Le navi dei dannati – la Sea Watch come la St. Louis, 1939-2019
l’obbedienza non è più una virtù – Articoli di Annalisa Girardi, Giovanni Punzo, Giulio Cavalli, Stefano Coletta e Gregorio de Falco
Sea Watch, la capitana: “Entro in acque italiane. Vite dei migranti vengono prima della politica” – Annalisa Girardi
Carola Rackete, capitana tedesca della nave Sea Watch, che da ormai 13 giorni rimane bloccata a largo delle coste di Lampedusa con ancora 42 migranti a bordo, non ha altra scelta: “Io voglio entrare. Entro nelle acque italiane e li porto in salvo a Lampedusa”, afferma in un’intervista a Repubblica. Rackete sta aspettando il pronunciarsi della Corte europea dei diritti umani, e poi non avrà “altra scelta che sbarcarli lì” perfettamente conscia che verrà accusata di favorire l’immigrazione clandestina, forse anche di associazione a delinquere e che la sua nave verrà multata e confiscata. “Lo so, ma io sono responsabile delle 42 persone che ho recuperato in mare e che non ce la fanno più. Quanti altri soprusi devono sopportare? La loro vita viene prima di qualsiasi gioco politico o incriminazione. Non bisognava arrivare a questo”, aggiunge. Intanto, il portavoce della Corte di Strasburgo, ha affermato che una decisione sarà presa oggi pomeriggio.
Ma lo stallo è ormai la nuova prassi del Mediterraneo: una nave con a bordo dei migranti in balia delle onde, di fronte all’impasse dell’Europa. “L’Italia mi costringe a tenerli ammassati sul ponte, con appena tre metri quadrati di spazio a testa”, racconta Rackete: “Qualcuno minaccia lo sciopero della fame, altri dicono di volersi buttare in mare o tagliarsi la pelle. Non ce la fanno più, si sentono in prigione”. Ci sono anche minorenni, continua la capitana. Tre ragazzi di appena 11, 16 e 17 anni. “In Libia hanno subito abusi. Il 14 giugno ho fatto richiesta al Tribunale dei minorenni di Palermo perché prendesse in carico il loro caso. Non mi ha risposto nessuno”. Nemmeno dal Centro di coordinamento soccorsi di Roma la nave ha ricevuto risposte, afferma Rackete: “Invio almeno dieci mail al giorno alle diverse autorità competenti. Da Roma mi rispondono ‘non siamo responsabili’. Allora chiedo il place of safety, il porto di sbarco, e mi ripetono ‘non siamo responsabili’. Girano tutti i miei messaggi al ministero dell’Interno, dicono di avere le mani legate. È chiaro che il Centro è stato esautorato, è Matteo Salvini che decide e provoca lo stallo”.
Al leader del Carroccio che intima alla Sea Watch di andare in Olanda, Rackete risponde sottolineando quanto sarebbe ridicolo dover circumnavigare l’intera Europa, e spiega che nemmeno Amsterdam collabora: “Non è colpa nostra se il Libia c’è la guerra, ci dicono. Non è colpa nostra se in Africa sono poveri, continuano. Siamo circondati dall’indifferenza dei governi nazionali”. Rackete è pronta ad assumersi tutte le responsabilità della sua scelta: “La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare 3 università, a 23 anni mi sono laureata. Sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito un obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità”.
Giorgia Linardi: “L’Italia e l’Europa stanno trattando i migranti come bestie”
Sulla questione è intervenuta anche Giorgia Linardi, portavoce italiana della Sea Watch, che su La7 ha commentato il ricorso alla Corte europea dei diritti umani e in particolare all’Articolo 3, quello che parla di trattamenti degradanti “riservato alle persone ancora a bordo lasciate a friggere sotto questo sole”. Linardi commenta gli sbarchi per motivi sanitari avvenuti finora, definendo questo modo di procedere “estenuante” e spiegando come spesso renda “sempre più difficile la gestione delle persone rimaste a bordo, che chiedono se lo sbarco avvenga su base razziale o fino a che punto bisogna sentirsi male per essere sbarcati”. La portavoce racconta che alcuni migranti minacciano di buttarsi in mare: “È una situazione che non possiamo sostenere a lungo, stiamo ricorrendo ai rimedi interni e internazionali che la legge mette a disposizione. Dopodiché, se nemmeno questi saranno sufficienti il comandante non avrà altra scelta che prendere le proprie decisioni. Attraverso la corte europea abbiamo dato alle persone a bordo di esercitare in quanto esseri umani, anche se mi pare ce ne stiamo dimenticando, la possibilità di far presente quali siano i propri diritti contro le violazioni da parte in questo caso dello Stato”.
A Salvini che chiama la Sea Watch una nave pirata, Linardi risponde: “Bisogna veramente sforzarsi per mantenere la calma nel commentare questi dichiarazioni fatte da un’alta carica dello Stato che abusa della propria posizione per permettersi di insultare dei liberi cittadini, che indagini di diverse procure della Repubblica italiana hanno dimostrato non colludere in alcun modo con l’attività dei trafficanti”. Quando il ministro dice di portare queste persone in Olanda o Germania, continua la portavoce, sta affermando “qualcosa di fattibile e che anzi poteva essere già essere portato a termine da giorni. Quello che manca è l’ok da parte del ministro dell’Interno allo sbarco. Già dal giorno seguente al soccorso Sea Watch ha fatto presente la situazione in Germania e abbiamo ottenuto la conferma di disponibilità da parte di alcune città tedesche di accogliere le persone a bordo. Anche la chiesa italiana, partendo della chiesa valdese, si è detta disponibile ad accogliere queste persone”.
