La Sonata di Wolf

di Diego Rossi (*)

copertina di Francesco Frankie de Stena disegnata appositamente per il racconto di Diego Rossi.

 

Gli incrociatori spaziali si allontanavano dalla Cintura di Orione per l’unica ragione di far rispettare la legge. Non c’erano interessi commerciali o di esplorazione stellare sulla terza spirale della Via Lattea.

Le navi robotiche percorrevano undici miliardi di chilometri in un sol, viaggiando per anni a circa due terzi della velocità della luce. Non avevano equipaggio, fatta eccezione per il carico di detenuti della peggior specie che trasportavano.

Stivati in celle che si aprivano su un’unica area comune, i condannati scontavano la pena affrontando la solitudine del lungo viaggio. Sarebbero marciti nei ricordi più cupi, per poi essere trapiantati su un mondo dimenticato, privo di una civiltà tecnologica evoluta.

Laggiù esistevano solo pianeti inospitali, dove le temperature estreme di imprevedibili inverni si alternavano a estati asfissianti e dalla durata infinita.

I prigionieri avrebbero terminato gli ultimi anni da miserabili, passati a vagare in una gabbia fatta di deserti di sabbia e acuminati pendii di rocce. Sottoposti a condizioni di vita insopportabili, sarebbero stati sbranati da qualche bestia aliena o sopraffatti dagli elementi.

Questa rappresentava un’ultima occasione di riscatto. Come gli schiavi dell’antichità affrontavano i leoni in un’arena, così quei reietti erano lasciati senza cibo né armi in una terra ostile.

La legge della galassia mascherava il gusto di vederli morire con la falsa speranza. In fondo, la loro disperata lotta era il più straordinario degli spettacoli.

 

Skafloc

Skafloc aveva la testa di ariete: dalla folta criniera spuntavano corna prominenti che si attorcigliavano alle tempie. La fronte appariva stretta e dura, le iridi rosse brillavano al buio, il lungo muso si chiudeva sulle labbra umettate. Una goccia di bava pendeva dall’angolo della bocca. Digrignava denti larghi, viscidi, schiumosi.

Alto due metri e quaranta, Skafloc era un colosso. Aveva gli addominali scolpiti dal continuo esercizio, con petto e braccia ricoperti da una spessa pelliccia.

Emerse sulla soglia illuminata dall’ampia paratia, che lasciava entrare i raggi bluastri dei due soli del quadrante.

Skafloc avanzava, seguendo la lingua nera della sua ombra, che lo precedeva, e lambiva il luogo più tetro della stretta galleria tra le stelle. Le singole celle, anguste e prive di porte, stavano oltre la cupola circolare che delimitava l’area comune della ruota gravitazionale.

Lì stava Wolf, che non aveva lasciato il suo angolo fin dall’imbarco. Vestito tutto in marrone e ambra, si era rintanato in una nicchia, completamente avvolto dall’oscurità. Seduto, vigilava il suo nascondiglio da un fondo obliquo e ombroso, tagliato dalla scarsa luce nel lato spoglio della sua cella.

Qualcosa scattò in Wolf quando sentì avvicinarsi Skafloc. Invisibile, lo osservò esitare, fermandosi a qualche metro di distanza proprio davanti a lui. Skafloc sembrava una statua di bronzo, con tutti i sensi tesi alla ricerca del suono più debole. L’istinto sembrò risvegliare la mente di Wolf dal torpore di un interminabile inverno. C’era un acuto luccichio nei suoi occhi, uno scintillio gelido sotto sopracciglia scure e irsute, scrutò Skafloc mentre avanzava ancora di qualche passo.

Dei novantacinque detenuti Skafloc era stato il secondo a camminare imperiosamente in quella direzione, proprio verso Wolf, consapevole che il primo, una massiccia salamandra di cento chili, non avesse fatto ritorno.

I suoi zoccoli battevano come pesanti magli sulla lastra metallica fusa al pavimento. Della divisa erano rimasti soltanto i pantaloni allacciati stretti alla vita e alle caviglie sporgenti.

Il suo popolo di ribelli era stato sconfitto e Skafloc, Principe decaduto, ora appariva la più possente delle creature imprigionate. Gli altri detenuti provenivano da sistemi conosciuti, condannati alla stessa morte o alla schiavitù per colpe poco giustificabili.

