, in un processo nel quale è essenziale il protagonismo progettuale degli studenti.

I Patti educativi di comunità, introdotti lo scorso anno, possono essere uno strumento importante per superare la chiusura della scuola al territorio e integrare la comunità educativa scolastica nella più ampia comunità cittadina. Ma mi sembra importante insistere su questo: prima di aprirsi alla comunità esterna la comunità scolastica deve costituirsi, appunto, come comunità. E non c’è comunità se non si mette in comune qualcosa. Non c’è comunità senza relazione autentica. Mi spiace non trovare nelle tesi quello che a mio avviso è il punto fondamentale: la relazione. A scuola le relazioni sono per lo più inautentiche, ipocrite, mediate dalla norma più che tese alla ricerca comune. Un conflitto viene risolto con il ricorso a un testo scritto in un registro burocratico: la nota. E anche i dirigenti, ormai manager aziendali, comunicano trincerandosi dietro un gergo giuridico-burocratico, che diffonde dall’alto una grande freddezza umana. E no, non si può fare quella cosa calda, viva, palpitante che è l’educazione, in un contesto in cui le relazioni umane sono rapporti tra superiore e subordinato (anticipazione di quello che sarà poi il mondo del lavoro).

Da docente, mi sarei aspettato una più radicale messa in discussione delle pratiche didattiche correnti. Ma la tesi 35 centra il punto: “Disposizione delle classi più inclusiva e coinvolgente possibile, allontanarsi dalla ‘retta’ per andare verso il ‘cerchio’”. Non è solo una questione di setting (che a dire il vero è tutt’altro che marginale, e condiziona fortemente il lavoro didattico ed educativo). Passare dalla unidirezionalità (dal trasmettere, direbbe Dolci) alla circolarità vuol dire andare all’essenza dell’insegnamento. Non può essere, l’insegnamento, il semplice trasferimento di contenuti culturali dall’insegnante allo studente. Se quest’ultimo dev’essere studente, e non semplicemente alunno o allievo, occorre che quei contenuti culturali siano discussi, analizzati, criticati; e cercati insieme, più che semplicemente consegnati, con l’aiuto del manuale. Da docente, so quanto è gratificante parlare per un’ora davanti a una classe ammirata dal tuo sapere. Ma non serve agli studenti. Ogni parola di troppo del docente è una parola sottratta allo studente.

Un ultimo punto sul quale mi sembra importante soffermarsi è quello della laicità. La tesi 71 afferma: “Eliminare completamente l’insegnamento della religione cattolica: la scuola deve essere laica per tutti, il credo religioso fa parte della cultura familiare e in famiglia deve restare”. Se questa tesi sembra negare qualsiasi insegnamento della religione, la tesi 55 afferma: “Essendo l’Italia, secondo la Costituzione, uno Stato laico, anche la scuola deve esserlo sia dal punto di vista teorico (insegnamento della storia delle religioni) sia dal punto di vista pratico (eliminazione dei crocifissi dalle scuole)”.

Naturalmente hanno ragione. L’insegnamento confessionale della religione cattolica è assurdo. Assurdo è che si assumano dei docenti pagati dallo Stato ma scelti dalla Curia. Scandalosa e inaccettabile è la presenza del crocifisso in aule scolastiche che accolgono ormai studenti di ogni religione. Ma c’è un problema meno vistoso, ma non meno grave, ed è la totale chiusura della nostra scuola a qualsiasi cultura che sia diversa da quella europea ed occidentale. L’insegnamento della filosofia ripercorre tutta la storia della filosofia occidentale, rifiutandosi sdegnosamente di considerare vera filosofia quella cinese o quella indiana, quello della storia è la cronaca dei diversi imperi europei con un’appendice sulla storia americana, quello della letteratura riempie lo studente di ammirazione per la grandezza dell’Iliade e dell’Eneide, evitando accuratamente di rivelargli l’esistenza del Mahabharata. E lo studente esce dalla scuola – e poi dall’Università – con la certezza incrollabile che non esista civiltà al di fuori dell’Europa. Incapace, di fatto, di comprendere un mondo globalizzato, nel quale l’Europa diventa sempre più periferia.

da qui

 

 

La scuola nella pratica confezione apri e chiudi – Maurizio Disoteo

 

Forse Draghi e i suoi ministri sono stati impressionati dalle “pratiche confezioni apri e chiudi” decantante dalla pubblicità di marche di caffè, di formaggi e di surgelati. Almeno a questo fa pensare la disinvoltura, al limite del cinismo, con cui il governo ha annunciato il provvedimento per cui al raggiungimento dei 250 casi di Covid su 100.000 abitanti le scuole passeranno automaticamente in didattica a distanza, con provvedimento però non governativo ma del presidente della Regione.

Non è stato precisato se, quando i contagi dovessero calare, le scuole potranno riprendere la modalità in presenza. E’ chiaro soltanto che un tale provvedimento rischia di creare un continuo apri e chiudi devastante per alunni, personale e per la didattica. Provvedimento annunciato tra l’altro, in una conferenza stampa dei ministri Gelmini e Speranza, senza la presenza del responsabile dell’istruzione Bianchi, forse ancora affaccendato a sognare illusori prolungamenti dell’anno scolastico, come se avessimo la garanzia che a giugno la situazione pandemica sarà sotto controllo.

Purtroppo si deve ammettere che, con l’arrivo delle nuove varianti, che sembrano colpire massicciamente i giovani, la situazione è difficile e ancora una volta il passaggio alla didattica a distanza avviene nel quadro della scelta ricattatoria tra scuola e salute. Tuttavia, se siamo arrivati a questo punto, è perché sia il governo Conte, nell’ultima parte della sua travagliata vita, sia il multicolore esecutivo Draghi hanno puntato tutto sui vaccini e nulla sulla prevenzione, totalmente ignorata.

In realtà le scuole non vivono in condizioni veramente diverse da quelle del settembre 2019, quando la pandemia non c’era, La composizione numerica delle classi non è diminuita perché non ci sono abbastanza insegnanti per farlo, gli edifici presentano lo stesso tasso di affollamento poiché si è fantasticato  – grazie alla “commissione Bianchi” – su lezioni nei cinema, nei musei e nei parchi, invece di reperire spazi realmente adatti a far scuola; il tracciamento dei casi positivi non esiste, nelle scuole non c’è alcun presidio sanitario che possa orientarne le scelte.

Insomma, al disastro si è arrivati perché non si sono voluti adottare i provvedimenti invocati dai sindacati della scuola, dal movimento degli studenti e dai genitori.

Inoltre si deve anche tenere conto che la vita dei giovani si compone di molti aspetti sociali diversi. La scuola è un luogo decisivo di aggregazione sociale e affettiva, dove però i contatti avvengono, in linea di principio, in forma regolata da norme sanitarie che gli insegnanti fanno rispettare.

La mancanza di uno spazio sociale così importante può provocare, da parte dei giovani, una maggiore ricerca di aggregazione fuori dalla scuola, dove non ci sono controlli. Una ricerca di socialità, di aggregazione, di divertimento è assolutamente comprensibile in giovani che da un anno sono soggetti a pesanti restrizioni individuali mentre per le attività “produttive” e commerciali tutto è possibile, con i danni che abbiamo tragicamente verificato.

I governi, per consentire i profitti padronali hanno rovesciato tutte le responsabilità sui comportamenti individuali dei cittadini, con scelte che non potevano che fallire. Inoltre non è realistico chiedere ai cittadini, e segnatamente a degli adolescenti, di essere rigidamente responsabili quando i poteri pubblici non lo sono.

Così i giovani da un anno trascinano una vita innaturale tra farlock-down, grottesche dichiarazioni di zone multicolore che hanno dimostrato essere solo una presa in giro e ludibrio pubblico per comportamenti non giustificabili, ma certamente comprensibili. E nel caotico delirio produttivistico, la scuola e le attività culturali sono le prime a essere penalizzate.

Peraltro, anche la scelta di affidarsi completamente ai vaccini riflette una chiara impostazione di politica economica, perché consente di continuare la produzione, che invece potrebbe essere intralciata da serie misure preventive, come un vero confinamento.

Purtroppo per il nostro governo, l’esperienza di vari altri paesi dimostra che confinamenti seri, duri, tempestivi e poco prolungati e l’attento tracciamento dei casi, portano a risultati di eradicamento del virus e a un minore stress della popolazione.

Anche l’esperienza italiana testimonia questo dato poiché nella scorsa primavera, quando almeno qualche attività economica fu sospesa, si ottennero dei risultati ben superiori a quelli di questa “seconda ondata” che continua da sei mesi e ancora peggiora tra il disagio e l’angoscia di tutti.

I provvedimenti parziali adottati in Italia, ormai troppo prolungati, affaticano psicologicamente i cittadini, favoriscono comportamenti irresponsabili e infine, dal punto di vista sanitario, provocano l’endemizzazione del virus e il proliferare di nuove varianti che potrebbero anche dimostrarsi resistenti ai vaccini.

Infine, non sono probabilmente nemmeno positivi per l’economia, nonostante le stupide e testarde insistenze della Confindustria per tenere aperto tutto, a cui Draghi è evidentemente molto sensibile.

A livello più generale, delegare ancora una volta alle regioni le chiusure delle scuole, potrebbe condurre a possibili decisioni poco responsabili da parte delle stesse. I contagi si trovano se si vanno a cercare, e basarsi solo su un calcolo puramente quantitativo, cioè il rapporto 250/100.000 potrebbe suggerire a qualcuno di praticare meno tamponi per non raggiungere tale limite. Purtroppo situazioni poco chiare sul conteggio dei casi si sono già verificate.

Peraltro, sul senso di responsabilità e sull’efficienza decisionale delle regioni è legittimo nutrire più di un dubbio, se per esempio si pensa alla Lombardia, che proprio in relazione al tema scuola, non solo non fa prevenzione, ma non ha nemmeno ancora avviato le vaccinazioni degli insegnanti.

Pensiamo anche alla Puglia, dove il presidente Emiliano ha inventato la scuola “à la carte”, scaricando sui singoli genitori la responsabilità di decidere se mandare a scuola i figli o tenerli a casa, abdicando al ruolo – che gli competerebbe – di tutela della salute pubblica e di orientamento sanitario e civile. O al rapsodico De Luca, che un giorno vuole aprire tutto e il giorno dopo chiudere più di tutto.

Ma si potrebbe continuare con molti esempi da altre regioni. Quello che è certo è così non si va lontano.

da qui

 

 

Non è mai troppo tardi per la didattica a distanza – Marco Ambra

 

Un diario della didattica a distanza in quarantena.

 

Viviamo strani giorni, costellati di immagini inquietanti per il nostro opulento, narcisistico microcosmo, camion carichi di cadaveri, fosse comuni nel cuore della città simbolo del capitalismo finanziario, scene di isteria collettiva come gli assalti agli scaffali dei supermercati. Quindi, ragionare di processi di apprendimento e insegnamento a distanza, e delle metodologie necessarie per metterli in atto diventa un esercizio di importanza relativa e di senso limitato. Relativa a quella che è diventata l’esperienza quotidiana di migliaia di persone (alunni, studenti, insegnanti) costrette a riorganizzare la routine tra le mura domestiche, e limitata al senso di ciò che in questo Paese definiamo con un’abusata metonimia giornalistica “scuola”, ma che più propriamente dovremmo chiamare diritto all’istruzione.

In queste settimane di quarantena e di sospensione dell’attività didattica ordinaria la cosiddetta “didattica a distanza” (DAD) è diventata la categoria ministeriale all’interno della quale vengono sintetizzate istanze, pratiche e bisogni eterogenei che variano a seconda dell’ordine e del grado di istruzione, e all’interno di ciascun grado degli indirizzi, ma che riflette, soprattutto, il modo in cui le disparità territoriali (economiche, sociali, infrastrutturali) si riverberano sul funzionamento delle istituzioni scolastiche o universitarie.  Una riflessione sostanziale e articolata sulla didattica a distanza richiederebbe quindi la capacità di pensare una tale complessità, di argomentare un multiverso di elementi contraddittori e dati statistici rilevati da questo enorme esperimento, e che peraltro al momento non abbiamo.

Di fronte a questo livello di complessità è utile quindi spogliarsi preliminarmente dei vestiti ingannatori dell’universale per argomentare a partire dalle pratiche, dalle modalità con cui, chi scrive, ha affrontato la contingenza. In queste settimane sono stato occupato dal tentativo di tenere vive le relazioni con quattro classi liceali (indirizzi e anni differenti) in ognuna delle quali insegno due discipline erroneamente credute, da una tradizione accademica di antica gloria, gemelle: storia e filosofia. Le mie riflessioni nascono a partire da quello che credo di aver imparato, quindi, come in ogni esperienza di apprendimento, sono piene di errori ed elementi discutibili. Provo ad articolarli in brevi paragrafi, piccole rapsodie senza alcuna pretesa di analisi sociologica, addensate da domande per le quali non ho risposte definitive e a partire dalle quali abbozzo qualche riflessione di carattere più generale. Sono consapevole che questa affermazione contraddice l’esordio, ma per certi versi non posso farne a meno, è la mia deformazione professionale di studioso di filosofia.

 

Distanza  

In quella meravigliosa raccolta di saggi sulla relazione tra conoscenza e distanza con il titolo collodiano di Occhiacci di legno, Carlo Ginzburg sostiene che «tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa o a qualcuno». Lo straniamento, l’azione in alcuni casi subìta da chi prende le distanze dalla realtà circostante per riuscire a parlarne in modo veritiero, è un tópos ricorrente in miti e leggende di svariate culture. Wittgenstein, che di Ginzburg è fonte d’ispirazione fin dai tempi di Storia notturna, paragona i filosofi a bambini che «prima scarabocchiano con la matita linee arbitrarie sulla carta e poi domandano agli adulti: “Che cos’è?”» [The Big Typescript, XII, 11; tr. it. p. 427]. Prendere le distanze è una tecnica che ci aiuta a porre le domande giuste per conoscere qualcosa o qualcuno.