Ma il leader del Carroccio, prosegue Linardi, nel continuare ad intimare alla nave di sbarcare in Olanda “evidentemente non conosce il diritto del mare che prevede che le persone soccorse debbano essere condotte e sbarcate nel posto sicuro più vicino. Navigare fino in Olanda non avrebbe alcun senso e ne avrebbe anche meno nell’ipotesi di una condivisione delle responsabilità a livello europeo dove queste persone possono essere facilmente sbarcate e poi trasferite in un altro Paese”
Intervenendo invece su Radio CRC, Giorgia Linardi, riferisce quella che è la realtà a bordo della nave: “Le persone sono sempre più debilitate, sono da due settimane a bordo, la temperatura durante il giorno è alta, le persone sono sul ponte al caldo, la notte dormono sul ponte: non siamo su una nave da crociera. È preoccupante lo stato psicologico di queste persone, scoraggia molto: hanno capito questi migranti di non esser voluti. Il nostro Paese li sta trattando come bestie: e lo sta facendo anche l’Europa. Arrivano da queste persone storie irripetibili, non raccontiamo tutto perché sono esperienze terribili e che non vogliono esser condivise”.
La capitana, spiega Linardi, sarebbe voluta entrare in acque territoriali italiane per consentire a queste persone di sbarcare già dal primo giorno, “ma non può farlo per le disposizioni del decreto Sicurezza bis. Non possiamo neppure far sbarcare senza un ok dal Ministero: ci sono città tedesche pronte all’accoglienza, ma per motivi propagandistici non ci fanno sbarcare. Il livello del ministero degli Interni rimane infimo: c’è una società civile che mostra un sistema condiviso di accoglienza, se ciò non avviene è per colpa del governo italiano, ma anche degli altri governi europei: è ridicolo che si ritiene la più grande minaccia per la sicurezza nazionale una nave che trasporta migranti disperati”.
L’appello dei migranti: “Immaginate una persona che scappa dalle carceri libiche e ora si trova qui”
“Siamo stanchi, siamo esausti. Fateci scendere”: anche i migranti a bordo lanciano il proprio appello. In un video, pubblicato da Forum Lampedusa Solidale, parla uno dei migranti soccorsi nel Mediterraneo: “Non ce la facciamo più, siamo come in prigione. Immaginate come deve sentirsi una persona che è scappata dalle carceri libiche e che ora si trova sui, costretta in uno spazio angusto, seduta o sdraiata senza potersi muovere. Inevitabilmente rischia di sentirsi male. Non ce la facciamo più, la barca è piccola e non possiamo muoverci. Non c’è spazio. L’Italia non ci autorizza a sbarcare, chiediamo il vostro aiuto, chiediamo l’aiuto delle persone a terra. Pensateci perché qui non è facile. Manca tutto, non possiamo fare niente, non possiamo camminare o muoverci perché la barca è piccola mentre noi siamo tanti. Non c’è spazio e l’Italia si rifiuta di farci approdare. Chiediamo l’aiuto delle persone a terra, qui non è facile, non è facile stare su una barca piccola. Per favore non ci lasciate qui così, non ce la facciamo più”.
dice il senatore Gregorio de Falco (espulso dal M5S, chissà perché)
Il Comandante della Sea Watch ha la responsabilità di tutelare la nave e le persone che vi sono a bordo. È lei l’autorità che deve valutare le reali condizioni, sia poiché possiede tutti gli elementi di valutazione necessari, sia perché ha il dovere di prendere provvedimenti in relazione a quel fine di tutela.
Ecco perché, nonostante la sua nave e le persone a bordo siano state sottoposte da giorni a veri atti di inciviltà giuridica e di disumanità, in relazione alle concrete circostanze, ha deciso di entrare nelle acque territoriali italiane.
Il ministro dell’Interno che urla sguaiatamente dispone degli strumenti atti a contrastare l’ingresso dei migranti irregolari, che invece quotidianamente fanno ingresso, decine e decine, senza alcuna regola od ordine, mentre si accanisce contro i 42 naufraghi a bordo della Sea Watch, vittime anche mediatiche della costante propaganda, e per i quali, come è noto, è possibile una immediata ricollocazione.
Il Comandante Carola Rackete è persona di alta dignità morale, dimostra una considerevole forza e coerenza rispetto alle responsabilità del proprio ruolo di Comando.
Altri scappano dalle responsabilità, lei invece le assume su di sé, coraggiosamente!
Il transatlantico tedesco St. Louis, a proposito di navi dei dannati – Giovanni Punzo
La prima nave dei dannati
Il 27 maggio 1939 il transatlantico tedesco St. Louis – appartenente alla prestigiosa compagnia di navigazione Hamburg-America Line – gettò le ancore nel porto dell’Avana a Cuba. Adibita solitamente alla rotta Amburgo-New York, nel porto caraibico la nave non si trovava precisamente al suo posto abituale, né d’altra parte si trattava di una normale crociera turistica. I passeggeri erano 937 ebrei tedeschi che nella stragrande maggioranza avevano ottenuto un regolare visto turistico della durata di sei mesi per gli Usa o per un semplice sbarco a Cuba. Infatti, per sopire le polemiche internazionali dopo il grave atto di persecuzione antisemita avvenuto in Germania nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 (la famigerata ‘Notte dei cristalli’), le autorità naziste avevano deciso di non ostacolarne l’espatrio, ma anzi di dimostrare che gli ebrei erano liberi di farlo. Nel frattempo però, cioè dalla data della partenza della nave da Amburgo all’approdo a Cuba, sull’isola era cambiato il regime dei visti e le autorità cubane negarono il permesso, o meglio richiesero un’esosa sovrattassa per concederlo. Dopo serrate e drammatiche trattative poterono scendere a terra solo 22 passeggeri cui fu riconosciuta invece la validità del visto, 4 passeggeri con passaporto spagnolo e uno cubano; fu anche sbarcato con un regolare permesso il corpo di un passeggero tedesco che, terrorizzato dall’eventualità di un ritorno in Germania, si era suicidato a bordo.