Non Wolf, che apparteneva per metà a una specie maledetta. Non c’erano state accuse né processi per lui, ma solo una veloce condanna.

Per rispettare la legge, un cacciatore di taglie in uniforme nera lo aveva immobilizzato con un lampo bianco e aveva ucciso la moglie sotto i suoi occhi, polverizzandola con un fulminatore laser. Il viso di Wolf da allora si era contorto in un’espressione gelida, come colpito da una ragnatela di stregoneria, aliena e distante, come se rivivesse perennemente il momento tragico che aveva subito, prima di essere stato imbarcato verso i mondi selvaggi.

Skafloc aveva letto lo spavento negli occhi dei compagni, e le loro anime che si ribellavano solo per aver nominato Wolf, lo avevano malignamente attratto.

Voleva avvicinarsi a quella fiamma e capire cosa rendesse tutti tanto irrequieti. In fondo, il suo piano consisteva nell’alleanza dei superstiti e nel provare a resistere a un destino terribile che era stato imposto loro.

Per questo motivo doveva provare anche con Wolf.

«Com’è possibile…», mormorò Skafloc, arrestando di colpo il passo.

Dall’ombra era emerso un viso magro, solcato dagli zigomi sporgenti. Le orbite erano affaticate, terribili, velenose; un cenno di barba spiccava sulla carnagione pallida, scavata da labbra serrate, quasi invisibili. Sotto gli occhi di Skafloc il volto di Wolf divenne stranamente offuscato e irreale, non c’erano chele, corna, denti o squame, né una bocca di serpente spalancata a proteggerlo.

Skafloc aggiunse, solo pensandolo, «Come può incutere timore un essere così esile, glabro, privo di forza e…», non terminò la frase che Wolf lo trafisse con il suo sguardo triste. Penetrò nella sua incertezza e finì lui a mezza bocca il pensiero che Skafloc aveva iniziato:

«Ti chiedi come si possa avere paura di me?».

Il taglio che Wolf aveva sul mento si rianimò in un sorriso sinistro.

Skafloc non aveva mai visto una creatura tanto vulnerabile. Eppure Wolf era solo per metà così debole, Skafloc sapeva che lui possedeva anche una forma più possente In qualche modo poteva risvegliare un insaziabile desiderio di uccidere e qualcuno raccontava di avergli visto spezzare in due il collo di un detenuto che lo aveva sfidato, entrando nella sua tana.

«Mi aspettavo un predatore», disse Skafloc deluso.

Il viso di Wolf fu attraversato dal chiarore infinito, raggi cupi cadevano dalle stelle palpitanti nel fiume nero dello spazio. Attraverso le palpebre socchiuse gli occhi brillarono di un fosco alone dorato, mentre si spostava:

«Ecco il mio aspetto da rinnegato. Guarda bene la ragione della mia condanna. Si racconta che la mia razza un tempo dominasse la Via Lattea, ed avesse l’aspetto che disprezzi adesso, debole all’apparenza, ma dotata di straordinaria abilità e astuzia».

«Fu sterminata mi sembra, e ti sei salvato solo perché hai tenuto nascosta questa tua forma. Antiche superstizioni dicono che riusciresti a confondere la mia mente, a lanciare sortilegi, ma io cerco un guerriero e non un mago».

«Non c’è magia più grande della conoscenza, Principe Skafloc».

«Sono qui per offrirti un’alleanza, Wolf. Tuttavia voglio proporla alla metà guerriera e non a questa forma maledetta che non conosco».

«Ti credi invincibile, Principe. Pensi che la tua banda di belve abbia maggiori possibilità unendosi su un pianeta ostile?».

«Sono trascorsi più di tremila sol e solo cinque di noi sono morti. Volevano spezzarci e noi abbiamo resistito».

«Principe Skafloc, conserva le energie, non permetteranno mai che restiamo tutti insieme, non ci avevi pensato?».

Skafloc serrò i pugni e strinse i denti in un grugnito di disapprovazione.