In queste settimane ho fatto questa esperienza di straniamento rispetto alle persone con le quali in questi mesi, con alcune in questi anni, ho costruito relazioni fatte anche di linguaggi non verbali, di posture, gesti, sguardi. Per la prima volta mi trovo a insegnare prescindendo da tutto questo tacito impensato della mia quotidianità. Non che non mi sia mai chiesto perché e come ogni mattina quel ragazzo o quella ragazza fossero entrati in relazione con me, attraverso l’ascolto attivo, la partecipazione alle attività didattiche, le verifiche: chi mastica un po’ di scuola sa bene che la motivazione nell’apprendimento è tutto. Ma adesso, estraniato da quel grande distrattore che è l’aula scolastica, dalla disposizione spaziale dei banchi, della cattedra, della lavagna multimediale e di quella di ardesia, mi trovo a riflettere su quali aspetti della comunicazione, e più in generale della mediazione didattica, devo lavorare per arrivare a tutti in maniera personalizzata, intercettando i bisogni di persone che non ho sotto la disponibilità dei miei occhi, la sensibilità delle mie antenne di fastidioso grillo parlante. È un compito arduo che, almeno a me, richiederà tanto tempo e una generosa possibilità di commettere errori.

Prima di tutto perché il dialogo, la pratica essenziale alla base delle discipline che sono chiamato ad insegnare, è impossibile. Il confronto verbale fatto di domanda e risposta alla base del dialogo è uno strumento per colmare la distanza tra le persone che vi prendono parte. È una pratica che richiede quindi distanza ma anche prossimità, capacità di porre le domande ma anche abilità nell’intercettare lo spazio scavato dalle domande con un discorso di risposta, un intervento. È una pratica verbale che poggia sulla presenza e richiede dei tempi precisi, delle tacite intese, la percezione del significato di un silenzio, di una pausa così come della prossemica di chi prende la parola.

Finora, tra video-lezioni in cui registro il mio desktop/lavagna, questionari di comprensione delle video-lezioni e lavoro in simultanea sui testi (comprensione, analisi di fonti o di brani antologici) nel corso di una videochiamata (via Google Hangouts Meet) ho provato a dare una risposta a queste due domande. Spesso mi trovo a dovermi immaginare i loro visi mentre commento la lettura del testo che ho fissato sullo schermo, le loro reazioni impercettibili. A volte mi blocco e provo a stimolarli, li invito a prendere la parola. Prima che ciò avvenga c’è sempre una quiete anomala, come se tante auto ferme ad un incrocio litigassero per chi deve avere la precedenza. Altre volte invece le voci si accavallano, lo stallo alla messicana si trasforma in un bel tamponamento multiplo e devo intervenire a ristabilire un ordine di intervento. In questi casi mi sento un amministratore ad una rissosa riunione di condominio.

Ho la sensazione che il dialogo, così come lo abbiamo praticato finora, non sia surrogabile e che in qualche modo tutti, anche coloro i quali in classe tendevano a sottrarsi, ne avvertano la mancanza. In fondo il bisogno di vedersi e ascoltarsi in videochiamata, anche in orari tradizionalmente non scolastici, credo sia il modo dei ragazzi di comunicare la loro nostalgia per il dialogo. Leggete i post sui social o le testimonianze degli insegnanti, in particolare della scuola secondaria: il filo diretto con i ragazzi si protrae spesso per l’intero arco della giornata, alcuni di loro danno l’impressione di non voler mai interrompere il contatto. Le ore del giorno, a volte, non sono sufficienti per rispondere a tutti, correggere e inviare le correzioni dei compiti, produrre e condividere nuovo materiale, passare la mattina in videochiamata. E posso solo immaginare quali siano le difficoltà dei colleghi che insegnano discipline tecnico-pratiche negli istituti tecnici e professionali: in quel caso la distanza, senza la possibilità di esperienze laboratoriali dirette, diventa abisso.

 Come conciliare didattica a distanza e dialogo formativo? È possibile trovare una forma del dialogo che tenga conto della non simultaneità delle interazioni o in qualche modo siamo chiamati a ripensarne gli aspetti essenziali? Forse, in questa contingenza, sarebbe più sensato rimodulare il gruppo classe e agevolare la pratica del dialogo, almeno inizialmente, in gruppi più ristretti?

Ecco, la prima cosa che penso di aver imparato: la ricerca del dialogo è la telemachia della quarantena degli adolescenti. Dovrò tenerne conto e agevolare la navigazione di questi “guerrieri lontani” (tale è il significato di Telemaco), essere per loro più Nestore, prodigo di consigli e racconti sul padre lontano che Laerte, incapace di adattarsi all’assenza di Ulisse.

Mediazione

  Nella prima settimana di sospensione dell’attività didattica confesso di essere stato preso dall’ansia di colmare il vuoto. Pensavo alle due classi terminali in cui mi trovo a lavorare, al modo in cui avrebbero dovuto affrontare l’esame, un obiettivo di cui, ad inizio marzo, non si intravedeva neanche la sagoma. Così ho inizialmente registrato delle videolezioni e assegnato loro delle letture: il collegio dei docenti non si era ancora riunito, non avevamo ancora autorizzato l’uso di una piattaforma per la didattica a distanza comune e ci siamo arrangiati con un modesto sito generato da Google. Dopo pochi giorni mi sono accorto che stavo sprofondando nel peggiore dei gironi infernali: avevo abdicato a stimolare ogni forma di partecipazione attiva dei ragazzi, se non nella ricezione del materiale che condividevo con loro, e mi stavo limitando a trasmettere contenuti, in quello che nel senso comune è il peggiore degli stili liceali/accademici. Mi sentivo tentato a proseguire su questa strada dalla grande abbondanza di contenuti sugli aspetti, anche i più capillari, della mia programmazione reperibili sul web: quale insegnante di storia non ha utilizzato in questi giorni i video di qualche abile divulgatore, come Alessandro Barbero, o qualche bel documentario delle Teche Rai?

Pensavo, sbagliandomi di grosso, che sarebbe stato sufficiente costruire un percorso all’interno di contenuti accuratamente selezionati per guidarli, a distanza, nello studio. E invece mi sono accorto di averli spesso lanciati in un ecosistema comunicativo caratterizzato da granularità e frammentazione, senza aver prima allenato la loro capacità di riconoscere e codificare questi frammenti all’interno di operazioni di costruzione di senso più ampie (periodizzazioni, collegamenti multidisciplinari, compiti di comprensione e analisi di una fonte opportunamente selezionata). Come ha notato Gino Roncaglia in un libro che ritengo fondamentale per comprendere il ruolo dell’istruzione in questo tempo, L’età della frammentazione «I nostri studenti sono molto bravi – molto più delle generazioni precedenti nell’integrare comunicazioni testuali, visive e sonore e nel muoversi da un’informazione all’altra. E sono molto bravi a interagire velocemente con l’informazione ricevuta. Sono decisamente meno bravi nel reperire, produrre, valutare, gestire informazione complessa e strutturata» [p. 40]. Nelle prossime settimane proverò ad essere più un antidoto alla granularità dei contenuti che il web mette loro a disposizione che un pusher di frammenti di conoscenza. Ho altresì scoperto che quando impegno le mie energie a guidarli nella ricostruzione di scenari più ampi in cui inserire le informazioni frammentarie, anziché produrre, reperire e spacciare contenuti, mi trovo felicemente invischiato in quell’approccio multidisciplinare che i documenti ministeriali evocano, come un arconte gnostico, da decenni.

In secondo luogo bisognerebbe riflettere sul fatto che il video, la costruzione di un percorso di apprendimento con informazioni che passano principalmente dal canale visivo, sia in questo momento il perno intorno a cui ruota la didattica a distanza afferente ad ogni ordine e grado di scuola. Non tanto da una prospettiva apocalittica, visto che nella sciagura la relazione mediata dagli schermi è l’unico strumento che abbiamo a disposizione. Esiste peraltro una letteratura critica ma equilibrata sull’argomento (penso ad esempio alle varie cose scritte da Roberto Casati negli ultimi dieci anni) che ci aiuta a capire come lo schermo diventa un pericolo per lo sviluppo cognitivo solo se non è un pasto in una dieta sensoriale ben bilanciata, che include quindi anche altre attività oltre alla passività della visione pixellata. Credo piuttosto che per noi insegnanti sia arrivato il momento di aprirci ad una formazione più ampia sulle interazioni tra ragazzi ed ecosistema digitale, che tenga conto delle neuroscienze cognitive e del dibattito epistemologico che le accompagna. Riguardo al rapporto con gli schermi penso, ad esempio, alle ricerche di Semir Zeki sulle modalità di funzionamento del cervello visivo e all’applicazione che queste hanno trovato in ambito pedagogico e didattico.

Forse più che investire denaro e fatiche in noiosissimi webinar sull’uso di questa o quell’applicazione, foraggiando spesso chi sulla didattica a distanza sta facendo dell’ignobile sciacallaggio, è il caso di chiedere alle istituzioni scolastiche una formazione rigorosamente scientifica centrata sulle modalità di funzionamento del cervello in apprendimento in una contingenza limite come quella che stiamo vivendo. Se forse queste sono osservazioni scontate per chi insegna alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria, qualche predella, in un qualche glorioso liceo, potrebbe forse essere illuminata dalla scoperta dell’importanza che l’adattamento percettivo gioca nel funzionamento della memoria, per scoprire così che non esiste alcun apprendimento significativo che si realizzi imponendo a venti persone, addensate in pochi metri quadri, la disciplina all’astrazione senza concreto, del pensiero come meccanica acefala della riproduzione di contenuti. È giusto sperare, non è mai troppo tardi.

 

Parti uguali fra diversi

   La settimana scorsa, mentre con una videochiamata stavamo correggendo un questionario su una videolezione, il collegamento di un paio di ragazzi è saltato. Li ho videochiamati su whatsapp e a quel punto siamo andati avanti su due schermi. Due giorni fa, durante una lezione di approfondimento, una ragazza mi ha dovuto salutare perché doveva cedere il computer a uno dei genitori, che doveva lavorare. La maggior parte dei miei alunni condivide i device con fratelli e sorelle che frequentano altri ordini e gradi di scuola. Aggiungo che la mia scuola si trova su una piccola isola tirrenica e che nelle aree interne la potenza del segnale di rete è praticamente inesistente. Molti ragazzi rimangono agganciati al treno della didattica a distanza con connessioni di fortuna, chiavette con schede sim ricaricabili e smartphone. E potrei andare avanti.

Questo primo mese ha messo a nudo una questione costantemente rimossa in qualunque dibattito politico sulla qualità dell’istruzione: le disuguaglianze sociali, economiche, territoriali sono un fattore determinante tanto per il livello di dispersione scolastica del nostro sistema, altissimo per un paese ad economia avanzata, quanto per quello di successo. E non si tratta solamente del digital divide registrato dall’ISTAT il 6 aprile. In tante case mancano tecnologie ancora più essenziali per il successo scolastico: i libri. Ma soprattutto mancano i lettori, impegnati a sopravvivere e a tenersi stretti lavori volatili e mal retribuiti. Obnubilati dalla vacua retorica dell’eccellenza e da tutto lo sciocchezzaio lessicale del marketing postfordista dimentichiamo che l’apprendimento e l’insegnamento sono attività che si svolgono all’interno di contesti più o meno ricchi, più o meno poveri, più o meno periferici.

 È la questione delle questioni, che sento nello stomaco ogni mattina, quando saluto guardando la webcam del mio portatile. Se non la affrontiamo immediatamente, con azioni di riduzione delle disuguaglianze rispetto alle possibilità di accesso al diritto all’istruzione, e con azioni di ammodernamento infrastrutturale, quando il placarsi della pandemia lo permetterà, della didattica a distanza, e delle utili riflessioni che ha stimolato non rimarrà che l’ennesima foglia di fico ideologica da sistemare sull’alberello della scuola pubblica.

da qui

 

 

Quali esperti per la scuola? – Giovanna Lo Presti

 

Dopo Azzolina, Patrizio Bianchi

L’attuale ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, guidava la task force nominata dalla precedente ministra Azzolina per organizzare la riapertura della scuola di settembre 2020. Presi come si era dall’onda montante della pandemia, a molti sarà sfuggita la qualità dell’opera della suddetta task force. I 18 esperti che la componevano erano divisi in due sottocommissioni: la prima, chiamata Operation e destinata a lavorare sui tempi brevi; la seconda, denominata Vision, con il compito di studiare e programmare interventi sui tempi lunghi. L’architetto Ceppi, uno dei membri, così rispondeva alla scabrosa domanda «cosa si farà nell’immediato?»: «Ci sono tanti aspetti da tenere in considerazione […] in questo momento la priorità è di natura biologica e logistica. Tra i temi che stiamo considerando c’è quello della verifica dell’impianto del ricambio dell’aria, della tenuta dei serramenti e poi l’adeguamento dei bagni, presidi sanitari più accessibili ed efficienti. Poi c’è il tema del distanziamento». Adesso, almeno sul ricambio d’aria, sappiamo com’è andata a finire: non se n’è fatto nulla. Così come non si è nemmeno reso pubblico il lavoro dei 18 esperti: il documento da loro prodotto dorme in qualche cassetto ministeriale.

 

Task force ed esperti di troppo

Vista la precedente frustrante esperienza – e divenuto a sua volta ministro – Bianchi ci riprova e nomina anche lui una task force di esperti. Sugli “esperti” la nostra idea coincide con quella che Ivan Illich ha espresso nel saggio Esperti di troppo, e cioè che il nostro è il tempo delle “professioni disabilitanti”, quelle che tolgono autonomia agli individui e si insinuano, creando nuovi bisogni, laddove ciascuno saprebbe fare la stessa cosa da sé. Da quanti sedicenti “esperti” è stata afflitta la scuola negli ultimi decenni! Con ciò non vogliamo togliere credito né ai componenti della task force nominata da Azzolina né a quelli nominati da Bianchi.