Il 2 giugno 1939 la nave fu costretta a lasciare le acque di Cuba e il comandante, unitamente ad organizzazioni ebraiche internazionali, chiese allora aiuto agli Stati Uniti. Il permesso di sbarco fu negato nuovamente: lo stesso presidente Roosevelt, pare su pressione del segretario di stato Corder Hull e di ambienti del partito democratico (pronti a togliergli l’appoggio in occasione delle imminenti elezioni previste per il 1940), non poté accogliere nemmeno ‘a titolo personale’ un piccolo numero di rifugiati come si prefiggeva di fare emanando un ‘executive order’. La motivazione ufficiale del Dipartimento di stato fu che la quota massima di immigrati – secondo la legge federale del 1924 – era stabilita in base alla nazione di provenienza e per l’anno 1939, essendo state accolte già oltre 27.000 persone dalla Germania o dall’Austria, non era possibile accoglierne altre. La nave, dopo una breve sosta al largo della Florida, riprese il 6 giugno 1939 la rotta verso l’Europa, ma in condizioni sempre più drammatiche: a bordo infatti c’era stato anche un tentativo di assumere il comando della nave da parte dei passeggeri esasperati. Il comandante Schröder non trovò allora altra soluzione che dichiarare una grave avaria nei pressi delle coste della Gran Bretagna, ma sulla questione dello sbarco dei passeggeri incontrò il rifiuto anche del governo di Londra. Fu infine obbligato a raggiungere il porto di Anversa il 17 giugno dove poté sbarcare i passeggeri non senza altre serrate trattative.
I passeggeri furono accolti così da diversi paesi europei come rifugiati ‘temporanei’, in attesa cioè di altri visti per l’espatrio: 214 in Belgio, 181 nei Paesi Bassi, 224 in Francia e 254 in Gran Bretagna. In questo paese in particolare solo una cinquantina di adulti maschi, in assenza di altre soluzioni, fu di fatto internata in una struttura militare per rifugiati nel Kent, mentre donne e bambini poterono usufruire di ospitalità privata. A parte quelli che trovarono asilo in Gran Bretagna, quelli rimasti sul continente furono nuovamente in pericolo dopo l’invasione nazista di Belgio, Francia e Olanda nel giugno 1940. Secondo una stima fatta a posteriori sembra che almeno un quarto di essi sia poi scomparso nell’orrore dell’Olocausto. Il comandante Schröder sopravvisse alla guerra e la nave, pur bombardata e gravemente danneggiata, rimase come alloggio galleggiante nel porto di Amburgo fino quasi alla metà degli anni Cinquanta. Solo nel dopoguerra fu anche chiarito che dietro la vicenda della nave c’era un piano preciso orchestrato dal ministro della propaganda del Reich Joseph Goebbels: il visto d’uscita era stato concesso infatti solo per motivi propagandistici dopo le accuse internazionali per la Notte dei cristalli e in previsione dello sconcerto che si sarebbe provocato tra i paesi europei per un numero così elevato di profughi. Goebbels tra l’altro esultò – e se ne trova ampia traccia sulla stampe tedesca dell’epoca – di fronte ai diversi rifiuti di accoglienza: «Non li vuole nessuno!», disse.
Disobbedire è l’unico modo per resistere. E la multa a Sea Watch la pagheremo in tanti – Giulio Cavalli
Alla fine la comandante Carola Rackete ha deciso di rompere gli indugi e sfidare il Capitano Salvini. Sa bene cosa rischia e sa benissimo che non poteva lasciare lessare il suo equipaggio e gli sventurati al limite delle acque territoriali. La guerra di Salvini contro Sea Watch (e più in generale contro le ONG) arriva a un punto di svolta e ben venga la disobbedienza se è l’unico modo per resistere a una politica feroce (e fallimentare) del ministro dell’inferno e dell’Europa intera contro un fenomeno che non si può certo arrestare fingendo di chiudere porti che non sono chiusi.
A Lampedusa sbarcano navi quasi quotidianamente, lo racconta da mesi il sindaco stesso, e a nessun leghista o sovranista viene in mente di contestare quegli arrivi: Salvini ha puntato Sea Watch perché vuole farne un simbolo del suo potere? Benissimo: la capitana Rackete si è presa la responsabilità di diventarlo e di alzare l’asticella della sfida. E ha fatto benissimo: ben venga il processo se serve un processo per ribadire una volta per tutte le leggi internazionali che sono ben sopra a qualsiasi patetico decreto di un ministro che si sente proprietario del governo. Ben venga, una volta per tutte, la disobbedienza di Sea Watch se serve a dimostrare una volta per tutte la vera faccia di questo governo, se ci mostrerà chiaramente gli assetti e tutte le corresponsabilità.
Un ministro che sbava incattivito in una diretta Facebook dichiarando scafisti i membri di una ONG che non è mai stata condannata. Un ministro che sbraita sostituendosi all’autorità giudiziaria (lui che scappa come un coniglio dai processi) e non si accorge di minacciare altri Paesi europei come se stesse giocando a Risiko in sala con gli amici. Un ministro che vorrebbe fare spavento e invece spaventa soltanto per il suo mancato senso dello Stato. Un ministro che si dimentica di stare nel proprio ruolo e si sostituisce al governo, un ministro che offende vescovi, papi, sindaci, scrittori, giornalisti, avversari politici, disperati. Tutti.