Le parole di Wolf arrivarono come coltelli:

«Sei un capo, ti sei fatto amici e hai ucciso i nemici, eppure il tuo piano andrà in mille pezzi quando arriveranno i robot guardiani. Basteranno sonniferi nel cibo e ti risveglierai nudo, solo, su una terra desolata. È la solitudine il nostro destino. Pianeti diversi o estremi opposti dello stesso pianeta. Sopravvivremo alla fame e agli elementi?».

La testa di montone di Skafloc si chinò leggermente in avanti. La sua sicurezza interiore vacillò.

«È questa incertezza che sento crescere nel cuore, una radice di paura e di dubbio sono il segreto della sua stirpe?», pensò.

Abituato a primeggiare in forza, a Skafloc parve di non sopportare il peso di una riflessione che aveva il sapore amaro della verità.

Wolf non aveva finito. Si avvicinò ancora.

Il suo viso giocava a sparire e ricomparire tra i vapori dei generatori di ossigeno. Wolf con entrambe le mani ne afferrò una di Skafloc. Il suo tocco si rivelò gelido, la sua stretta leggera.

«La cosa più divertente è che ci stanno osservando. Siamo un giocattolo, intratteniamo le loro feste e le loro cene».

Le iridi rosse di Skafloc brillarono.

«Ci spiano dunque, maledetti, ridono di noi, delle nostre alleanze e scommettono sulle nostre lotte!».

Si bloccò e chiese a Wolf:

«Se non è per resistere. Cosa ti aggrappa a un futuro così misero?».

Una parola lucente, appuntita e inattesa, strappò la penombra; galleggiava sul brusio di altre conversazioni lontane, perse nella cupola alla fine del corridoio tra le stelle. In cima a tutte le altre voci quella parola si piantò nel fondo della mente di Skafloc, schiacciando ogni altro pensiero.

Fu appena un sussurro:

«La vendetta».

Skafloc percepì il veleno di Wolf rodergli l’anima. Stargli vicino trasmetteva una sgradevole inquietudine, portando dubbi, amarezza e sentiva tutto il suo rancore ardere, fino quasi a traboccare dalla gola.

Sbarrò gli occhi e ripeté con tono baritonale:

«VENDETTA!».

Le pareti gli fecero eco.

Arrivò il coro di novantatré fiere non più legate da alcuna catena, né fisica né mentale. Avevano smesso di parlare tra loro e con una sola voce e nella lingua del sistema risposero al suo grido insieme:

«VENDETTA,
VENDETTA,
VENDETTA!».

 

Wolf

Wolf sentì la vista annebbiarsi e capì che il momento stava arrivando.

Con un rapido movimento del capo vide che alcuni detenuti si stavano accovacciando a terra. A uno a uno cadevano addormentati.

Il sistema di sicurezza scattò. Un gas impalpabile filtrava dalle paratie contenitive. Le luci si erano fatte rosse e pulsanti. Doveva sbrigarsi. Da un nascondiglio vicino ai polsi fece emergere le due microcamere che era riuscito a collegare al suo modulo olografico.

Aveva spezzato il collo a uno dei compagni di viaggio più violenti, era una feroce salamandra dagli occhi fiammeggianti. Irascibile, lo aveva provocato inscenando una lite, solo per impossessarsi anche del suo riproduttore olografico.

Temeva che i robot guardiani potessero sottrarglielo prima dello sbarco.

Aveva avuto tremila cinquanta sol di reclusione sulla nave per scovare due telecamere di sicurezza e adattarle a uno di questi riproduttori, poi opportunamente occultato.

Wolf fissò in posizione orizzontale un oculare delle dimensioni di un ago sul collo della divisa e l’altro lo allacciò alla caviglia destra, rivolto verso le suole degli stivali. Lasciò in bella vista il secondo involucro rubato, ancorandolo alla cintura. Ebbe appena il tempo di avviare la registrazione.

Perse i sensi.

Wolf aveva ripetuto a sé stesso infinite volte il suo ragionamento. Era partito da un punto ovvio, l’incrociatore doveva rientrare per occuparsi di un nuovo carico di prigionieri. Durante lo sbarco non avrebbero rischiato di interferire con qualche società primitiva di quei pianeti.