Ci limitiamo a un’osservazione: a capo della nuova task force è stato scelto Giovanni Biondi, dal 2013 presidente dell’Indire (Istituto nazionale di documentazione innovazione e ricerca educativa). Di Giovanni Biondi ricordiamo il coinvolgimento nel caso delle “pillole del sapere”, brevi video didattici realizzati per le scuole (della durata di quattro minuti; insegnavano cose utilissime, ad esempio a star fermi al semaforo rosso e a passare con il semaforo verde) e pagati 39 mila euro ciascuno, per un totale 769 mila e passa euro. La vicenda, che si svolge tra il 2010 e il 2012, diviene nota attraverso un servizio della trasmissione Report e tre funzionari ministeriali, tra cui il “nostro” Biondi, finiscono sotto inchiesta. I video erano stati realizzati dal consorzio Alphabet, il cui azionista di maggioranza, col 70% del capitale, era la società Interattiva di Ilaria Sbressa, moglie del direttore delle relazioni istituzionali di Mediaset Andrea Ambrogetti (braccio destro di Fedele Confalonieri), finiti poi “nelle maglie della giustizia” per l’inchiesta milanese sulla bancarotta da tre milioni della loro società, nonché per ipotesi di turbativa d’asta e tentata truffa allo Stato su 5,1 milioni stanziati dal Ministero dell’Istruzione (all’epoca guidato da Mariastella Gelmini, la tagliatrice seriale di risorse per la scuola). Secondo una denuncia degli stessi dipendenti della società che li aveva realizzati, i filmati vennero realizzati con un costo di mille euro l’uno, ma il Miur li pagò 39 volte tanto. L’inchiesta giudiziaria che coinvolse i tre funzionari (tra cui Biondi) si concluse con un non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato per tutti gli imputati. La cosa, peraltro, non finì lì, perché Biondi, nel 2016, insieme con gli altri funzionari venne condannato dalla Corte dei Conti a un pesante risarcimento (cfr. https://www.corteconti.it/Download?id=40486c1f-1da7-4a61-ae11-212e16fb84f1). Dalla sentenza si evince che, nonostante il non luogo a procedere, anche nel giudizio penale si andò sul pesante: «Siamo in presenza di una visione della didattica e della funzione scolastica che […] tradisce approssimazione e superficialità»; le pillole vennero definite «un progetto didattico certamente opinabile, fors’anche erroneo». In ogni caso la Corte dei Conti concluse che «al Biondi deve essere […] riconosciuta assoluta preminenza (quale presidente e deus ex machina del “Tavolo di lavoro”) nell’approvazione (in data 02.02.2012) di una proposta già formulata per iscritto dall’Ansas […] con riferimento all’acquisto specifico delle “Pillole del sapere”, senza che venisse esplorata nessun’altra alternativa tecnica» e che «al Biondi deve essere addebitato il danno nella misura di 35.000 euro». A suo modo, la lettura della sentenza è istruttiva e ci insegna come si fa carriera in Italia. Dopo la brutta vicenda delle “pillole del sapere”, nel 2013 Biondi viene nominato presidente dell’Indire, carica che ricopre tutt’oggi. E adesso il ministro Bianchi lo mette a capo di una nuova e brillante task force.

 

Il “governo dei migliori”

Il “governo di alto profilo” si conferma come “governo dei migliori”: abbiamo come ministro della Pubblica Amministrazione colui che lanciò una vergognosa crociata contro lo “statale fannullone”, come ministro per gli affari regionali colei che andò sino in Calabria, usando più di un escamotage, per ottenere l’abilitazione all’avvocatura (a Brescia bocciavano tutti!); lo stesso premier, per cui si sono alzati cori unanimi di lode, copia stralci del suo discorso inaugurale dall’amico Giavazzi (senza citarlo) e rispetta con uno scrupolo mai visto il manuale Cencelli (https://volerelaluna.it/commenti/2021/02/28/caveau-e-pollaio-la-mediocrazia-funzionale-di-mario-draghi/). E ora vediamo che persino le task force ripropongono personaggi che, in un Paese davvero migliore, dovrebbero rimanere a casa loro.

Un approccio semplificatorio e riduttivo

Sparito, per ora, lo spauracchio delle lezioni prolungate in estate, troppo pericolose per la popolarità di un neo-ministro, Bianchi propone la “didattica leggera”: laboratori di scrittura e lettura, coding e lezioni all’aperto. Scuola per scuola si valuterà cosa fare; i fondi a bilancio attualmente sono 250 milioni, tra legge 440 (in supporto all’autonomia scolastica) e Fondi Pon. Per ora non c’è un documento da commentare. Ci limitiamo a valutare la dichiarazione di Giovanni Biondi: «In primavera dobbiamo innalzare subito la Didattica online, ed è possibile, in estate costruire un nuovo tipo di insegnamento. Entrambe le cose resteranno per settembre e consentiranno agli studenti di recuperare senza pesi, che in questo momento non sono in grado di portare». Continua con il piano per l’estate: «lezioni all’aperto, raccordi con il Terzo settore. Coding e informatica, così difficile da impartire via computer. Laboratori di scrittura e di lettura, collaborazioni tra studenti per far crescere le lingue».

Biondi ci riprova. Ad uno come lui, che ha provocato un danno erariale allo Stato, bisognerebbe impedire di coinvolgere chiunque, tanto meno il discusso “terzo settore”. Visto che abbiamo poche risorse economiche per la scuola pubblica, perché foraggiare qualcun altro? E, poi, Biondi conferma l’approccio semplificatorio e riduttivo all’insegnamento già dimostrata con la “pillola” sul colore dei semafori: agli insegnanti bisogna offrire «la galleria di idee che già sono state applicate in scuole innovative» e Leopardi va spiegato stimolando «gruppi di ragazzi alla costruzione di una propria antologia e a un’autovalutazione»… Date il coding ai ragazzi e capiranno la difficile informatica (girano in Rete esempi di coding per bambini che fanno prudere le mani, tanto sono stupidi). Tutta questa opera di recupero e integrazione verrà affidata, l’abbiamo letto, alle singole scuole: ma a partire da queste “idee” il disastro è assicurato.

da qui

 

 

scrive Alessandro Baricco

 

Pensate alla Scuola (sì, mi piace scriverlo con la S maiuscola).
Perché alla fine una mostruosità come chiudere tutte le Scuole di ogni ordine e grado può apparire perfino sensata? Perché la Scuola (figlia integralmente dell’intelligenza novecentesca) è un sistema immaginato per presidiare stabilmente la realtà, e non è stato costruito per avere una certa flessibilità. È un sistema muscolare, non adattativo. Se il mondo intorno cambia drasticamente, lui non ha modo di reagire: la cosa più sensata è chiudersi a riccio. Si è anche provato, scossi dalla Pandemia, a chiedergli un po’ di elasticità, con proposte quasi commoventi, nella loro modestia: entrare scaglionati a diversi orari, prolungare l’anno scolastico fino a fine giugno, cose così. Ma come si è visto, il sistema non era in grado di sopportare neppure delle oscillazioni così ridicole. Il fatto che siano sembrate ostacoli insormontabili, dà un’idea del grado di agonia strutturale in cui il mondo della Scuola è scivolato. Cemento armato, ponte Morandi – siamo in quella zona lì. L’unica oscillazione che si è concesso il sistema-scuola è la DAD. Ma è istruttivo notare come non si sia immaginato nient’altro che versare meccanicamente le stesse cose che si facevano in aula dentro il contenitore dei device digitali. Non un orario cambiato, non un programma cambiato, solo la cieca ostinazione nel cercare gli stessi risultati con una tecnica completamente inadatta a ottenerli. Solo sistemi fondati su una sorta di eroica forza ottusa possono pensare di trasportare in DAD le ore di educazione fisica senza neanche pensarci un attimo. Lo vedete il cemento armato? Dietro a simili rigidità lavorano scelte che vengono da lontano e che sarebbe stupido scambiare per una forma di stupidità. Sono, al contrario, una forma di intelligenza, solo diventata inattuale. La stessa, purtroppo, che la Scuola contribuisce a riprodurre, in una coazione a ripetere che stiamo pagando carissima. Se pensate a cosa insegniamo, a Scuola, e al modo con cui lo facciamo, riconoscete facilmente quello stesso culto della permanenza, del muscolare, del cemento armato che abbiamo visto arrendersi alla Pandemia. È l’intelligenza novecentesca che continua a partorire se stessa. Lo fa perpetuando l’idea, tutta sua, che conoscere la realtà significhi riportarla a un ordine e a una stabilità esenti da caos. A una catalogazione che non lascia scampo. A un’immobilità controllabile. La Scuola sta ancora lì a cercare di produrre giovani capaci di fare quel gesto. Se prendete due materie totem come matematica e latino, in qualche modo riassuntive dei due rami portanti della formazione delle élites, vi riconoscerete perfettamente il training che si immagina ideale per formare le nuove classi dirigenti: esercitarle a capire come funzionano porzioni di realtà che sono state sottratte a qualsiasi divenire, che sono compiute in sé, eternamente stabili e completamente impermeabili a varianti soggettive e oggettive. Sono, tutt’e due, discipline sublimi che ad altissimo livello diventano gesti di pura visione e libertà, ma ai livelli in cui le si può approcciare in un normale corso di studi sono nient’altro che un’educazione all’inevitabile, al già scritto, all’immobile. L’espressione lingua morta rende bene l’idea. Così educhiamo i giovani a una situazione che poi, nella vita vera, quasi non si dà: gestire una realtà che resta ferma. Risolvere problemi che non cambiano regole. Trovare significati che sopravvivono inalterati a generazioni di umani completamente differenti. Lo vedete il culto della permanenza, l’ambizione a fermare il mondo, il bisogno di fermezza? Lo riconoscete il ponte Morandi? Quando invece un’intelligenza non novecentesca saprebbe che educare significa proprio preparare all’instabilità. Che il sapere è riservato a intelligenze sufficientemente leggere e veloci da riallineare le regole note all’ignoto del reale che cambia. Che la conoscenza è un gesto sempre instabile, e morbido, coincide con l’arte dell’adattamento, e alla fine è riassumibile nella capacità animale e intuitiva di vedere figure provvisorie dove disponiamo solo di frammenti, che per di più non stanno fermi. Per un’intelligenza del genere la flessibilità dei sistemi educativi non sarebbe un trucco astuto per sopravvivere nei giorni di tempesta, ma la regola per avere un senso nei giorni di bel tempo. Non c’entra il bisogno di reagire bene alla Pandemia. Prima di qualsiasi emergenza, un sistema educativo dev’essere flessibile, o non è niente. Dev’essere capace di adattarsi con una certa velocità alle mutazioni del reale, o non è niente. La flessibilità non dovrebbe nemmeno essere una sua caratteristica, ma più radicalmente la sua tecnica costruttiva. Dovete immaginare la cosa con tutta la radicalità di cui siete capaci. La vera flessibilità non lavorerebbe mai con materiali rigidi come la classe, le materie, il professore di una materia, l’ora di scuola, i programmi ministeriali, i libri di scuola. Se vogliamo dirla tutta, non perderebbe nemmeno tempo a pensare che una gigantesca Scuola pubblica, identica ovunque, possa essere una buona idea da cui partire.E comunque. Dicevo della Scuola per fare un esempio. Ma potete pensare ai teatri, o alla sanità, o al fisco. Diciamo che la Scuola scotta particolarmente perché durante la Pandemia è stata una disfatta. Ma il punto da tenere a mente è comunque: sistemi troppo stabili, incapaci di flessibilità. Quindi sistemi non adatti a impattare bene con qualsiasi emergenza e soprattutto a scaricare a terra una vera energia nei giorni normali. Se ne può uscire? Sì, se ne potrebbe uscire, ma purtroppo non ci affidiamo alle intelligenze capaci di farlo. E qui si passa al punto due: il culto ostinato del sapere specializzato.

da qui

 

 

Pandemia, ricerca e miopia – Lucio Russo

 

Anche per il vivace dibattito che ha innescato in vari forum di discussione, riprendiamo nella nostra rubrica “Opinioni” il contributo di Lucio Russo* sulle cause che, secondo l’Autore, hanno determinato il ritardo che la politica della ricerca applicata italiana ha storicamente accumulato, oggi che questo ritardo riceve nuova evidenziazione dalle difficoltà nelle quali si dibatte il nostro Paese nell’affrontare la questione vaccinale, difettando della tecnologia e delle competenze che avrebbero potuto mettere in condizione l’industria farmaceutica italiana di reagire prontamente alla sfida posta dal COVID-19

 

Nel 1963 Giuseppe Saragat dette il via a una feroce campagna di stampa contro Felice Ippolito che, dirigendo il CNEN, aveva osato spendere danaro pubblico nella ricerca nucleare, portando l’Italia a livelli competitivi in questo settore. L’11 agosto di quell’anno, in un articolo sul “Corriere della Sera”, Saragat si chiedeva: “perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini da spendere?”

È ben noto che Saragat vinse su tutta la linea: Ippolito fu processato e condannato a 11 anni di carcere per reati risibili (dalla concussione per avere un giorno accompagnato il figlio a scuola con l’auto del CNEN al versamento allo stato di una grossa somma senza avere ottenuto preventivamente la prescritta autorizzazione) e la ricerca nucleare applicata italiana fu azzerata [1].

Parallelamente al processo Ippolito fu celebrato il processo contro Domenico Marotta, che aveva diretto l’Istituto Superiore di Sanità portandolo a livelli mai più raggiunti (si può darne un’idea ricordando che nel 1947 il biochimico svizzero Daniel Bovet lasciò la direzione dell’Istituto Pasteur di Parigi per venire a lavorare a Roma presso l’ISS, dove svolse le ricerche che nel 1957 gli avrebbero fruttato il premio Nobel, e nel 1948 lo raggiunse il biochimico tedesco naturalizzato britannico Ernst Boris Chain, che il premio Nobel l’aveva già ricevuto).