Ben venga la disobbedienza se è l’unico modo di resistere. E se Salvini pensa di spaventare le ONG con le sue pene esemplari e i suoi processi allora si renderà conto di quanta gente c’è pronta a pagare l’eventuale multa e a sostenere le spese giudiziarie. È ora una volta per tutti che si pronunci la Giustizia e che si usi la Costituzione. Serviva Sea Watch con la sua nave? Va benissimo così. Si capirà finalmente che il diritto del mare e i trattati internazionali valgono qualcosa in più di una diretta Facebook o di qualche tweet.
Gli ebrei e la nave dei dannati – Stefano Coletta
Questa è la storia di una nave e del suo «carico», dimenticata, per molto tempo, più o meno consapevolmente, e riaffiorata nella memoria italiana con la pubblicazione del libro “La nave dei dannati”.
Una storia che oggi sembra quanto mai attuale e che c’invita a non dimenticare e soprattutto a prendere posizione dinanzi al pericolo dell’indifferenza.
Premessa
In seguito alla promulgazione delle leggi razziali, la vita degli ebrei nei Paesi governati dal regime nazista era diventata difficile e raggiunse il suo acme nel 1939, pochi mesi dopo la “Kristallnacht” (la Notte dei cristalli).
La comunità ebraica tedesca si rese conto che esisteva un piano finalizzato alla loro eliminazione, per questo molti decisero di emigrare, ma non era facile, dal momento che nessun Paese europeo accettava, facilmente, gli ebrei, per paura di vedere piombare una marea di profughi a cui dover sopperire. Nonostante questo, gli ebrei si precipitarono presso le ambasciate delle varie nazioni per chiedere il visto, ricevendo un numero di attesa e la promessa che sarebbero stati contattati, non appena fosse giunto il loro turno. Più le settimane passavano, più la sensazione di disperazione assaliva gli animi degli ebrei, che si vedevano in trappola destinati a non poter sfuggire alla decimazione voluta da Hitler.
A sfruttare questa situazione fu Manuel Benitez Gonzalez, direttore dell’immigrazione di Cuba, il quale «autorizzò», dietro lauto pagamento, nell’aprile del 1939, dei visti d’ingresso. E i fortunati che avevano presentato domanda presso quell’ambasciata si precipitarono ad acquistare un biglietto, di sola andata, per Cuba.
La St. Louis «la nave più disperata sul mare».
La nave che li avrebbe condotti alla salvezza era il transatlantico St. Louis, costruito presso i cantieri navali Bremer Vulkan, di Brema, su ordinazione della società di navigazione “Hamburg-America Line”.
La nave doveva il suo nome al re di Francia Luigi IX, noto con l’appellativo “Il Santo”, aveva una lunghezza di 175 metri, pari a due campi da calcio e una capacità d’imbarco di 973 passeggeri, poteva contare su un potente motore diesel. Subito dopo il suo varo, avvenuto nel 1929, era stata adibita a nave da crociera nelle Indie Occidentali, in seguito aveva servito lungo la rotta Amburgo-Halifax-New York, conosciuta come la “Luxury Liner Row”.
Il fischio di partenza pone termine alla paura
Finalmente, il 13 maggio 1939, il fischio impetuoso del transatlantico annunciò la partenza dal porto d’Amburgo, e tutti i passeggeri «tirarono un sospiro di sollievo», certi che l’incubo delle persecuzioni fosse giunto al termine. Mentre la banchina diventava un puntino e la musica della banda s’affievoliva, le varie famiglie si ritirarono nelle cabine, consapevoli che quell’avventura aveva richiesto un enorme impegno economico; basti pensare che il costo del biglietto di prima classe ascendeva a 320 dollari, mentre quello della turistica era di 240; inoltre l’armatore aveva aggiunto una «tassa d’emergenza» per salvaguardarsi qualora la nave fosse tornata alla meta senza compiere la sua missione. Nessuno ci fece caso, ma forse avrebbero dovuto. L’armatore aveva scoperto che i permessi recanti la firma di Manuel Benitez Gonzalez, direttore dell’immigrazione di Cuba, non avevano alcun valore, perché i 150 dollari a permesso versati, non erano finiti nelle casse dell’erario cubano, come stabilito dal Decreto n. 1507, del 17 novembre 1938, a garanzia delle condizioni economiche degli immigrati. Ben 724 passeggeri, erano muniti anche di visti d’ingresso per gli Stati Uniti, ma questi erano vincolati dal numero progressivo, dal momento che gli ingressi erano, annualmente, limitati. Per cui i passeggeri avrebbero dovuto attendere l’autorizzazione in terra cubana.