Inutile pensare a una o più capsule di atterraggio, avrebbero impiegato troppo tempo per raggiungere luoghi inaccessibili, e sarebbero divenute un potenziale mezzo di fuga per i detenuti. L’unico sistema rapido per trasportarli in luoghi molto lontani tra loro poteva essere trovato sfruttando l’atmosfera del pianeta…

«Un paracadute, doveva essere questa la soluzione più ovvia!» si era ripetuto più volte.

Wolf aveva costruito tutto il necessario per riprendere il suo atterraggio sul pianeta.

Aveva stimato circa seicento secondi per individuare dall’alto fiumi e ripari, ma sarebbe stata anche un’occasione per comprendere meglio il movimento dei soli azzurri.

Il mondo si sollevò sotto la microcamera ancorata alle caviglie.

Un’immensa massa bruna mostrò due continenti separati dall’oceano.

L’abbagliante splendore di coste di cristallo tagliava sterminate foreste, gli ultimi alberi crescevano a strapiombo verso le onde del mare agitato. Il paracadute passò sopra la fiamma viva di un vulcano.

Wolf dormiva e in sogno gli parve di sentire la voce dei suoi antenati.

La facoltà di infrangere le barriere del tempo, rendendo le cose morte vive, era il potere più temuto della sua gente.

Wolf rivide in sogno sua moglie Sharon. Lei era bellissima, indossava l’abito nuziale. Non avevano fatto in tempo ad avere figli, e quello era stato un bene, viste le conseguenze.

Mentre le nuvole precipitavano basse, sotto i suoi piedi, Wolf era perso nel viso di Sharon, si confondeva nel dormiveglia causato dalla droga.

La bellezza di una dea danzava nel riflesso dell’alba, era una visione che traeva forza dalla luce del mattino e gli restituiva fiducia.

Sharon rideva nel suo sogno, sembrava in pace. Una frase accarezzò le sue orecchie:

«Wolf, ho avuto una vita densa e una fine coraggiosa. Non lasciare che lo sconforto ti assalga. Combatti con fierezza i pericoli che si presenteranno», un tremito nella voce la interruppe, ma poi si riprese, «Non sarai l’ultimo, cerca la speranza; Wolf, il tuo sangue non morirà con te!».

La vela di discesa si era impigliata a una roccia sporgente. Wolf riprese i sensi fissando il vuoto di un crepaccio. Accusò difficoltà a respirare, colto da un senso di oppressione, indotto dalla pesante forza di gravità del pianeta.

Ripensò ai calcoli che faceva ogni sera, prima di coricarsi nella cella dell’incrociatore.

Aveva imparato a fare stime e piani, osservando ogni sistema stellare a cui si avvicinavano. Di questo aveva memorizzato una serie di informazioni che ripeteva ossessivamente: «Siamo in autunno, la distanza approssimativa dai due soli è di dieci milioni di chilometri, bisognerà prepararsi per l’inverno o raggiungere luoghi caldi. Cibo, acqua, rifugi per la notte, il fuoco. Ci saranno specie intelligenti?».

Le cinghie del paracadute si stavano polverizzando, così nella grossa vela sopra la sua testa emersero profondi strappi.

L’apparato di discesa si stava autodistruggendo.

Con una mano afferrò una radice che si era avvinghiata alle lastre di pietra: flettendo la schiena si aggrappò a un costone.

In basso iniziava a vedere le chiome verdi degli alberi. In alto, da dietro la spalla, scorse l’accesso a un punto più sicuro, roccioso e scoperto. Puntò verso questa insenatura per mettersi in salvo.

Si arrampicò con difficoltà, senza trasformarsi in predatore. Facendo leva sulle braccia e afferrando le rocce con le dita, ripeté a sé stesso un oscuro mantra: «Riposa Wolf! Respira! Lascia che la furia che senti crescere dentro svanisca. Richiudi la breccia nel tuo cuore, addormenta la brama primitiva che spezza in due la tua anima. Arriverà il momento, ma non è questo, non è ora. Dissolvi dalla mente la nebbia dell’ira, richiama le ondate dell’istinto. Riposa Wolf, arriverà il giorno della vendetta. Ora pensa Wolf, pensa!», riavutosi da quell’interludio di mutazione, la mente di Wolf sembrò aver trovato l’uscita di un labirinto.