Non voglio qui cercare le cause profonde di quell’attacco vincente alla ricerca applicata italiana, di cui paghiamo ancora le conseguenze (l’ho fatto altrove); qui mi limito a sottolineare l’argomento che Saragat riteneva fosse condivisibile dal pubblico: perché spendere danaro per fare ricerca invece di usufruire gratis della ricerca altrui? Rinunciare alla ricerca porta un vantaggio immediato, il risparmio del danaro, e Saragat confidava che agli occhi dei suoi lettori le conseguenze del taglio degli investimenti nella ricerca (tra le quali vi sarebbero stati l’abbandono della produzione in settori di tecnologia avanzata, con la conseguente perdita di PIL e di posti di lavoro, il disastro idrogeologico,  l’abbassamento della qualità dei servizi, la perdita di peso strategico dell’Italia a livello internazionale e così via) fossero ritenute trascurabili perché non immediate: confidava cioè nella miopia del cittadino italiano medio.

Qualche giorno fa, in uno dei tanti dibattiti televisivi sulla pandemia, la conduttrice del programma ha chiesto all’esperto di turno: cosa conviene fare? Produrre in Italia vaccini su licenza di case farmaceutiche straniere o sviluppare vaccini nostri? La risposta è stata: “evidentemente conviene la scelta che porta più rapidamente al risultato, ossia produrre su licenza”. Il celebre virologo Roberto Burioni in un’altra occasione ha sostenuto che supportare finanziariamente lo sviluppo di un vaccino italiano “è una follia”. Saragat aveva evidentemente visto bene pensando che la miopia fosse un nostro carattere nazionale diffuso.

È in effetti molto facile vedere cosa si guadagna, almeno in teoria, con scelte di questo tipo, ma quello che si perde è solo un po’ meno evidente e al contempo ancora più importante. Naturalmente è importante, durante un’emergenza, attivarsi per ottenere in tempi rapidi e in quantità sufficiente vaccini già esistenti. Occorre tuttavia anche tenere presente che finanziare simultaneamente la ricerca, soprattutto in un campo chiaramente applicativo come quello dello sviluppo dei vaccini, ha ricadute sia dirette che indirette sul mantenimento e lo sviluppo di competenze scientifico-tecnologiche di alto livello nel paese: un bene che non è facile far fruttare nel prossimo sondaggio elettorale, ma che inciderà senza dubbio sulla qualità della vita dei prossimi decenni.

La scelta sostenuta dagli esperti di cui sopra, peraltro, esclude implicitamente la possibilità di seguire le due strade in parallelo, e ha come conseguenza la rinuncia probabilmente definitiva a competenze oggi miracolosamente ancora presenti in Italia in un campo di importanza strategica. Fortunatamente, grazie all’ingresso di capitale pubblico nella Reithera (nell’ambito delle cui competenze è stato sviluppato il vaccino contro Ebola), deciso dal secondo governo Conte, avremo un vaccino italiano, che probabilmente entrerà in produzione il prossimo autunno, ma se ne parla pochissimo, probabilmente perché l’autunno è un futuro troppo remoto per interessare l’italiano medio. In realtà, nei prossimi due mesi, potremo fare ben poco, oltre a limitare i contatti e usare le dosi di vaccino che le multinazionali farmaceutiche decideranno, bontà loro, di inviarci; presumibilmente la bella stagione porterà un forte ridimensionamento della pandemia, ed è quindi proprio durante il prossimo autunno che si deciderà se vinceremo o perderemo questa guerra. Nonostante ciò, si preferisce additare al pubblico ludibrio chi è sospettato di “sovranismo vaccinale”. Una politica attenta all’autonomia vaccinale è attuata non solo da potenze grandi come gli Usa, la Russia e la Cina e medio-piccole come il Regno Unito, ma perfino da Cuba; essa, tuttavia, è considerata disdicevole, da gran parte della stampa e da esponenti di spicco del mondo scientifico, per l’Italia e anche per l’UE.

Molti sono convinti che l’Italia sia un paese troppo piccolo e debole per avere una propria politica scientifica: dovremmo al più contribuire alla ricerca europea. Purtroppo l’attuale emergenza provocata dalla pandemia ha mostrato con chiarezza il livello di efficacia della ricerca applicata finanziata dall’Unione Europea. Singoli paesi europei hanno dato contributi importanti ai vaccini (i tedeschi hanno collaborato nella realizzazione del vaccino Pfizer e gli svedesi a quello Astrazeneca), ma l’Unione non ha saputo far di meglio che centralizzare gli acquisti con contratti palesemente scritti dai legali delle ditte fornitrici a loro vantaggio [2] e sottoscritti da funzionari europei per motivi sui quali avrebbe senso approfondire.

Tornando alla miopia, non ne abbiamo il monopolio, ma siamo certamente ben piazzati per aspirare a uno dei primi posti. Sono molti i casi in cui, dovendo compiere una scelta di portata strategica, non solo si decide di far prevalere gli effetti di breve periodo su quelli a medio-lungo termine, ma questi ultimi non sono neppure presi in considerazione nel dibattito pubblico.

Ricordiamo, ad esempio, l’obiettivo, sbandierato in continuazione, di colmare il divario con gli altri paesi sviluppati nel numero di laureati. Naturalmente la scarsità di nostri laureati è un problema serio se lo si vede come un indice del numero insufficiente di persone professionalmente preparate rispetto ai bisogni della società. La miopia porta invece a confondere il mezzo con il fine, perseguendo l’obiettivo di aumentare il numero dei diplomi di laurea indipendentemente dalla realtà certificata da quei documenti.

I governi hanno infatti deciso di stimolare le università ad aumentare la propria produzione di diplomi legando i finanziamenti al numero di lauree sfornate e penalizzando gli atenei con un più alto numero di abbandoni. I rettori hanno conseguentemente “convinto” il personale docente a evitare il più possibile le bocciature, garantendo una laurea quasi a chiunque pagasse le tasse universitarie. Si è così raggiunto un duplice risultato: si è realizzato un piccolo incremento dei laureati, ma abbassandone in modo drastico la preparazione: poiché il secondo effetto sarà percepibile in modo drammatico nei prossimi decenni, mentre l’incremento dei laureati, per quanto insufficiente, si vede subito nelle statistiche, ai miopi sta bene così.

In un’altra occasione abbiamo qui ricordato come l’obiettivo miope di aumentare gli indici bibliometrici dei ricercatori italiani usandoli come criterio privilegiato di valutazione abbia sì raggiunto il suo scopo, creando però una generazione di ricercatori specializzati soprattutto nella ricerca degli innumerevoli espedienti utili per aumentare le citazioni.

La scelta di agevolare pensionamenti a costo di avere una previdenza sociale insostenibile per la nostra demografia; la scelta di legiferare ad hoc in risposta a recenti eventi di cronaca, a costo di rendere logicamente carenti (se non incoerenti) i nostri codici; la scelta di condonare gli illeciti per fare immediatamente cassa incoraggiando allo stesso tempo gli illeciti futuri, la scelta di insistere in un modello di sviluppo ecologicamente non sostenibile, sono alcuni dei tanti altri esempi dello stesso fenomeno. Prima di risolvere i problemi, bisognerebbe vederli. Purtroppo, in presenza di una forte miopia diffusa e particolarmente concentrata nella classe dirigente, perfino questo umile obiettivo preliminare sembra molto difficile da raggiungere.

 

Aggiornamento 06/03/2021

Questo intervento è stato commentato in molte pagine FaceBook. Voglio riproporre qui e commentare la seguente dura (e molto interessante) critica di Piero Marcati:

Il paragone con il possibile vaccino italiano non è appropriato. Infatti nei due esempi citati, potrei aggiungere l’Olivetti con l’ing Mario Tchou, l’Italia aveva allora in quei settori una leadership chiara. Una forte azione di lobbying sui nostri politici tolse di mezzo la competizione italiana. Nel caso dei vaccini questa leadership è tutta da dimostrare, anzi mi pare che la ricerca italiana, almeno nelle tempistiche, sia indietro rispetto ad altri. Aziende francesi importanti si sono ritirate perché appare difficile mettersi in grado di competere. Se l’argomento economico nel caso di Saragat era pretestuoso, d’altra parte lui agiva per conto di terzi molto potenti, qui invece mi pare calzante. Dobbiamo comunque evitare il nazionalismo d’accatto che poi generi sperpero di soldi come in Alitalia.

L’idea di Marcati è che convenga progettare e produrre un vaccino anti-Covid solo se si è in grado di realizzare il migliore vaccino, capace di battere ogni concorrente a livello mondiale (anche nelle tempistiche di sviluppo). Si tratta, a mio avviso, di un’idea che rientra nella categoria “miopia” proposta nell’articolo. Innanzitutto, è vero che l’Istituto Pasteur ha annunciato circa un mese e mezzo fa la rinuncia allo sviluppo di un vaccino francese, ma la principale motivazione non è stata una valutazione aprioristica sulla farmaceutica francese (in questo caso Sanofi), ma il fatto che i dati parziali non fossero particolarmente brillanti[3]. Se il giudizio di Marcati fosse basato, analogamente, su questioni di merito, ovvero su debolezze del candidato vaccino Reithera, avrebbero certamente senso; visto che così non è, l’analogia con la Francia sembra piuttosto debole.

Inoltre, la presenza sul mercato di un numero crescente di vaccini con vari pregi e difetti, la difficoltà di soddisfare le enormi richieste e il moltiplicarsi di varianti, che lascia prevedere la necessità di continuare a preparare vaccini diversi nei prossimi anni, dimostrano ampiamente che la scelta di finanziare una ricerca sul vaccino ha probabilmente senso anche se non si realizza un prodotto in grado di imporsi su tutti i concorrenti a livello mondiale, ma semplicemente un ausilio di cui si può disporre  (se le cose vanno bene) in autonomia rispetto alle esigenze concorrenti di altri paesi. La sensatezza di questa opzione, tra l’altro, è mostrata anche dalla recente decisione di Austria, Danimarca e Israele, di iniziare, in collaborazione tra loro, la progettazione di un nuovo vaccino. Infine l’Italia non parte affatto da zero, poiché esistono già competenze notevoli e un vaccino nella fase 2 della sperimentazione.

Il punto più interessante è però l’idea generale che convenga investire in ricerca solo nei settori in cui ci sia già una chiara leadership. Marcati immagina che quando Mario Tchou, nel 1955, accettò di dirigere il gruppo di ricerca che avrebbe progettato l’ELEA per Adriano Olivetti, l’Italia avesse la leadership mondiale nel campo dei computer. Dispiace deluderlo: fino ad allora in Italia nessuno aveva mai neppure immaginato di poter costruire un computer e il progetto di Olivetti mirava proprio a superare l’arretratezza italiana in un campo strategico. Lo stesso si può dire per la CEP (Calcolatrice Elettronica Pisana) che fu finanziata dallo stato, in una prima fase in collaborazione con il progetto della Olivetti; anche l’Istituto Superiore di Sanità raggiunse livelli di eccellenza sotto la direzione di Marotta, iniziando tra l’altro a produrre antibiotici, operando in un settore in cui l’Italia era stata completamente assente. Si potrebbe ripetere la stessa osservazione per le ricerche di Natta e per molti altri casi.

Marcati ritiene che Saragat abbia sbagliato nel distruggere settori di ricerca in cui l’Italia aveva raggiunto livelli di eccellenza, ma se la classe dirigente del dopoguerra avesse adottato sistematicamente la sua ottica si sarebbe ottenuto lo scopo di evitare del tutto la loro nascita. L’origine di quest’ottica diviene chiara alla fine dell’intervento e risiede nella paura di macchiarsi di quel “nazionalismo d’accatto” di cui mi accusa. In altre parole, per evitare il nazionalismo bisogna adoperarsi perché l’Italia non si azzardi a fare ricerca applicata che possa contribuire a risolvere qualche problema del paese (salvo in caso di conclamata “leadership” in un certo settore, circostanza oggi ahimè rara).

L’attacco alla ricerca applicata portato avanti negli anni sessanta del secolo scorso ha prodotto molti danni, ma il più grave, a mio parere, è stata la diffusione nell’ambito dei ricercatori italiani (categoria di cui Marcati è un influente rappresentante) di una sorta di complesso che fa loro associare immediatamente al bieco nazionalismo ogni idea di sviluppare ricerca applicata nel contesto del nostro paese. Purtroppo la diffusione di queste idee in ampi settori della sinistra (o meglio: in molti gruppi provenienti dalla sinistra) contribuisce a spiegare sia come mai i nostri ricercatori, nonostante l’eccellenza di una loro consistente frazione, incidano così poco sulla realtà del paese, sia come mai la Lega sia divenuta il primo partito d’Italia.

[1] In seguito, da Presidente della Repubblica, Saragat concesse la grazia a Ippolito.

[2] In particolare i contratti prevedono che le ditte fornitrici si impegnino non a fornire i vaccini entro una data prevista, ma solo ad adoperarsi per cercare di farlo. I funzionari dell’UE avevano capito che era meglio che i cittadini europei non leggessero i contratti, che avevano cercato di secretare.

[3] La dichiarazione dell’Istituto è stata che “le risposte immunitarie indotte si sono rivelate inferiori a quelle osservate nelle persone guarite da un’infezione naturale e a quelle osservate con i vaccini già autorizzati”.