A comandare la nave era Gustav Schröder (Hadersleben, oggi Haderslev, 27 settembre 1885 – Amburgo, 10 gennaio 1959); aveva iniziato la sua carriera di marinaio all’età di 16 anni, nel 1902, a bordo della nave d’addestramento “Großherzogin Elisabeth”. Conseguito il brevetto di ufficiale di marina, prestò servizio prima su navi a vela, poi sulla “SS Deutschland”, una delle navi più veloci dell’epoca, detentrice del “Blue Riband”, che copriva la “Hamburg-America Line». All’età di 24 anni gli venne conferito il titolo di capitano; nel 1913 venne inviato a Calcutta, dove, due anni dopo, venne fatto prigioniero dagli inglesi e internato per tutta la durata della Prima guerra mondiale. Non si scoraggiò e trascorse questo periodo studiando lingue, divenendo abile in sette, tra cui l’indi. Tornò in Germania, nel 1919, e si ritrovò senza lavoro, a causa della demilitarizzazione forzata imposta dal trattato di Versailles. Nel 1921 venne ingaggiato dalla compagnia di spedizioni “Hapag” (Hamburg-Amerikanische Paketfahrt-Aktiengesellschaft), nel 1935 venne promosso primo ufficiale della nave “Hansa”. Nell’agosto del 1936 divenne comandante della “MS Ozeana”. Nel 1939 prese possesso, in qualità di comandante, grazie alla sua pluriesperienza della “Hamburg- America Line”, del transatlantico “St. Louis”.
Prima di abbassare le passerelle e far accedere i passeggeri, si rivolse ai 231 membri dell’equipaggio e ordinò che tutti tenessero un comportamento adeguato nei confronti di costoro, non solo perché avevano pagato il biglietto, ma anche perché erano delle persone. Proprio per far sentire a loro agio gli ebrei, Schroder rimosse un grande ritratto di Adolf Hitler dalla sala ballo della nave, inoltre li autorizzò a utilizzarla come sinagoga.
Nel suo diario, Schröder, al secondo giorno di navigazione annotò: «Molti passeggeri sono molto nervosi. Nonostante ciò, tutti sembrano convinti che non rivedranno mai più la Germania. Prima di partire ho assistito a dei saluti alquanto commoventi, per non dire strazianti, frutto della consapevolezza che stavano lasciando non solo gli oggetti, ma anche gli affetti più cari e che non li avrebbero mai più rivisti. Ma sono convinto che grazie al bel tempo, al mare tranquillo, al buon cibo e al servizio adeguato, ben presto gli animi si rassereneranno e regnerà la solita atmosfera dei lunghi viaggi oceanici. Il mare ha il potere di lenire i dolori e di far dimenticare tutte le angosce e le ansie che ci ammorbano sulla terra ferma».
Alcuni giorni prima della partenza, l’armatore dell’Hamburg-America Line gli aveva fatto pervenire il seguente ordine: «La maggior parte dei passeggeri non è autorizzata a sbarcare a Cuba, secondo le nuove disposizioni giunte dall’Havana. Per questo motivo manterrai velocità e rotta ridotti, nella speranza che la situazione, non del tutto chiara, si risolva prima del vostro arrivo». Speranza condivisa dal Capitano. Le nuove disposizioni a cui si riferiva l’armatore erano il Decreto n. 55 del 15 gennaio 1939, con il quale si disponeva che coloro che volevano emigrare a Cuba, dovevano versare una cauzione di 500 dollari, in modo d’assicurare allo stato cubano che non sarebbero divenuti un onere per lo stato. Mentre non c’era alcun onere finanziario per i turisti che volevano visitare Cuba. Benitez Gonzalez, il Direttore dell’Ufficio Immigrazione, aveva venduto dei permessi turistici, spacciandoli per permessi di soggiorno; inoltre s’era intascato le somme, con la conseguenza che il governo cubano non aveva la caparra necessaria per permettere l’accesso agli ebrei. Non appena venne informato, il presidente cubano Federico Laredo Brúissed, una settimana prima della partenza della nave, dichiarò illegali i certificati dei passeggeri della nave St. Louis e, dietro le pressioni della popolazione che, aveva manifestato l’8 maggio contro lo sbarco di altri ebrei in territorio cubano, dispose la chiusura dei porti ai viaggiatori del transatlantico. Mentre nuvole di tempesta si addensavano sul futuro dei passeggeri, il Capitano s’attenne alle indicazioni e compì uno scalo passeggeri a Cherbourg, in Francia, per caricare altri 38 passeggeri; in questo modo il numero totale degli ebrei ascendeva a 937, c’erano solo sei passeggeri non ebrei: un coppia cubana e quattro spagnoli.
Quindi riprese la navigazione che si svolse senza problemi, i passeggeri si rasserenarono e vissero l’avvicinamento a Cuba, con animo sereno e allegro.
Cuba! Cuba ! W Cuba!
Il 27 maggio il transatlantico attraccò a L’Avana, mentre i passeggeri si preparavano a scendere convinti che erano arrivati a destinazione, il governo di Cuba comunicò che solo 28 passeggeri erano autorizzati a scendere dalla nave: di questi 22 erano ebrei, detentori di visti americani validi e prossimi alla chiamata, gli altri 6 erano i cittadini cubani e gli spagnoli. Il resto dei passeggeri poiché detenevano i certificati “Benitez”, senza alcun valore, non vennero autorizzati a scendere. Dinanzi alle proteste e alle scene di panico si scelse di rassicurare i passeggeri di voler vagliare un’eventuale soluzione. Sol, all’epoca un ragazzino di dodici anni, ricordò anni dopo: «Tutti erano spaventati a morte, alcuni passeggeri tentarono di raggiungere la riva a nuoto. Un passeggero di nome Max Loewe, veterano della Prima guerra mondiale, rimase talmente sconvolto dalla notizia che scese nella sua cabina e si tagliò le vene, quindi s’è gettato in acqua. Prontamente, ripescato da un membro dell’equipaggio, venne condotto presso l’ospedale a L’Avana». La notizia del tentato suicidio, nel giro di poche ore, fece il giro del mondo, accendendo i riflettori dei media sulle traversie dei passeggeri della St. Louis.