Terminò: «Se dallo spazio mi osservano, è questa forma che dovrà restare impressa nei loro occhi. Sono un uomo, e la mia specie non si è estinta!».

Nuove domande gli affollarono subito la mente, cercò di guadagnare un punto di osservazione per acquisire informazioni su animali selvaggi, piante velenose, sorgenti d’acqua, cibo, un riparo per la notte.

Poi balzò con uno scatto. Salito sul bordo del crepaccio, «Il filmato», si ricordò.

Portò le mani al petto e spense la registrazione.

Le cinghie e la vela erano ormai polvere, quest’ultima riluceva d’azzurro, sospinta da forti correnti ascensionali.

Wolf era sull’orlo di un dirupo, sentiva la forte brezza calda solleticargli il mento e i granelli incandescenti assomigliavano a mille spilli che gli attraversavano la carne.

Sarebbe stata dura, le prime ore sarebbero state le peggiori, ma con un po’ di fortuna era nel suo potere riuscire a sopravvivere.

Dal suo punto di osservazione roteava la testa, calcolando, ipotizzando, risolvendo.

Avrebbe cercato insetti che facevano nidi nella terra per avvicinarsi a fonti d’acqua potabile, qui doveva pur esserci una pista di animali erbivori.

Con le radici flessibili, come quella che aveva strappato alla roccia e teneva ancora tra le mani, poteva creare i legacci di una trappola.

Intorno a lui le pietre lisce e dure, sottoposte alla sua immaginazione, già diventavano punte di selce acuminate, strumenti di caccia.

Tre stecche snudate dalla corteccia, altrettante foglie, il carico fissato sul bastino e avvolto in una trama di pelle sarebbero servite a realizzare uno zaino. Con i tendini della sua prima preda avrebbe costruito lenze, e così via, in un vortice di soluzioni.

Un mese, forse due, per stabilizzarsi. La sua mente ora irrequieta si arrampicava sulle pareti nude di quella desolata gabbia. Con la fantasia superava gli ostacoli, generazioni di invenzioni, e il ritmo del suo respiro accompagnava ogni pensiero, pulsante, febbrile.

Un altro mese e avrebbe potuto attuare un fondamentale progetto, ed erano i capelli scuri mossi dal vento a ispirarlo, come se vedesse oltre il domani.

Un barbaglio di speranza si era acceso nei suoi occhi color ghiaccio in quella polvere:

«Costruirò un aliante!», intimò ai monti aspri davanti a lui.

Già frugava con lo sguardo, ponderando la consistenza dei legni dei vari alberi; la cosa più difficile, e di cui aveva più bisogno, era trovare una vena di ferro.

Con le narici riempì i polmoni dell’aria ricca di ossigeno di quel mondo selvaggio. Intorno a lui si stendeva, ampia, una terra solcata da alture massicce, tra queste spiccava ad est un picco altissimo e maestoso, l’unico imbiancato.

Vapori umidi e caldi risalivano dalle chiome verdi. Ovunque regnava un azzurro nebbioso, soltanto granito e foreste, nessun pascolo o pianura.

Dietro le spalle arrivò il rombo del mare, Wolf si voltò e incontrò il soffio delle raffiche di fumo nero. Sentì tremare l’enorme vulcano.

 

Skafloc

Il primo dei due soli era tramontato a est.

L’altro, il più piccolo, stava per seguirlo e tuffarsi dietro al cratere prorompente da cui si alzava una cappa di fuliggine.

«Un vulcano», pensò Skafloc.

Rimanevano solo un paio d’ore prima dell’oscurità.

La luce aveva assunto una tonalità bluastra. Il fitto del bosco alternava macchie di colore a ombre e fruscii: «Troppo instabile per lasciare un messaggio».

Era stato grazie a Wolf se aveva condiviso con i compagni lo stratagemma per ritrovarsi.

Dovevano cercare un punto di riferimento che fosse visibile anche da grande distanza e qui lasciare un messaggio con la speranza che gli altri lo trovassero.

Nel testo dovevano indicare il luogo dove formare un campo di sopravvissuti.

Skafloc cominciò a guardarsi le spalle, come se le foglie nascondessero sguardi maligni.