 

* Articolo pubblicato da Anticitera il 2 marzo 2021 ed aggiornato il 5 marzo 2021

da qui

 

 

Università libera, università del futuro

Dieci tesi per un manifesto

 

[‘Dieci tesi per un Manifesto’ è un testo redatto da un gruppo di docenti di diverse aree scientifiche dell’Università di Padova. Il gruppo è nato dal bisogno di condividere esperienze e riflessioni rispetto alla straordinaria trasformazione che sta coinvolgendo in questo periodo l’Università. La pandemia da SARS-CoV-2 ha infatti prodotto una strepitosa accelerazione di alcuni processi che erano stati elaborati e avviati al di fuori di essa e che, secondo gli estensori del Manifesto, rischiano ora sotto la spinta di una logica emergenziale di diventare prassi ordinaria senza nemmeno la possibilità di essere discussi. I materiali elaborati dal gruppo sono reperibili qui]

 

  1. L’università libera è l’università del futuro

Solo la tutela e la garanzia della libera manifestazione del pensiero nelle attività di ricerca e nella didattica, la promozione e la salvaguardia delle differenze culturali e scientifiche nel pluriversum dei saperi è in grado di generare avanzamento virtuoso nelle conoscenze, nelle arti, nelle tecniche, e di creare uno scarto temporale rispetto alle urgenze del contingente in grado di immaginare, pensare, prefigurare, anticipare gli scenari futuri. Ogni forma esplicita o surrettizia di standardizzazione e di uniformazione procedurale, di valutazione algoritmica dei risultati della ricerca e degli apprendimenti, di controllo tecnologico delle attività dei docenti- ricercatori, oltre ad essere negatrice della libertà accademica, mutila qualsiasi intenzione conoscitiva, ne costringe il raggio d’azione entro orizzonti ristretti, consegnando l’operosità accademica alla sola risoluzione di problemi di corto respiro dettati da Agenzie per lo più interessate all’utile immediato.

 

  1. L’università del futuro non è un’azienda

Uno dei rischi che ha accompagnato molti dei processi che hanno agito sull’università pubblica nei primi vent’anni del XXI secolo è stato quello di una sua progressiva trasformazione in senso aziendalistico-gestionale. Ogni singola Università è di fatto divenuta un player nel mercato globale della conoscenza e della formazione retto dai principi di concorrenza e di competizione. Il gergo economicistico e del management si è ben impiantato nel discorso universitario modificandone natura, scopi, finalità, condotte. Le studentesse e gli studenti vengono sempre più considerati in termini di clienti e l’idea della cosiddetta customer satisfaction pare diventare la modalità principale di organizzazione e di valutazione della vita accademica. Noi intendiamo rivendicare l’importanza, non passatista o conservatrice ma che riconosce le sfide del tempo presente, di una vera universitas non strutturata dalla logica che regge l’impresa economica. È necessario mantenere viva una riflessione critica sul modello di università come “agenzia” da cui acquistare prestazioni e contenuti, regolata e definita dalle esigenze del mercato globale della conoscenza più che da quelle formative, culturali e scientifiche. Riteniamo dunque di dover mantenere una capacità di critica e di intelligenza vigile circa il principio della massimizzazione del profitto che di fatto è esondato dal proprio alveo naturale – l’economia reale – per interessare ormai ogni segmento della prassi umana e sociale, inclusa la formazione, modificando in tal modo alla radice la vocazione storica delle istituzioni formative. Questa non può e non deve essere intesa come un’essenza immodificabile, ma neppure come un fardello divenuto privo di senso. L’università-azienda nega alla radice l’idea di formazione e di scienza intesi come beni pubblici non riconducibili ai principi di valorizzazione economica propria dei beni di mercato.

 

  1. Promuovere la libertà e il pluralismo nella ricerca

Nel campo della ricerca le scoperte scientifiche d’importanza fondamentale – salvo pur notevoli eccezioni – si sono giovate della libertà accademica e di un virtuoso trinomio ricerca-formazione- didattica almeno temporaneamente sganciato da scopi immediati, che difficilmente può riprodursi in toto nei laboratori industriali, sui quali gravano in prima istanza legittime necessità commerciali. Anche la ricerca, dunque, per poter continuare ad esercitarsi, deve poter continuare a contare sulla libertà svincolata da ipoteche meramente produttivistiche.

È bene che i risultati delle ricerche, in ogni campo, siano valutati e non sfuggano alla possibilità di controllo; docenti e ricercatori universitari non pretendono alcun tipo di immunità e non temono, ma anzi auspicano, forme adeguate di verifica. Al tempo stesso, richiedono una maggiore trasparenza

circa gli scopi e i metodi della valutazione. Rendere conto dei risultati del proprio lavoro è un dovere, ma non si può pensare che tutti i tipi di ricerca possano essere misurati con gli stessi metri di valutazione; tanto meno si può pretendere la quantificazione derivante da asettici procedimenti algoritmici. La libertà e il futuro della ricerca sono garantiti dalla necessaria pluralità degli approcci e delle metodologie. Inoltre, la logica della ricerca non sopporta una pianificazione assoluta, né rigidi piani di lavoro triennali o quinquennali: se non si è aperti alla dimensione dell’evento, di ciò che non è progettabile o prevedibile, non si dà vera scoperta o vero incontro con un sapere, ma mera proceduralità e applicazione di protocolli basati su binari predeterminati con l’unico fine di migliorare il posizionamento dell’Università nei ranking internazionali – che spesso differiscono tra loro, essendo non poco convenzionalistici e opinabili – e il mero capitale reputazionale.

 

  1. Tecnologie a servizio della didattica e non didattica a servizio delle tecnologie

Le tecnologie per la didattica, qualunque sia la loro specifica funzionalità, non sono strumenti neutrali. Esse, qualunque sia il loro utilizzo, predeterminano e oggettivano la lezione e le sue finalità. Non riteniamo l’e-learning di per sé negativo e pensiamo che l’attivazione consapevole e libera di forme aggiuntive di sostegno alla didattica in presenza attraverso l’uso di tecnologie sia una sfida importante e preziosa, forse anche decisiva. Riteniamo però deleteria l’idea che la didattica a distanza possa essere pensata in maniera onnipervasiva e come piena sostituzione della didattica in presenza. Intesa in questo modo, la didattica a distanza rischia di compromettere quell’esperienza di apprendimento critico, profondo e non frammentato, che deve contraddistinguere la didattica all’università. L’insegnamento non può e non deve essere mera trasmissione di un sapere riproducibile come un bene di mercato e tracciabile come un prodotto economico “lungo la filiera della conoscenza”, replicabile all’infinito, sempre più standardizzato, nemmeno relativamente alle sue parti cosiddette “teoriche” rispetto a quelle cosiddette “pratiche”, che per alcune discipline in particolare risultano assolutamente intrecciate o addirittura indistinguibili. Esso va piuttosto inteso come ciò che favorisce l’esperienza qui e ora di contenuti ogni volta originali perché ripensati e ricreati, e non già depositati come materiale inerte nel Web. Il Docente, in questo senso, non è un “facilitatore di apprendimenti”, un impiegato d’aula, un intrattenitore multimediale, un pedante ripetitore della dottrina, ma uno studioso che nella didattica prosegue il suo impegno di ricerca, e nella ricerca prosegue il suo impegno nella didattica, mettendo gli studenti al cospetto – problematico – della “scienza che non è ancora del tutto scoperta”.

 

  1. Promuovere il pluralismo della didattica

La libertà d’insegnamento è costituzionalmente riconosciuta e deve essere garantita. Tale libertà non può essere considerata come un orpello romantico per anime belle oppure come un privilegio retaggio del passato, neppure come una licenza all’arbitrarietà irresponsabile nella messa in opera del rapporto didattico oppure ancora come una fuga dalle responsabilitàEssa è un baluardo della formazione (scolastica e universitaria) democratica, che a sua volta si lega alla libera manifestazione del pensiero, la garanzia che non dovrà mai prodursi una reductio ad unum delle possibilità didattiche e dell’idea generale di formazione, da intendersi dunque sempre aperte e molteplici. Riflettere apertamente su determinati modelli di gestione dell’istituzione universitaria, della ricerca e della didattica significa riflettere su un modello possibile di Università senza adottare formule o soluzioni già scritte come fossero un destino di cui limitarsi a prendere atto.

Contro ogni “pensiero unico” sulla didattica si rivendica il fatto che essa possa essere pensata e concettualizzata in modo plurale, evitando ogni forma di standardizzazione entro modelli costruiti esclusivamente sulla misurazione degli effetti d’apprendimento. Si tratta di rimettere al centro l’acquisizione di un sapere capace di lunga gittata in grado di orientare chi lo possiede dinanzi ai cambiamenti continui di scenario e di contesto, senza adeguare la formazione esclusivamente all’“oggi”, alle esigenze di un mercato del lavoro in rapida trasformazione.

 

  1. Università e internazionalità

La dimensione internazionale che gli atenei si sforzano di favorire, acquista un vero, profondo significato quando diventa esperienza reale e fisica, come testimonia la pluriennale esperienza degli scambi Erasmus e dagli scambi vivi di studenti, dottorandi, ricercatori, docenti. I programmi di mobilità internazionale ci hanno arricchiti facendo dialogare fra loro, e con i docenti, giovani di diversi paesi nelle stesse aule, con una comune compartecipazione di esperienze che sono pensabili solo nella porosità di uno spazio universitario europeo unito da una fitta trama di viaggi, soggiorni ed esperienze vissute. La proiezione internazionale della didattica e della ricerca non deve diventare un principio fine a se stesso, un marchio di qualità estrinseco e provinciale imposto secondo forme e modi prestabiliti, ma un mezzo per favorire la circolazione delle idee e delle pratiche ed ogni virtuoso processo di contaminazione transnazionale e multidisciplinare, da consegnare alle libere determinazioni di ciascun ricercatore e di ciascun docente, tenendo conto delle differenti e non uniformabili esigenze degli ambiti di studio e ricerca.

 

  1. L’università come esperimento democratico

La gestione dell’Università, nei suoi aspetti organizzativi e di governo, va intesa nel senso del lavoro collegiale degli organi elettivi preposti ai vari livelli, secondo criteri democratici e di trasparenza capaci di garantire la puralità e il dissenso, e di promuovere l’interesse pubblico. L’efficienza performativa delle procedure che gestiscono la ricerca, la didattica e la vita quotidiana di docenti e studenti non deve porsi come criterio di legittimazione progressiva di ordini preferenziali di valore sottratti alla libera discussione, al giudizio critico, al dissenso. La gestione degli assetti riguardanti l’esercizio delle attività di ricerca e delle attività didattiche va ricondotta alla operatività degli organi e delle assemblee elettive secondo principi di distribuzione democratica dei poteri, contro ogni forma di verticalizzazione dei processi decisionali. A salvaguardia del legame imprescindibile tra formazione, democrazia, scienza.

 

  1. L’università del futuro non riduce la formazione ad apprendimento di competenze professionali

L’esperienza dello studio universitario si offre come fase cruciale di maturazione e sviluppo della persona, a livello integrale. La vita comunitaria, la condivisione dei tempi e degli spazi, le amicizie che si sviluppano costituiscono un patrimonio di esperienze per il soggetto e questo patrimonio va preservato e tutelato. Gli studi universitari, pur presentandosi in primis come opportunità di ampliare il proprio bagaglio di conoscenze, abilità e competenze in vista di successivi sbocchi professionali, non possono essere ridotti a mero centro di formazione professionale, in cui tutto è subordinato all’acquisizione di titoli spendibili in un orizzonte di carriera. L’università vive anche di una dimensione che trova giustificazione in se stessa, in cui teoria e pratica non sono disgiunte, e ogni giorno trova la sua pienezza e la sua ragione di senso per le scoperte che offre. Ridurre la formazione universitaria alla mera acquisizione di competenze professionali è una tendenza in atto da tempo ed ha una natura regressiva che guarda in modo preoccupante al passato. Vuol dire consegnare i giovani meno fortunati ad un permanente ritardo formativo ad esclusivo beneficio del mercato della formazione continua fondato sulla inevitabile obsolescenza delle competenze. Vuol dire privarli di quelle conoscenze solide, critiche e di ampio respiro capaci di aprire attraverso il sapere l’orizzonte della realtà nel suo insieme; non come privilegio di un determinato ceto ma come possibilità emancipativa cui tutti hanno diritto di aspirare.

 

  1. L’università libera è un’università che libera

È importante che l’università sia al passo con i tempi e che non corra il rischio di ridursi a un mausoleo vetusto e fossilizzato. Al tempo stesso, l’università è una delle poche istituzioni che può e deve essere anche luogo di critica nei confronti di alcuni modelli – mentali, economici, comunicativi, comportamentali – che altrove possono invece farsi strada senza incontrare alcuna forma di resistenza

o di correttivo. Questo non significa affatto che essa debba svolgere una funzione di retroguardia, anzi. Un’università libera non può che essere decisamente orientata in direzione della trasformazione e del futuro. Riteniamo però al contempo che i cambiamenti in atto e l’idea di futuro debbano essere di continuo discussi e analizzati, sviscerandone le implicazioni – non ingenuamente accolti senza un pensiero critico. Chi pensa che il futuro sia semplicemente ciò che deve accadere, sta in realtà lasciando accadere ciò che un certo modo di pensare il mondo ha deciso che debba accadere.

 

  1. L’università rilancia il desiderio del sapere e della capacità di convivenza

Se la formazione universitaria non tocca le corde più intime di coloro che la abitano e non fa muovere un desiderio nei confronti del sapere in sé, perché lo sottomette a istanze sempre eteronome, finisce per cristallizzarsi in un sepolcro imbiancato. Disgiungere la ricerca di senso e il valore esistenziale dalla ricerca e dalla didattica universitarie significa fallire completamente la missione emancipatrice e civilizzatrice del sapere. L’università per cui ci vogliamo impegnare è piuttosto un luogo di emersione del senso e non solo di produzione di competenze e d’innovazione tecnologica in linea con le richieste della produzione, un luogo in cui esseri umani giovani e meno giovani si incontrano e contribuiscono alla costruzione di una società attraverso la costruzione di un sapere integrale, senza barriere tra discipline, non subordinato a logiche di mercato.

da qui

 

 

Ma dove vivono? – Gianluca Gabrielli

 

Qualche giorno fa, mentre come le altre duecentomila maestre d’Italia stavo preparando l’ennesimo intervento a distanza, alcune colleghe mi hanno segnalato un articolo pubblicizzato nella pagina facebook di una delle riviste più seguite dagli insegnanti di scuola primaria. L’articolo sosteneva fin dal titolo l’assoluta necessità e la cruciale importanza di disputare anche quest’anno le prove Invalsi. Non ci volevo credere. Piuttosto, con un’ingenua fede illuministica attendevo già da tempo e consideravo imminente l’annuncio dell’annullamento dei test in ogni ordine di scuola – causa pandemia. Mi pareva semplice buon senso e non mi sforzavo neppure di articolare dentro di me le ragioni per cui davo per scontata questo cancellazione.