Il 9 giugno 1939, il New York Times pubblicò un editoriale intitolato «La St. Louis la nave più triste sul mare», e, quotidianamente, pubblicò notizie sulle condizioni dei rifugiati. «Forse Cuba, come ha dichiarato un rappresentante del governo, ha accolto troppi rifugiati tedeschi. Eppure – continuava il giornalista – queste 900 persone chiedono un rifugio temporaneo. Alcune delle barche ruotanti intorno alla nave, sono piene di parenti dei profughi, giunti mesi prima su queste sponde. Costoro cercano d’intravedere i volti dei loro congiunti, di mandare un saluto e, soprattutto, d’infondere il necessario coraggio per affrontare questi momenti difficili».
Al termine della settimana, il governo confermò la decisione di chiudere il porto ai chiedenti asilo, con la conseguenza che il capitano Schröder dovette comunicare che avrebbe ripreso il viaggio di ritorno con destinazione Amburgo.
Inutili i tentativi di risanare la situazione dei raggirati, non per impossibilità politica, ma per paura che l’isola di Cuba, in poco tempo, brulicasse di profughi ebrei.
Il capitano Schröder, prima di lasciare il porto, inviò un cablogramma al Presidente cubano ricordandogli che il destino dei suoi passeggeri era frutto della sua ostinata decisione.
Nel frattempo, rilasciò il seguente comunicato stampa: «Il governo cubano ci sta costringendo a lasciare il porto. Ci hanno permesso di rimanere qui fino all’alba di venerdì, poi dovremo levare le ancore. La partenza non ha frutto dell’interruzione dei negoziati, ma espressa volontà delle autorità cubane. Io e l’armatore rimarremo in contatto con tutte le organizzazioni ebraiche e con qualunque ufficio governativo che sia disposto a collaborare per addivenire a una soluzione favorevole per i passeggeri. Per il momento costeggeremo le coste degli Stati Uniti».
Fu così che due giorni dopo, la nave lambiva le acque internazionali della Florida, situazione che motivò i rappresentanti delle comunità ebraiche americane e, anche, molti simpatizzanti a perorare la causa dinanzi al Presidente Franklin Delano Roosevelt.
America! America! Terra di speranze disilluse!
I cittadini americani s’erano appassionati a leggere le vicende di quei «dannati»; iniziarono a tempestare la Casa Bianca di lettere; un undicenne di Tacoma, Dee Nye, scrisse alla First Lady: «Madre del nostro Paese, sono molto triste che il popolo ebraico debba soffrire in questo modo. Per favore, lasciali entrare in America… A casa mia abbiamo tre camere vuote, mia madre sarebbe felice di poter accogliere una famiglia».
Roosevelt ricevette anche una serie di appelli dal capitano della St. Louis, a cui non rispose, mentre il 4 giugno, A. M. Warren, Direttore della Sezione visti del Dipartimento di Stato chiuse, formalmente, i porti alla St. Louis, giustificando la decisione con la seguente dichiarazione: «I rifugiati tedeschi sono in attesa del loro turno per accedere negli Stati Uniti. Del resto la quota di immigrati ammessi per quest’anno è stata raggiunta».
Il Governatore delle Isole Vergini si rese disponibile di accogliere, temporaneamente, gli ebrei, a condizione che il Presidente Roosevelt l’avesse approvata, ma costui la rigettò sostenendo che si apriva un canale per permettere l’ingresso in territorio americano di spie naziste travestite da rifugiati. Ragion per cui il 7 giugno, meno di un mese dopo la partenza d’Amburgo, la St. Louis rivolgeva la prora verso il vicino Canada, ultima nazione presso cui perorare aiuto, prima di dirigersi verso Amburgo.
Canada: terra d’emigranti?
Mentre la nave era a due giorni dal porto di Halifax, all’inizio del giugno 1939 il leader della comunità ebraica del Canada, sostenuto anche dalla popolazione, presentò una petizione al governo federale riguardante la possibilità di offrire rifugio ai passeggeri ebrei della St. Louis. Il New York Times scrisse: «Possiamo solo sperare che in qualche parte del mondo i cuori si addolciscano e offrano rifugio. La St. Louis grida al cielo la disumanità dell’uomo verso l’altro uomo». Il 7 giugno 1939 George Wrong, autorevole sacerdote e storico dell’Università di Toronto, inviò un telegramma al Primo ministro Mackenzie King supplicandolo di mostrare «la vera carità cristiana» e di offrire ai passeggeri ebrei un rifugio sicuro in Canada. La petizione era firmata da trentasette donne e uomini influenti della città di Toronto tra cui B. K. Sandwell della rivista Saturday Night; Robert Falconer, ex presidente della Università di Toronto, e Ellsworth Flavelle, un ricco uomo d’affari.
Prima di rispondere alla petizione, Oscar Skelton, sottosegretario di Stato per gli affari esteri, scrisse al Primo ministro, osservando che dal gennaio 1939 un centinaio di immigrati era stato ammessi in Canada con Ordini speciali del Consiglio dei Ministri, perché non si adattava ai criteri stabiliti dalle leggi sull’immigrazione. Tra costoro il 60% era costituito da ebrei. Quindi, in linea teorica, si sarebbero potuti accogliere, ma Wrong decise di rigettare la petizione con la seguente motivazione: «i viaggiatori del St. Louis non avevano presentato alcuna richiesta formale finalizzata a poter immigrare in Canada, inoltre le leggi sull’immigrazione prevedevano persone con capitale d’investimento o con perizia tecnica e scientifica» situazione in cui non rientravano gli ebrei. Concluse: «Il governo canadese non ha adottato il sistema di quote di ammissione come hanno fatto gli Stati Uniti. Non ammette gli immigrati per scopi temporanei in attesa di passar in altri Paesi, com’è avvenuto, fino a poco tempo fa, a Cuba. Né ammette, per periodi brevi, la presenza di immigrati come avviene in alcune nazioni europee».