Un rumore impercettibile, poi un altro. Il Principe avanzava lentamente, con cautela, raccolto su sé stesso e lanciava continue occhiate ai suoi fianchi.

Era seguito. I rami secchi non erano che sfiorati, si trattava di due esseri alieni, quadrupedi a caccia, lo percepiva dalla cadenza dei passi, leggeri ma non abbastanza per il suo udito.

Prima due tocchi, un balzo, altri due tocchi, come brezza sul letto di foglie. Lo stavano braccando.

Un nuovo rumore a sinistra, ora erano tre. Stette al gioco. Dovevano essere felini, vista la vegetazione di quel mondo.

Finse timore e accelerò il passo. Gli inseguitori non badarono più a nascondersi, volevano condurlo proprio nella direzione che stava seguendo.

Lì doveva trovarsi il loro capo, pensò Skafloc.

Pregustò la battaglia.

Serrò la mascella e sbuffò, eccitato dalla lotta.

Poi una cosa lo salvò. Davanti a lui il bosco si apriva in una radura, rocce scure emergevano su un letto di terra brulla, priva di radici. Notò scheletri di animali sparsi.

La parte superiore di un grosso cranio con un corno spezzato era poggiato su un masso fumante, ai lati dell’ampia fossa le ossa di quella che doveva essere stata la coda.

Si arrestò di scatto. Sentì esitazione alle spalle.

Caricò sul suo lato più forte, voltandosi e abbassando la testa. Non vide i denti della belva che aveva spalancato la bocca, ma sentì un canino spezzarsi come un ramo all’impatto.

Lo rigettò all’indietro su un groviglio di spine.

Si voltò e con un gesto fulmineo afferrò per la pelliccia un altro dei due che lo seguivano, scagliandolo nella radura bruna a dieci metri di distanza.

Sotto le zampe dell’animale si materializzò un getto di vapore bollente. La bestia di circa cento chili non fiatò un lamento, lanciò solo un sospiro di morte, cadde a terra, con il fumo che l’avvolgeva e il crepitio della sua carne ustionata.

Gli occhi dei due felini rimasti tradirono un’espressione di stupore, erano color smeraldo.

Uno dei due fece emergere una rugosa lingua blu: esplorava la radice della zanna a sciabola spezzata.

Fissarono impalati alcuni istanti la scena. Poi udirono il mugghio di sfida di Skafloc.

Sparirono in silenzio. Fu allora che Skafloc si accorse del picco.

Si stagliava alto tra le nubi grigie della notte in arrivo. Massiccio, emergeva dalle chiome degli alberi, dalla base proseguiva poi assottigliandosi, obliquo per molti chilometri, imbiancato in cima.

Assomigliava alla punta di una spada fatta di pietra e cristallo. Quello era il luogo di ritrovo che avrebbero potuto scegliere i compagni, si avviò.

 

Wolf

Per l’ennesima volta Wolf fissava l’ombra colorata della riproduzione olografica ricostruirsi accanto al fuoco.

Erano trascorsi quarantaquattro sol dall’atterraggio. La durata di una rivoluzione intorno al proprio asse del mondo alieno era di circa trenta ore. Anche in questo si era aiutato con la scansione temporale della registrazione.

Era arrivato il tempo di costruire l’aliante.

Grazie alla ripresa aveva individuato facilmente una fonte d’acqua dolce.

Il pericolo più inquietante restava il vulcano attivo che aveva sorvolato, le sue alterazioni climatiche provocavano tormente inaspettate. Ma era anche la sua fabbrica.

Aveva individuato una vena rossiccia e argillosa da cui estrarre il minerale per fondere il ferro.

Avendo lava in quantità era stato possibile accelerare il lavoro e ricavare i primi utensili. Frecce per un arco, una lancia e un’ascia, ma ora toccava a chiodi e scalpello.

Per questo si era arroccato in una caverna.

Abbastanza fresca da mitigare le violenti piogge bollenti o le nubi oscure che avevano riempito il cielo due volte dal suo arrivo in un turbinio capace di sradicare alberi e generare pesanti frane.

L’aliante gli avrebbe permesso di sovrastare questi pericoli. Doveva ancora capire in che direzione muoversi.