Poiché insegno quest’anno proprio in una classe seconda di scuola primaria, il mio interesse è aumentato. Le bambine e i bambini di sette e otto anni che frequentano la classe seconda infatti sono destinate dai protocolli ad essere sottoposte ai test. Sono però anche bambini e bambine reduci dall’anno di accesso alla scolarità (lo scorso anno) caratterizzato da più di quattro mesi didattica a distanza, e di nuovo quest’anno sono stati costretti a fare didattica da casa insieme alla mamma o al papà, con un dispositivo a volte funzionante e altre traballante, con una connessione più o meno precaria. Sono classi composte dai giovani del 2013, annata che verrà ricordata in futuro come quella che ha subito la pandemia nel momento dell’apprendimento della letto-scrittura. Così mi sono chiesto la ragione di questa decisione – ai miei occhi di maestro del tutto incomprensibile – ed è cresciuta l’inquietudine e la voglia di capire come si sarebbe potuta articolare una tale giustificazione. Mi sono registrato sul sito dell’importante casa editrice e ho potuto leggere le motivazioni che dovrebbero spingere me e tutti i docenti italiani a desiderare anche quest’anno di fare svolgere i test ai propri allievi e alle proprie allieve.

 

A cosa servono le prove Invalsi nell’era della pandemia

L’articolo è firmato dal dottor Paolo Mazzoli, che nel recente passato è stato Direttore generale dell’Invalsi, e già mi è parso di cominciare a comprendere da dove veniva la motivazione a glorificare lo svolgimento delle prove. Ma rimaneva il dubbio più serio: come si poteva giustificare in termini pedagogico didattici la conferma dei test?

Il dottor Mazzoli nell’articolo sostiene che la somministrazione di questi test sarebbe decisiva per farci capire l’effetto di questi due anni di pandemia sulle diminuite conoscenze delle alunne e degli alunni. Secondo Mazzuoli “le prove INVALSI […] forniranno i primi dati italiani sulla qualità degli apprendimenti dell’epoca Covid-19”. Egli ci spiega che l’Invalsi ha individuato attraverso i test (in questo caso quelli di comprensione) l’esistenza di sei fasce di alunni, dagli “alunni più deficitari” agli “alunni eccellenti”; ci rivela poi che nel 2019 il 5% degli alunni si collocava nella fascia di eccellenza e un altro 5% si collocava “al livello più basso”. Inoltre ci spiega che una seconda elaborazione dei dati fornisce addirittura una “misura della diseguaglianza scolastica”, tanto da svelarci che nel 2019 “un ragazzo di condizioni socio-economiche alte conseguiva mediamente 27,9 punti in più di un suo compagno in condizioni socio-economiche basse” … E chi se le aspettava tutte queste incredibili scoperte!

Mazzoli è orgoglioso di questi risultati del pachidermico e ormai più che decennale sistema di raccolta dati dell’Invalsi, e afferma che i “due grafici forniscono un quadro abbastanza completo dell’efficacia del sistema scolastico, sia in termini di competenze conseguite dagli alunni che in termini di equità del sistema”.

L’entusiasmo non è limitato al valore euristico dei risultati del passato, ma proprio alla possibilità di paragonare questi milioni di dati ai nuovi risultati che ritiene doveroso raccogliere anche quest’anno. L’obiettivo socio-scientifico che l’Invalsi si pone infatti è scoprire “come potrebbero modificarsi questi risultati in seguito alla lunga chiusura delle scuole a causa della pandemia”. Qualche idea Mazzoli ce l’ha: “Molti indizi inducono a pensare che anche questa volta si è confermato il fenomeno, più volte documentato dagli storici, per il quale nei momenti più critici le diseguaglianze riemergono, più forti di prima”. Ma va! Davvero un’ipotesi geniale che non ci sarebbe mai venuta in mente senza il supporto dei dati Invalsi… un’ipotesi però che non potremmo certo sostenere senza milioni di nuove somministrazioni, e quindi milioni di nuovi numeretti da mettere in tabella. Mazzuoli conclude: “Vale dunque la pena leggere con attenzione i risultati della propria classe, della propria scuola e del nostro sistema scolastico nel suo insieme colpito così duramente dalla pandemia”.

 

Ma come si possono fare i test come se nulla fosse?

La fede degli uomini esperti di statistica sui loro strumenti a volte supera quella di tutte le chiese sull’efficacia delle preghiere.

Prima di tutto è incredibile vedere che un giro di milioni di euro per un processo mastodontico di raccolta dati alla vecchia maniera viene confermato in una stagione tanto eccezionale per l’unico scopo di confermare con dei numeri quello che il senso comune dell’ultima persona che passa in strada può già dirci chiaramente: cioè che gli stravolgimenti di questi due anni hanno aumentato la forbice del sapere e che la tenuta delle classi sociali più alte è maggiore di quella delle classi sociali più basse. Sarebbe come se il governo decidesse quest’anno di investire milioni in una ricerca che in maggio sospendesse per tre giorni l’attività di tutti i ristoranti italiani per verificare se in questi due anni gli affari siano aumentati o diminuiti. Anche qui l’uomo o la donna della strada potrebbe dire: “Lascia perdere, risparmia quei soldi e lascia lavorare quei ristoranti, te lo dico io: sono diminuiti”.

Ma anche non considerando l’inutilità dei test rispetto al fine dichiarato, è proprio la loro stessa pseudo struttura scientifica che mostra ingenuità imbarazzanti. L’idea che test di apprendimento preparati per classi che funzionavano normalmente possano essere validi con classi in pandemia e produrre una raccolta di dati “oggettivi” utili a “diagnosticare” il ritardo di apprendimento causato dalla didattica a distanza (addirittura “misurarlo”) è puerile, ridicola agli occhi di chi abbia un minimo di infarinatura dei principi della sociologia dell’educazione e una decente conoscenza della complessità dei processi di apprendimento.

I bambini non sono provette. Fare quest’anno, a valle di due anni di pseudo-didattica intermittente, prove preparate per una stagione normale produrrà frustrazione, senso di inadeguatezza, sofferenze ulteriori a quelle già accumulate. Mi pare molto semplice da capire, anche un esperto di analisi statistica dovrebbe riuscire a cogliere questa realtà. Tra l’altro quale validità potrebbe mai avere un risultato di un test fatto in queste precarie condizioni sociali e affettive? Qualsiasi preparatore atletico che dovesse fare svolgere un test di forza ad un allievo stressato da una notte in cui non ha dormito e da una situazione emotiva fragile saprebbe benissimo di non poter utilizzare per confronti i risultati che scaturiscono da quelle prove, perché non venendo fatte in condizioni standard, non rispetterebbero tutti quei principi di somministrazione corretta di cui vanno blaterando proprio i teorici dell’Invalsi nelle proprie istruzioni come presupposti per le presunte oggettività e validità dei risultati. Quindi è davvero difficile capire come mai gli stessi scienziati Invalsi non si siano affrettati a comunicare che quest’anno, viste le condizioni generali in cui si sarebbero svolti, non avrebbe avuto senso svolgere i test.

È avvilente – anche per chi come me le ha da sempre contestate – vedere come i teorici dell’Invalsi considerino le prove come un qualsiasi kit per la rilevazione del numero di globuli rossi nel sangue o la quantità di glucosio nelle urine. Lo scientismo ingenuo che informa l’entusiasmo trionfante di questi “scienziati” fa cadere le braccia. Ma addolora soprattutto l’idea che questi teorici hanno delle piccole persone cui pensano di somministrare i test. Nei confronti dei bambini infatti la decisione della conferma rivela un atteggiamento di reificazione impietoso, che non si ferma neppure di fronte ai traumi di cui parlano ormai non solo i pedagogisti ma sempre di più i neuropsichiatri. Sono “tecnici” che pensano solo a fare ricerca sui bambini poiché solo quella sanno fare.

 

Allora perché non sospendono i test?

Quali sono allora le reali motivazioni che spingono questi pseudoscienziati dell’educazione a confermare ostinatamente le date delle prove Invalsi proprio nel momento in cui siamo stati costretti a tornare per l’ennesima volta a distanza e a inventarci una qualche didattica di prossimità affettiva con le nostre bambine e i bambini? Credo che la risposta sia da cercare nella disperata risolutezza delle gerarchie Invalsi nel confermare il loro ruolo, nella volontà di difendere nonostante tutto il potere che hanno acquisito negli ultimi quindici anni e che tutt’ora gestiscono; è la determinazione a riprodurre, nonostante tutto, un carrozzone che muove molti soldi, sostenuto dalle case editrici che producono eserciziari e quindi a loro volta guadagnano sull’indotto del carrozzone. Tutte cose che già sapevamo, nulla di nuovo. Eppure quest’anno, in questi giorni, possiamo scoprire qualcosa di inedito, di singolare. Possiamo vedere i risultati di un vero test: “sperimentare” fino a che punto la volontà di autoriprodursi di questo carrozzone riuscirà ad ignorare bellamente la tragedia della pandemia e l’angoscia delle bambine e dei bambini, delle insegnanti e dei genitori coinvolti.

La loro fredda determinazione nel ribadire lo svolgimento dei test e i comunicati stampa con la conferma delle date che uscivano – mentre facevamo salti mortali per consegnare i tablet mancanti – mi hanno rivelato un livello di distanza dalla scuola reale e di ridicola e imbarazzante rigidità, di scollamento dal contesto generale che, sinceramente, non pensavo arrivasse a questo livello.

 

Ma dove vivono?

“Ma dove vivono?” commentava sulla pagina facebook della casa editrice una lettrice dell’articolo di Mazzoli, incredula come tutti gli altri lettori. Già. Dove vivono? Scrivendo queste riflessioni sono andato a rivedermi quel post di facebook dove il 17 marzo avevo scoperto l’articolo e letto i moltissimi commenti indignati di insegnanti come me. Purtroppo però oggi il post non c’è più, e anche il link all’articolo che avevo caricato nel mio profilo non porta più ad una pagina attiva. Forse erano imbarazzanti i commenti critici? Sì, meglio fare così, cancellare il post con i commenti e cambiare il link e il titolo dell’articolo, che inizialmente era Prove invalsi 2021, più importanti che mai, mentre ora, se lo riuscite a trovare nel sito web, si intitola Prove invalsi 2021: facciamo il punto. Conviene fare così, nascondere le critiche, cambiare i titoli, fare finta di nulla e andare avanti, come se nulla fosse, pandemia compresa.

Mi viene in mente la chiusa del Diario di un pazzo di Lu Xun: “Salvate i bambini!…”. Chiamerò il telefono azzurro. Farò sciopero. Se mi nomineranno somministratore disobbedirò. Rivendicherò il diritto dei bambini e mio a tutelare quelle preziose ore di didattica che ci sono rimaste. Avete altre idee? Qualcosa bisogna fare…

da qui

 

 

Chi ha paura del pensiero critico? – Rete Bessa solidale con la collega sotto attacco

 

Il fatto è noto: durante la dad un’insegnante accoglie lo spunto di una classe e stimola una discussione critica su un pezzo di Bello Figo. Un genitore che stava ascoltando la lezione ad insaputa della prof. e –  cosa ancor più grave – delle/degli alunn*, non gradisce e scatena un putiferio (una volta resa nota la lezione abbiamo visto, ad oggi, il coinvolgimento dell’ufficio scolastico regionale, diversi articoli di giornale e persino un’interpellanza parlamentare!).
Cosa ha fatto la collega? Il suo mestiere! E nel modo migliore possibile. Seguendo la propria pluriennale esperienza ha fatto peraltro quello che c’è scritto in tutti i libri di pedagogia: ha accolto uno stimolo da parte della classe e l’ha usato per costruire una discussione, invece di fare diventare l’argomento un tabù.

 

La Rete Bessa esprime la propria solidarietà alla collega sotto attacco.

Sappiamo quanto sia difficile insegnare in una scuola che ci chiede sempre più di sfornare competenze, a danno del pensiero critico. Sappiamo quanto sia avvilente fornire un insegnamento di qualità nonostante la DAD. Avevamo già denunciato i rischi di una didattica tra le mura domestiche, rischi per i/le insegnanti, ma anche per gli/le alunn*, privati di uno spazio in cui esprimersi liberamente.

L’occhio della famiglia, in DAD, è più vigile che mai. Specialmente quello delle famiglie affezionate ad un’educazione rigida e ai sani vecchi costumi di una volta.

 

Adesso l’incubo si è fatto realtà e a farne le spese è una nostra collega.

Per questo siamo accanto a chi, nonostante tutto, si ostina a fare bene il proprio mestiere e a causa di questo viene attaccata da chi, invece, ci vorrebbe ubbidienti rotelle di un meccanismo oppressivo.

Difendendo la nostra collega difendiamo la libertà di insegnamento, perché, in fondo, è ciò che stanno attaccando le destre che sono dietro questa oscena vicenda. La risonanza che questi fatti hanno avuto non è casuale: non pensiamo che sia il contenuto ad aver dato fastidio, ma il metodo – ché l’esercizio del pensiero critico è cosa evidentemente sgradita.