In effetti la situazione degli ebrei tedeschi era del tutto particolare, ed era stata rappresentata, alcuni mesi prima, sempre, da George Wrong al governo canadese. In quell’occasione aveva messo in evidenza che la nazione canadese era «un vasto territorio vuoto» e che i canadesi non avvertivano il pericolo che correvano gli ebrei in Germania. Il Primo ministro, Mackenzie King, s’era impegnato, nella sua risposta, a operare per contribuire a risolvere il «più sconcertante dei problemi internazionali» e così concluse: «Mi chiedo fino a che punto possiamo arrivare, senza peggiorare le condizioni di coloro che vogliamo aiutare». La risposta vaga lasciava intravedere una remota possibilità di aiuto, qualora se ne fosse presentata l’occasione.
Un ruolo determinante, in questa storia, venne giocato da Frederick Blair, il direttore dell’Ufficio per l’Immigrazione canadese, manifesto antisemita, che dichiarò «il Canada ha già fatto troppo per gli ebrei, del resto nessun Paese sarebbe in grado di poter accogliere tutti gli ebrei che vogliono lasciare l’Europa, bisogna pur fissare un limite». Il Canada aveva dovuto affrontare all’inizio degli anni 30 una grave depressione, per cui gli ebrei erano visti come una minaccia economica e anche linguistica, dal momento che i francofoni temevano che gli ebrei avrebbero imparato l’inglese e quindi avrebbero capovolto gli equilibri di potere. A fomentare la ventata di antisemitismo furono anche i sacerdoti cattolici del Quebec, predicando messaggi antisemitici, ricordando che gli ebrei avevano ucciso Gesù Cristo e molti canadesi abitanti nelle zone rurali era convinti che non era vero che i nazisti perseguitassero gli ebrei e attribuivano a quest’ultimi la crisi internazionale, dal momento che secondo costoro controllavano le borse. King era ben consapevole di questa situazione e non volle rendersi impopolare in vista dell’approssimarsi delle elezioni, per cui assecondò il respingimento, motivandolo come frutto di una mancata richiesta dei passeggeri.
Tale atteggiamento venne condannato, un mese dopo, il 19 luglio, dal Winnipeg Free Press che concluse l’articolo nel seguente modo: «Anche il Canada ha bisogno delle industrie i rifugiati stanno portando negli Stati Uniti. C’è bisogno di talenti e mestieri che la nostra xenofobia ha finora limitato».
Il viaggio di ritorno continua
Dinanzi all’ennesimo rifiuto, il capitano Schröder diede l’ordine di puntare verso Amburgo, anche se in cuor suo aveva deciso di arenare la nave lungo le coste inglesi, pur di salvare i suoi passeggeri. Quindi, riunì sul ponte della prima classe i viaggiatori e comunicò: «Nonostante la situazione difficile la compagnia di navigazione rimane in contatto con varie organizzazioni e organismi ufficiali allo scopo di tentare uno sbarco fuori dalle coste della Germania. Nel frattempo, ci spingeremo nei mari del Sud America, in attesa di ricevere buone notizie». La notizia non confortò i passeggeri, che si resero conto che era impossibile, per la nave, fare scali non autorizzati, anche perché c’era il problema del carburante. Il capitano Schröder aveva appena terminato il suo discorso e stava rientrando sul ponte di comando, quando assistette a una scena che lo colpì profondamente e che annotò nel suo diario: «Due ragazzini avevano creato, utilizzando le sedie a sdraio del ponte di 1ª classe, un muro, con un unico ingresso. Loro s’erano posti a controllo dell’ingresso, quindi si presentavano dei bambini che chiedevano di poter entrare nel loro territorio. Le due guardie chiedevano: “Sei ebreo?” “Si” rispondeva un bambino. “Mi dispiace, gli ebrei non sono ammessi!” urlava la guardia”. “Oh, per favore fammi entrare. Sono solo un piccolo ebreo.” Ma i bambini-guardie iniziavano a gridargli contro e a spintonarlo via. Il gioco tragico consisteva nel riuscire nel rimane vicino all’ingresso nonostante tutto».
Il morale dei viaggiatori peggiorò e per questo venne creato un gruppo di passeggeri atto a prevenire eventuali colpi di testa da parte dei compagni di viaggio.