Temeva che col mutare delle stagioni certi fenomeni potessero amplificarsi. Ogni notte si perdeva in quei dieci minuti di video, cercando di scorgere un nuovo indizio, un nuovo dettaglio sul suo futuro.

Era certo soltanto di una cosa, evitare accuratamente il picco ghiacciato. Troppo in vista per non essere notato. Non era quella dei sopravvissuti dello spazio la compagnia di cui aveva bisogno. Era intenzionato a non assumere la forma di predatore se non per necessità.

Il filmato aveva mostrato con chiarezza la procedura di sbarco.

La micro telecamera sul collo aveva inquadrato i robot che lo avevano allineato agli altri detenuti.

Poi il bulbo del suo occhio sinistro era stato cavato di netto e sostituito con un altro impianto ottico artificiale. Si sentivano furbi, era questo il modo con cui si sarebbero goduti lo show anche dopo lo sbarco.

Un apparecchio di tali dimensioni poteva riflettere le immagini, sia confondendosi col suo campo visivo, sia sommando i punti di riflessione degli oggetti per ricostruire più inquadrature dall’esterno.

Nel momento della scoperta, la stessa sorpresa di Wolf era stata quella del suo numeroso pubblico al di là delle stelle.

Wolf sapeva di loro e loro sapevano che lui – il rinnegato – era stato abbastanza furbo da ingannarli.

Per un istante Wolf avrebbe voluto riprendere la forma di predatore, o Fenris come era conosciuto sui manuali del Sistema, solo per tranciarsi l’occhio di netto. Ma qualcosa lo trattenne dall’istinto.

Un lucido piano lo attrasse, convincendolo a mantenere la calma.

Non spuntarono zanne dalle labbra né le unghie si trasformarono in artigli.

Nell’occhio sano erano guizzate piccole pagliuzze color oro, ma non tali da innescare la mutazione. Si spensero subito al pensiero che i suoi aguzzini si stavano torturando nel vedere che la sua vera natura non era ancora estinta:

«L’uomo vive in me!».

Tenne la fronte alta, si concesse un sorriso che, solcando la mascella affilata e alzandosi su uno zigomo, avrebbe percorso tre anni luce prima di rimbalzare nell’universo del Sistema.

Avrebbe sopportato di essere osservato, non rinunciando a parte della sua vista. Avrebbe tratto forza da quella condizione. Al momento giusto ne avrebbe tratto il massimo vantaggio. Questo fu il suo ragionamento.

Un dettaglio sul fantasma olografico lo bloccò.

Un movimento impercettibile, sotto la caligine dello sbuffo di gas del vulcano, perso nello specchio blu del mare, uno scintillio bianco era stato inquadrato dalla telecamera, sotto il tallone.

Alzò lo zoom olografico al massimo. Tra le onde, al largo, uno strano oggetto ovoidale aveva generato il riflesso. «Forse una vela, forse una barca?», tremò di emozione.

Era tempo di costruire l’aliante e cavalcare il vento.

Lasciò che l’emozione si impossessasse del suo corpo. Corse all’esterno. Milioni di milioni di punti luminosi palpitavano in cielo.

Lassù aveva lasciato la sua casa, Sharon era morta, la sua gente fuggiva e si nascondeva. Di notte sentiva i loro lamenti. Uscì sul bordo della caverna e lanciò un grido in cui angoscia e trepidazione si confondevano, come se la sua voce riuscisse a comunicare con i soli lontani.

In quel momento migliaia di astronavi invisibili tagliavano con le scie dei loro razzi il tetto scuro della notte.

Rientrato Wolf si addormentò, cullato dalla dolce voce dello spirito di sua moglie.

 

Skafloc e il popolo degli Hoth

Il pianeta non aveva nome sulle mappe galattiche, lo prese dal popolo che lo abitava, gli Hoth. Si trattava di una stirpe dotata di buona intelligenza e di ancora maggiore integrità, che dimorava su un’isola rocciosa, protetta da un golfo sterminato.

Qui sorgeva un rifugio isolato, creato dalle pendici di un cratere da impatto. Pareti altissime erano capaci di proteggerlo dall’impeto dell’oceano e dagli uragani bollenti del grande inverno.