Se tacessimo di fronte a questo episodio, non potremmo dire di difendere una scuola pubblica e plurale. Per questo, nel continuare la nostra azione di resistenza dentro la scuola, sostienamo e sosterremo la collega sotto attacco.

da qui

 

 

Non di solo Stato vive la scuola. In difesa delle scuole libertarie

 

Intervento di Francesco Codello

 

Agli inizi di marzo il sito Dinamo Press – che si definisce come un progetto di informazione indipendente nato dalla cooperazione tra diversi spazi sociali di Roma, giornalisti professionisti, ricercatori universitari, video maker e attivisti – ha pubblicato un articolo di Angela Pavesi e Michele Dal Lago intitolato “Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie”. Mettendo in un unico calderone esperienze educative tra loro anche molto diverse, gli autori attaccano duramente tutte le realtà che si muovono esternamente alla scuola statale, identificata come l’unica scuola pubblica possibile, al di fuori della quale ci sarebbe solo la giungla del modello neoliberista. Pubblichiamo una replica di Francesco Codello, pedagogista, tra i fondatori della Rete per l’educazione libertaria, che è stato dirigente scolastico ed è da lungo tempo impegnato nella ricerca storico-educativa. Codello ha parlato ai microfoni di Radio Blackout, nella rubrica Anarres condotta da Maria Matteo, difendendo le esperienze concrete di educazione libertaria che, tanto oggi quanto nella loro ormai lunga storia, si sono sviluppate come strumenti di cambiamento sociale in senso antiautoritario: riportiamo qui il dialogo radiofonico con l’autorizzazione dell’autore, e ci ripromettiamo di tornare sul tema anche sulle pagine di Rivista Malamente.

 

[Maria Matteo] Vuoi raccontare brevemente cosa dice l’articolo pubblicato su Dinamo Press o preferisci partire dalla realtà delle scuole libertarie?

[Francesco Codello] Preferisco sicuramente partire dalle nostre idee e dalle nostre pratiche, perché ritengo quell’articolo pubblicato da Dinamo Press violento nei toni, inqualificabile, che sprigiona ignoranza e/o malafede. I toni e i modi, oltre che i contenuti, non stimolano l’apertura di un dibattito, non aiutano il confronto e nemmeno spingono a fare riflessioni e autocritiche, peraltro sempre necessarie. Nel corso della discussione spero di riuscire a far emergere alcuni concetti importanti sia dal punto di vista storico che attuale, che in quell’articolo non vengono minimamente considerati.

[M.M.] Cominciamo allora con il dissipare un po’ di confusione, che certamente Dinamo Press ha contribuito ad alimentare, perché il percorso delle scuole libertarie non può essere equiparato alla sola educazione parentale, né tantomeno a percorsi come quelli delle scuole private, confessionali o di altro genere.

[F.C.] Partirei da una prima considerazione: gli autori dell’articolo che esprimono questi giudizi, e portano un così duro attacco all’educazione libertaria, palesano una profonda ignoranza di tutta la storia dell’educazione libertaria. Non sanno nulla, almeno così traspare dall’articolo, di una storia della quale noi siamo orgogliosamente fieri, che ci appartiene e di cui sentiamo anche la responsabilità. Quando si intraprendono pratiche di educazione libertaria si deve infatti sentire il senso di appartenenza a una tradizione che ha segnato profondamente il rinnovamento della pedagogia nel corso della storia. A cominciare da William Godwin, che per primo parlò contro l’idea di un curricolo scolastico unico e quindi di gestione in esclusiva del sistema scolastico da parte dello Stato, per arrivare fino alle esperienze concrete dei giorni nostri.

 

C’è poi anche una profonda ignoranza di ciò che si è dibattuto e discusso nella storia della scuola italiana. Tra il 1900 e il 1926, cioè fino all’imporsi delle leggi cosiddette “fascistissime”, la scuola italiana ha subìto due grandi processi di cambiamento: la legge Daneo-Credaro del 1911 e la riforma Gentile del 1923. Mi soffermo in particolare sulla legge Daneo-Credaro, con la quale lo Stato italiano, in ritardo di molti anni rispetto ad altri paesi europei, avoca a sé la gestione e quindi l’organizzazione delle scuole di base, così si chiamavano le elementari, che fino ad allora erano state a gestione comunale. Questa legge rappresenta sicuramente un importante passaggio, anche in senso positivo, ma dà inizio anche a un percorso di statalizzazione esclusiva dell’organizzazione scolastica. Tra gli anarchici si sviluppa in quegli anni tutto un dibattito che possiamo semplificare nella domanda: scuola laica o scuola libera? Cioè era positivo il tentativo di togliere la scuola dal condizionamento clericale, perché era questo che succedeva con la scuola a gestione comunale, soprattutto nei piccoli comuni che rappresentavano la maggior parte del tessuto sociale italiano, ma d’altra parte a questa idea di scuola laica veniva contrapposta un’idea di scuola libera.

È questa la stessa ambizione che hanno oggi (e da sempre) le scuole libertarie: l’idea di una scuola intesa e progettata come organizzazione pubblica non statale. Quindi aperta a tutti, non confessionale, libera, autogestita da comunità tra loro federate e auto-organizzate. Con un movimento organizzativo che parte dal basso e salta ogni forma di accentramento deleterio per le pratiche di autogestione. Questa è la nostra grande ambizione, ma la sinistra italiana è sempre stata, tranne poche eccezioni, una sinistra statalista, e non poteva essere altrimenti che così.

Nell’articolo uscito su Dinamo Press, nella sua difesa a oltranza della scuola statale, non viene posto minimamente il problema della differenza tra pubblico e statale. Per loro sono la stessa cosa. Non si pongono neanche il problema di come si siano evoluti i sistemi scolastici statali a livello globale (pedagogia delle competenze, meritocrazia, aziendalizzazione, sistemi centralizzati di valutazione, ecc.), in conseguenza del processo di globalizzazione per come si è affermato, di che tipo di cittadini e studenti governabili in modo autoritario abbia bisogno il mercato del lavoro globale.

 

[M.M.] Hai puntato il dito sui peggiori aspetti di questo articolo, dove si discorre di neoliberismo accusando i percorsi delle scuole libertarie e poi si ignora, o si finge di ignorare, che quella che loro chiamano scuola pubblica è la scuola statale, al cui interno sono in atto processi di aziendalizzazione così forte che ormai queste scuole sono costruite per produrre uomini e donne flessibili e adattabili a un mercato del lavoro nel quale molti di loro nemmeno entreranno, ma la cui logica è di essere pronti e sottomessi a qualsiasi esigenza. Come si fa a ignorare cosa è accaduto e sta continuando ad accadere dentro la scuola statale e a difenderla tout court come organo di una società futura migliore, quando è quella stessa scuola una delle colonne su cui si regge oggi l’ordine costituito?!

[F. C.] Non considerare tutto questo è malafede o incapacità di vedere al di là del proprio naso. È furore ideologico. Mi sembra però importante anche sottolineare che l’esperienza dell’educazione libertaria è concepita da tutti coloro che la praticano, nonché da coloro che la sostengono, come un mezzo per il cambiamento sociale in senso antiautoritario. Non è pensata come una cosa sulla quale costruirsi il proprio spazietto e crogiolarsi nella propria idea di perfezione. Anzi, sono esperienze che nascono con l’intento di mettere in pratica oggi, qui e subito, degli strumenti di cambiamento sociale, pur con le contraddizioni che ci possono inevitabilmente essere e con i limiti sui quali occorre riflettere e ragionare continuamente.

Non capire questo, accomunando l’esperienza delle scuole libertarie a tutto quell’altro mondo di alternativismo che c’è in giro, significa mistificare e generalizzare arbitrariamente. Queste esperienze non hanno a che vedere con la new age, i no vax, la scuola parentale e tutte le altre cose che ci sono, e che hanno tutto il diritto di esprimersi e fare le loro cose. Non sono scuole parentali: è vero che si utilizza una legge dello Stato, quella che consente l’educazione parentale, ma non sono scuole di famiglie che si mettono insieme per soddisfare la propria temporanea necessità e che molto spesso rivelano un prolungamento dell’ideologia familistica all’interno dell’educazione scolastica. Questo non sarebbe un passo avanti dal nostro punto di vista. Sono invece scuole libertarie, che vivono certamente tante contraddizioni e problemi ma che hanno come scopo principale di essere uno dei mezzi di cambiamento sociale in senso libertario e antiautoritario.

È inoltre importante ricordare che il discorso portato avanti dalla Rete per l’educazione libertaria non ha mai messo in discussione le tante buone pratiche che anche all’interno della scuola statale possono avvenire a opera di singoli docenti, o di piccoli gruppi di docenti, ma con la consapevolezza che il sistema scolastico globale, per come si è ormai stratificato, nel suo insieme – non i singoli soggetti che ci lavorano – è irriformabile. È prigioniero del suo paradigma.

 

[M. M.] Ti chiederei di spiegare un po’ come funzionano, come sono fatte queste scuole libertarie, anche solo restando nella realtà italiana. Per rispondere con i fatti…

[F. C.] Provo a riassumere in pochi punti le caratteristiche fondamentali. Sono progetti educativi autogestionari che nascono dalla volontà di un gruppo di persone di dare vita a processi di cambiamento qui e ora, in questo caso nell’ambito dell’educazione e dell’istruzione. L’idea di base è che non esista un curriculo unico ma che, estremizzando, ce ne siano tanti quanti sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che frequentano questo tipo di esperienze. Le decisioni che riguardano la vita della scuola devono esser prese in maniera paritetica tra tutti i membri della comunità, senza distinzioni di età o di altra natura. Non c’è una metodologia didattica privilegiata, ma le varie metodologie e suggestioni che sono state avanzate nella storia della pedagogia vengono prese e utilizzate a seconda del contesto e delle esigenze di chi frequenta queste scuole. Ci sono poi diversi livelli di accentuazione di un aspetto rispetto all’altro: non potrebbe che essere così visto che non tutte le scuole hanno il medesimo modo di procedere, anche se hanno delle caratteristiche comuni. Ovviamente ci sono anche altre caratteristiche che qui non ho tempo per riassumere. Direi che la cosa più significativa è questa: l’apprendimento deve diventare il centro dell’organizzazione e non questa essere piegata alle esigenze dell’insegnamento. Apprendere è un fatto naturale, inevitabile, spontaneo: deve essere incoraggiato, coordinato, problematizzato e non imposto.

Se le persone prima di giudicare e di sparare sentenze assistessero, ad esempio, a un’assemblea di queste scuole (luogo e tempo strategico di ognuna di queste esperienze), dove vengono prese le decisioni, dove si discute e si assumono paritariamente le scelte inerenti alla vita della comunità educante, dai bambini piccoli ai più grandi, capirebbero forse che cosa significa “partecipare”, essere coinvolti in modo libero e spontaneo alla definizione delle regole della propria vita associativa. E capirebbe che l’alternativa allo Stato c’è e si può praticare.

C’è un passaggio di quell’articolo che… davvero non trovo l’aggettivo per descriverlo. Quando usa l’esperienza di una delle nostre scuole, di Verona: l’opinione che i bambini e le bambine devono dare sul proprio insegnate viene definita una delle nuove forme di istituzionalizzazione della precarietà e del licenziamento del personale… siamo davvero alla paranoia più indescrivibile!

 

[M. M.] In pratica, dire che un bambino o una bambina hanno la possibilità di criticare l’operato degli adulti che sono con loro nel processo di autoeducazione, senza temere punizioni e reprimende come capita normalmente nella scuola statale, diventa che il bambino licenzia il maestro. Questi nemmeno capiscono di che cosa stiamo parlando! O forse hanno realmente un tale disprezzo nei confronti di quei percorsi di libertà che riconoscono dignità ai bambini e alle bambine, come soggetti attivi che possono e devono scegliere per poter imparare. Io credo che ci sia anche incapacità di capire che nella scuola statale chi apprende a forza dimentica, non acquisisce davvero un percorso formativo profondo.

[F. C.] Uno dei presupposti dell’educazione libertaria parte dall’idea incontrovertibile che apprendere è un fatto naturale. Nessuno può non apprendere. Io sfido chiunque a dimostrarmi che gli esseri umani non apprendano continuamente in qualsiasi contesto, anche in quelli più tragici. Allora, se apprendere è un fatto naturale che non si può evitare e che viene dalla relazione tra gli esseri umani e tra essi e l’ambiente, come mai, mano a mano che questo processo di apprendimento viene organizzato, istituzionalizzato, valutato con voti ed esami, si affievolisce per non dire che scompare?

Si parla di aumentare il personale, aumentare il tempo scolastico, senza preoccuparsi che il sistema andrebbe cambiato radicalmente alla base. Mettendo al centro non l’insegnamento ma l’apprendimento. Andrebbero organizzate le giornate e gli anni dell’apprendimento a seconda delle domande che vengono poste dagli attori dell’apprendimento stesso, cioè i bambini e le bambine, non tanto sui pregiudizi dell’insegnamento, cioè dell’insegnante. Si tratta di capovolgere il paradigma.

 

[M. M.] Io credo che alla fine ci sia sempre una questione di gerarchia e i piccoli esseri umani, bambini e bambine, devono stare al loro posto, avranno il diritto di dire qualcosa quando avranno acquisito le competenze necessarie. Questo è terrificante perché così si impara l’obbedienza forzata: devo obbedire se voglio essere accettato e riconosciuto. Comunque, di fronte a una scuola statale che sta annegando, tanto più in periodo di pandemia, è evidente l’importanza delle scuole dove i numeri sono volutamente piccoli, dove si dà importanza all’educazione all’aperto, che già in epoca prepandemica rappresentavano un modo più sano e sicuro di stare insieme.

[F. C.] Certo, queste sono tutte scelte fatte con cognizione di causa. La scelta della piccola dimensione, che comporta il moltiplicarsi di tante piccole realtà piuttosto che l’accentramento è una politica scolastica, diciamo così, che va in direzione opposta a quella statale, a prescindere dai partiti che sono stati al governo, che è stata invece quella di chiudere, chiudere, chiudere, per risparmiare.