Il 13 giugno, mentre la St. Louis era in alto mare, all’incirca a metà del viaggio di ritorno, Morris Troer, capo delle operazioni europee della Jdc (Jewish Joint Distribution Committee), inviò un cablogramma al capitano Schröder che annunciava: «Disposizioni finali per lo sbarco di tutti i passeggeri a bordo. Sono felice d’informarti che i governi del Belgio, dell’Olanda, della Francia e dell’Inghilterra si sono resi disponibili ad accogliere gli ebrei a bordo». Per la precisione la Francia era disposta ad accoglierne 224 rifugiati; il Belgio 214; i Paesi Bassi 181 e la Gran Bretagna 287. Non appena il cablogramma venne reso noto ai profughi, questi chiesero al Capitano di rispondere con il seguente testo «I 907 passeggeri del St. Louis che da tredici giorni oscillano tra due sentimenti contrastanti: speranza e disperazione, vogliono porgervi la loro immensa gratitudine, grande come l’oceano su cui stiamo fluttuando. Accettate i nostri ringraziamenti più profondi ed eterni da parte di uomini, donne e bambini uniti dallo stesso destino e dal medesimo sogno: la libertà». Oltre a questa, il capitano Schröder inviò a Morris Troper il suo ringraziamento: «Prima di lasciare Anversa voglio ringraziarti per la disponibilità e la collaborazione offerta. Soprattutto per il sostegno e l’operato che hai svolto a favore della ridistribuzione dei miei passeggeri. Ti comunico, inoltre, che i Rhuputis sono stati destinati al contingente francese, mi hanno detto che cercheranno di passare in Inghilterra. Mi unisco ai passeggeri nel rinnovare il mio personale ringraziamento e apprezzamento per tutto ciò che hai fatto». Il 17 giugno la nave venne ancorata al molo di Anversa, in Belgio, e i passeggeri, appena scesi, si resero conto che dovevano sbrigarsi, perché i lampi della guerra si stavano addensando sull’Europa. Dei passeggeri sbarcati, solo 87 riuscirono a emigrare prima del 10 maggio 1940, quando la guerra aveva avvinghiato l’intera Europa. 254 vennero arrestati poche settimane dopo il loro sbarco, furono deportati nei campi di sterminio di Auschwitz e Sobibór, dove morirono. Dei restanti non si ebbero più notizie, quasi sicuramente alcuni vennero arrestati, altri riuscirono a fuggire verso la Spagna, altri morirono mentre tentavano di sfuggire al loro destino.
Il capitano Schröder riprese il mare al comando della St. Louis, ma senza passeggeri, a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Di ritorno dalle Bermuda, Schröder evase un blocco della Royal Navy e attraccò nella neutrale Murmansk. Con un equipaggio minimo a bordo, riuscì a superare le pattuglie alleate e raggiunse Amburgo il primo dell’anno del 1940. Gli fu assegnato un incarico e mai più andò al mare. Dopo la guerra, ha lavorato come scrittore e ha cercato di raccontare la sua storia. Venne riconosciuto il suo operato a favore dei profughi e, per questo motivo, non fu processato. Ricevette molti elogi e nel 1957 fu insignito dell’Ordine al merito dalla Repubblica federale tedesca: «per i servizi alle persone e nel soccorso dei rifugiati». Nel marzo del 1993, lo Yad Vashem lo onorò come Giusto tra le nazioni. Gustav Schröder morì, nel 1959, all’età di 73 anni.
anche l’anno scorso avevamo scritto della St. Louis, qui
Grazie di questa mega opportunissima pubblicazione che giunge nel momento giusto!
Speriamo che qualche sprazzo di ottimismo che mi pare di vedere qua e là riguardo alla situazione attuale italiana sia giustificato.
QUESTO IL COMUNICATO DI SEA WATCH ( in riferimento alla PETIZIONE effettuata nei mesi scorsi) DOPO LA SENTENZA ODIERNA DEL TRIBUNALE DI PALERMO CHE DISSEQUESTRA LA NAVE:
La Sea-Watch 3 è libera! ❤️
Anne & Sea-Watch e.V.
19 DIC 2019 —
Cara sostenitrice, caro sostenitore di Sea-Watch,
Proprio poco prima dell’arrivo del Natale, arriva la notizia che stavamo tanto aspettando. La Sea-Watch 3 è libera!
Sea-Watch ha vinto oggi l’appello in tribunale contro la detenzione illegittima della nostra nave, dopo che ci hanno impedito di lasciare il porto dal 29 giugno scorso. Questo verdetto, dopo un lungo periodo di criminalizzazione, intimidazioni e incriminazioni contro le operazioni di soccorso in mare, conferma che le autorità non hanno alcuna ragione per trattenere in porto la Sea-Watch 3, un gesto che da tempo pensiamo essere prevalentemente legato a ragioni politiche, nonché la legalità del nostro lavoro.
Dopo essere rimasti bloccati con la nostra nave nel porto di Licata per quasi sei mesi, ci stiamo ora preparando a riprendere il più velocemente possibile le missioni di soccorso!
L’anno si è concluso con un’importante vittoria, ma questo 2019 è stato un altro anno in cui le istituzioni europee si sono ancora una volta superate nel continuare ad ostacolare le operazioni di soccorso in mare.
È stato un anno di blocchi, di divieti, di criminalizzazione. Mentre continuano discussioni assurde sul soccorso in mare e sui diritti umani, noi continuiamo a difendere questi valori. Senza compromessi!
L’estate scorsa, dopo un’odissea durata settimane, la nostra capitana Carola Rackete ha finalmente provato che non si possono chiudere i porti in faccia ai diritti umani. Non è accettabile per alcuna ragione che uomini, donne e bambini rimangano in balia del mare, o siano abbandonati ad affogare nel silenzio del Mediterraneo.
Anche se bloccati, troppe volte e illegittimamente, abbiamo sfruttato ogni nostro mezzo, in acqua o dal cielo, per continuare a soccorrere chi è costretto a sfidare il mare. Siamo riusciti a salvare centinaia di persone che non avrebbero avuto scampo senza i nostri sforzi. Le nostre missioni devono continuare. Per questo, Sea-Watch si sta preparando a riprendere le le operazioni con la nostra Sea-Watch 3, ma sta preparando anche un’altra nave e un altro aereo, per tornare in mare nel 2020.
Aiutaci a continuare a salvare! Con il tuo aiuto tramite una donazione per Natale o diventando socio sostenitore, lavoreremo insieme per combattere l’indifferenza dell’Unione Europea e per mandare nuove navi nelle acque di un mare che è il confine invisibile più letale al mondo.
Grazie di cuore, e buone Feste.
Johannes Bayer
Sea-Watch e.V.