Un altro caposaldo, che rappresenta un’alternativa anche in questi tempi, è quella che noi chiamiamo “educazione incidentale”, che porta al decentramento dell’istituto scolastico, dalla scuola come edificio verso le tante occasioni che la città, la campagna, la bottega, il campo, l’ufficio etc. possono offrire per l’acquisizione di vere competenze. E non parlo di quelle dichiarate nei documenti scolastici, perché la competenza è la capacità di un individuo di sperimentare e operare in concreto, in una data situazione, le sue conoscenze, intuizioni e abilità. Sfido chiunque a dimostrarmi come questo sia possibile in una classe di trenta bambini che non possono muoversi dai banchi.

Dobbiamo abbandonare una concezione securitaria dell’esperienza scolastica, che è allucinante. Bisogna invece sciogliere la scuola nel contesto sociale in cui vive, utilizzare tutti gli spazi della vita sociale che sono forieri di apprendimento motivato e motivante. Come faccio a sperimentare in un’aula chiusa? Certo, ci sono momenti in cui il sapere ha bisogno di essere sedimentato, e una cosa non esclude l’altra. Ma è stata la scuola statale, che gli autori chiamano pubblica, ad aver escluso in maniera ormai irrecuperabile tutte quelle esperienze di apprendimento che nascono dal contesto. Come diceva Paul Goodman: io non devo addestrare i bambini a rispondere alle mie domande, devo piuttosto stimolarli a porre continue domande.

da qui

 

 

Per una scuola che contenga biodiversità – Claudio Tosi

 

«L’occhio bambino ascolta il territorio, ne saggia le possibilità e le esplora. Chi vuole inserire esperienze ludiche nello spazio urbano deve seguire lo stesso processo e allora, la prima necessaria operazione è piazzare i verbi giusti per un movimento naturale che apra alle possibilità e agli interessi dello sviluppo psicofisico del bambino: correre negli spazi liberi e piani; nascondersi in curve e strettoie; svettare e ruzzolare su dossi e “montarozzi”; camminare in equilibrio su cordoli e muretti sono le naturali aspirazioni di un corpo che si allena a governare la sua forza e affina la calibrazione.
Offrire esperienze educative che tengano conto di questo desiderio naturale aumenta la consapevolezza di sé e permette una crescita nella padronanza del terreno che prelude a una crescita sociale e partecipativa nel proprio territorio.
L’educatore che propone esperienze ludiche deve avere a cuore la congruità dell’esperienza proposta e calibrarla nelle diverse età, sapendo che quello che il bambino costruisce in sé è uno sviluppo allo stesso tempo fisico e sociale e che il sapersi muovere fisicamente gli fornisce quell’autonomia di scelta anche emotiva che, con la crescita, si collega all’aspetto sociale, etico, politico e contribuisce a strutturare una presenza civica dei giovani all’interno del proprio territorio».

A settembre scorso, per un incontro sull’Outdoor durante il Think Green Eco Festival scrissi questo pensiero con il titolo Rischio di gusto: dall’outdoor all’uso della città.
È quindi con un disagio coinvolto che ho letto i due articoli che sono apparsi su Dinamo Press, intorno al tema della scuola parentale e all’esperienza degli Asili nel Bosco.
Mi sento coinvolto, perché la realtà delle scuole all’aperto è animata da molte persone sinceramente preoccupate da una crescente psicosi securitaria che ingessa la Scuola pubblica e rende minoritarie le esperienze «del mondo con il mondo», come sottolinea Luca Fagiano nella sua risposta Asilo nel bosco: altro che selva oscura, qui splende forte il sole.
Disagio, perché il tono ideologico che pervade l’articolo di Angela Pavesi e Michele Del Lago, Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie sembra voler chiudere le porte al ragionamento esprimendo un giudizio categorico prima ancora di averne spiegato le ragioni.

Per mettere insieme il filo del mio ragionamento ho dovuto rileggere a fondo quanto scritto dagli uni e dagli altri, ci ho aggiunto la lettura del precedente articolo di Christian Raimo su “Jacobin” L’asilo neoliberale nel bosco della crisi e ho tessuto il tutto con il mio essere un educatore impegnato nei Cemea, i Centri per l’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva, un movimento pedagogico che da sempre ha nell’azione progettuale dei bambini nel mondo e con l’ambiente uno dei propri assi di riferimento.
Se qualcosa non va con gli Asili nel Bosco, non è certo l’essere nel bosco perché saper interagire nell’ambiente naturale significa acquisire una libertà di azione, di movimento e di incontro con l’inatteso che difendiamo per il suo effetto fertile sulla flessibilità cognitiva, la sua ricchezza di stimoli sociali ed etici e il grande messaggio di unità ecosistemica che porta con sé.

Se la Scuola pubblica sapesse prendere su di sé anche solo una parte della apertura all’imprevisto e al molteplice che anima la giornata di ogni esperienza di scuola all’aperto, porrebbe a radice di tutte le sistematizzazioni culturali della conoscenza la fonte viva delle osservazioni originali dei bambini e ragazzi su ciò che accade intorno a loro nel mondo reale, sia esso rappresentato da un cortile, un terrazzo, un prato o financo un benedetto bosco.
Neanche l’accordo tra genitori e insegnanti mi sembra un tratto negativo di quanto osserviamo nelle scuole parentali, all’aperto o nel bosco che siano. Nella ricerca di soluzioni contro la povertà educativa si fa un gran parlare della Comunità educante e dell’importanza di saper attivare tutte le componenti educative adulte: le famiglie, il tessuto associativo e sociale, i commercianti, le istituzioni, con, centrali e in funzione di coordinamento, gli insegnanti e maestri della scuola pubblica.

D’altra parte entrambi questi concetti sono da sempre teorizzati e praticati dai membri della Lega internazionale dell’educazione attiva, che compie il suo centenario il prossimo anno.
La Lega comprende movimenti come l’MCE, l’educazione cooperativa di Freinet, il metodo Montessori, l’insegnamento di Don Milani, Rodari, la Casa delle arti e del gioco di Lodi, Malaguzzi, il Ceis di Margherita Zoebeli, la Scuola Città Pestalozzi, Don Sardelli, Tonucci, solo per restare in Italia e neanche in modo esaustivo.
Il movimento delle Scuole Aperte e partecipate (Utile a questo proprosito leggere su “Comune.Info” l’articolo di Gianluca Cantisani, presidente del Movi e coordinatore del progetto nazionale finanziato da Con i Bambini), che si è diffuso in tutta Italia, parte proprio da una presenza forte e coerente delle famiglie in termini di coprogettazione con la Scuola e di ampliamento cooperativo, professionale e volontario, di genitori e agenzie educative esterne alla scuola, che integrano e ampliano l’esperienza educativa e formativa dall’infanzia alla piena adolescenza e oltre.

E lo fanno, coinvolgendo o partecipando all’invito delle amministrazioni locali, aprendola alla città, integrando la Scuola nel tessuto sociale che la accoglie, allargando lo sguardo al territorio e tenendo aperto e il più possibile abbassato quel ponte levatoio troppo spesso chiuso da un mal compreso senso di cosa significhi “autonomia scolastica”.
Neanche l’accordo genitori insegnanti, quindi, appare un tratto negativo su cui accanirsi.
Se poi guardiamo alla storia dell’innovazione scolastica in Italia, che vanta pionieristici progetti di singoli e associazioni per l’ampliamento dei metodi formativi e la sperimentazione didattica, comprendiamo l’affermazione di Fagiano circa l’insufficienza dell’offerta scolastica per la fascia del nido, ancora non coperta dal pubblico e non possiamo che convenire con l’importanza di costruire nuclei di alternativa.
E va aggiunto che la sfida dell’apertura, il brivido dell’incontro con la natura, il senso di relazione profonda con l’ambiente offerto dall’esperienza delle scuola all’aperto è impagabile e che alcune soluzioni cooperative, con la scelta di non monetizzare tutto e di agire con economie di scambio e di cooperazione che permettano anche a famiglie con redditi insufficienti di potersi permettere il nido, sono una ulteriore dimensione di critica dell’impianto mercantile di tante scuole private più tradizionali che fanno dell’offerta “protetta e garantita” da solidi valori, spesso confessionali, il loro cavallo di battaglia.
Ma allora perché l’articolo di Pavesi e Del Lago sembra avere una forza e una ragione che resistono al tono con cui è scritto?

Intanto perché a oggi la formula “Asilo nel bosco” appare più come un logo commerciale che come un metodo educativo, con i suoi premi, ammiccamenti fidelizzatori e gergo da marketing con il quale chiama i suoi consumatori a spendere. E, inoltre, perché descrive, con forza, una contraddizione paradossale che rischiano le scuole private e quindi anche quelle innovative che fanno scelte coraggiose circa l’apertura alla biodiversità e all’incontro con la natura: la monocultura sociale.
Dopo la guerra, finito il fascismo, nello sforzo della ricostruzione del paese distrutto, il filosofo Guido Calogero (fondatore del Partito d’Azione prima e del Partito Radicale poi), scrisse l’ABC della Democrazia, per guidare i giovani abituati alla dittatura a riprendere la strada del confronto e del dialogo; proprio aprirsi al Dialogo, l’esporsi al contraddittorio, costituiva per Calogero la certezza dell’essenza democratica.

Chiudersi nella propria idea non costituiva una difesa dell’identità, ma presagiva una difesa della purezza di cui si era avuta una prova troppo feroce di profonda disumanità.

Il rischio che rilevo, e che rimane aperto nella proposta degli Asili nel bosco, è allora non nell’intuizione del metodo educativo, ma nella sua applicazione sociale.
Il rischio, di stampo confessionale, di chiudersi in una nicchia separata, da avanguardia illuminata che non si fa testimone di una possibilità da estendere a tutti, ma portavoce di una richiesta di libertà individuale, che sembra chiedere solo di essere lasciata in pace e si accontenta di salvarsi da sé.
Lo dico da militante di un ente privato, che promuove un metodo educativo attivo e laico che ancora oggi, a 70 anni dalla sua introduzione in Italia, non ha un pieno riconoscimento, ma che da sempre si è messo in dialogo con il sistema pubblico e ha proposto, contrattato, costruito le condizioni per l’apertura delle scuole al territorio, formato insegnanti ai metodi dell’educazione attiva, ideato spazi di incontro e confronto per far vivere pienamente a bambini e giovani il proprio “tempo libero”, che è anche educazione all’incontro con l’ambiente, inteso nella sua ricchezza sociale e naturale; educazione all’ascolto e al dialogo, al rispetto e alla partecipazione.

Pochi giorni fa, il 26 marzo, si è svolta l’assemblea nazionale del Tavolo Saltamuri, un insieme di associazioni enti educativi, sindacati, singoli, che si occupano di Scuola, Costituzione e Formazione all’etica pubblica, al bene comune, alla cooperazione, che nel 2018, di fronte all’attacco governativo verso i figli di stranieri, hanno sentito la responsabilità di porre degli argini, proponendo alle scuole, agli educatori, ai genitori, all’opinione pubblica, una Educazione sconfinata.

La convinzione è che – come si legge nel Manifesto del Tavolo Saltamuri – «le classi sempre più disomogenee costituiscono, di fatto, un laboratorio di futuro, dove sperimentare il superamento dei confini emotivi che separano tra loro persone e segmenti di società, dove prenderci il tempo per costruire ponti che ci aiutino a coltivare l’empatia e la capacità di mettersi nei panni degli altri».
Uno dei tavoli di lavoro si è occupato della sussidiarietà, a partire dall’articolo 3 e fino al Titolo V e l’articolo 118 della Costituzione che attesta che: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà», proprio per ribadire l’importanza che si protegga il bene di un sistema pubblico di istruzione, che se ne salvaguardi l’unità, che si chieda la piena attuazione del diritto all’educazione a partire dai nidi e con la responsabilità di tutte le istituzioni coinvolte, per mettere in risonanza l’ecosistema formativo tra scuola e fuori scuola, riconoscendo centralità alla scuola, come parte di un sistema di cura delle diseguaglianze sociali, un bene comune, un presidio ineludibile di democrazia.

Non nascondiamocelo, la Scuola oggi soffre e fa soffrire, servirà lavorare sulla distanza tra l’impianto gerarchico e l’ideale di realizzazione di ciascuno; l’incredibile precarietà degli insegnanti, ma anche il loro atteggiamento e formazione; l’assurda pesantezza degli adempimenti burocratici; il disagio comunicativo tra gli adulti di riferimento; servirà rileggere Illich («La scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è», diceva in Descolarizzare la società), per scongiurare il rischio di realizzare con la scuola percorsi omologanti, sia per il personale scolastico che per i suoi allievi; servirà, infine, una formazione collettiva ai bisogni concreti di bambini e ragazzi di poter sperimentare e vivere le esperienze e non solo conoscerle, superando un’impostazione da “rischio zero” indotta da un pensiero più assicurativo che formativo.
Ma rispetto all’esperienza delle scuole all’aperto, quello che mi preme e a cui invito tutti gli amici sperimentatori della rete dell’Outdoor è di giocarsi la partita con un altro spirito.
Lo spirito è quello della costruzione di una rete di proposta e dialogo, di sperimentazione e messa in comune, di apporto convinto alla costruzione di una dimensione pubblica di esperienze private che, a pieno titolo, entrino nel mandato costituzionale delle agenzie deputate alla formazione e allo sviluppo della persona umana.
Perché la scuola è un crogiolo di esperienze e permette una crescita consapevole ed emancipatrice quando ci espone ad un ambiente ricco di biodiversità. E questo accade se è garantita questa caratteristica fondamentale: che la scuola sia per tutte e tutti, che sia aperta all’insieme delle idee e delle provenienze, che sia, in una parola, una scuola pubblica.

da qui

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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