La leggenda narrava che all’alba dei tempi esistesse un unico occhio di fuoco, una stella sanguigna al centro dell’orizzonte, sui picchi di granito e le alte montagne di cristallo.

Bastò il peso del respiro del Creatore a spezzare la fiamma e far sorgere i due soli azzurri, “Ho” e “Th”, questi rischiaravano da allora la gente della “rocca del vento”, sull’isola degli Hoth.

Il resto del grande occhio fu ingoiato dalla bocca del vulcano e ancora ribolliva.

Quando il ruggito caldo della terra si univa al freddo della lunga notte senza soli un vortice squarciava il cielo, arrivando fino al punto più alto dell’orizzonte.

L’aria in tempesta generava cicloni così potenti da risucchiare l’atmosfera e aprire una voragine visibile dallo spazio.

L’aria diventava irrespirabile all’interno del ciclone, le temperature si facevano siderali e nulla sopravviveva oltre una certa quota.

In questa stagione i soli erano sostituiti da un’imponente luna che rifletteva i deboli raggi delle stelle in letargo.

La tempesta era il respiro del Creatore, che sferzava le onde e la costa unendosi alla brezza gelida dei ghiacci cosmici. Si alternavano piogge di ghiaccio agli uragani bollenti dei vapori che sgorgavano dalle viscere del vulcano.

Solo nella rocca del vento, protetta dalle alte mura di granito e cristallo del cratere, trovava rifugio il popolo degli Hoth. Un popolo primitivo, devoto alle stelle azzurre e che sulle ali del tornado, domato dalle pareti del golfo, invocava da sempre la protezione per le nuove generazioni.

Con un rudimentale telescopio, Skafloc osservava la possente rocca dall’alto del picco del suo accampamento. Quattro enormi mulini erano posizionati sulle torri di una struttura edificata, poggiata sul colle di granito che dominava la baia.

Scendendo a valle, tracce di ruscelli orlavano le falde della montagna, affondando nel fitto della foresta, che poi si apriva in altri villaggi fortificati.

Strade sterrate raggiungevano le mura più esterne, delineando i contorni di protezione di prati verdi e coltivazioni, infine la spiaggia di sassi cingeva il mare del golfo, placido e tranquillo.

«Avete rubato una loro nave e ucciso».

«Skafloc, sono passati duecento sol e siamo ridotti alla fame e al freddo di una caverna. Non è questo il modo in cui vogliamo vivere né morire».

Skafloc staccò l’occhio dall’oculare e fissò il compagno. Aveva tre teste di drago, di solito sempre in contraddizione di pensiero tra loro, ma stavolta si muovevano all’unisono, parlando in sequenza.

La lingua biforcuta di centro sibilò: «Dallo sbarco siamo rimasti in sette. Per la fame ci hanno lasciato altri due», poi piegò il muso di squame, battendo sul lato del collo della terza testa, come per indurla a parlare della parte più spinosa del loro progetto.

«Dobbiamo muovere guerra a queste deboli creature, renderli nostri schiavi».

Skafloc batté un pugno sul petto. “Una squadra di demoni, questo siamo diventati?».

La testa di centro della grossa idra rispose: «Esiste un solo luogo in cui il clima è abbastanza mite da avere una casa. Pensi che ci accetterebbero come vicini», le altre due teste risero ciniche.

Una disse: «Ci darebbero la caccia come animali feroci», e l’ultima: «Saremo i loro dei e padroni o moriremo».

 

Wolf e il popolo degli Hoth

Wolf era arrivato dal cielo.

Poco prima del grande inverno, sospinto per quasi tre sol dalle brezze dell’oceano. Era ormai allo stremo delle forze, seguiva la cordigliera della costa, poiché precipitare in mare avrebbe significato la fine.

Il suo aliante era semplice, una scocca in legno leggero e resistente, le ali rivestite della pelle flessibile di animali erbivori della foresta, dal collo lungo e tenero.

Non c’erano uccelli o farfalle su Hoth, solo insetti terrestri.

Questo lo aveva presto allarmato. Era il tranello più subdolo, teso dagli architetti della sua prigione.

Doveva innescarsi un qualche sconvolgimento climatico, tale da rendere la vita impossibile per lunghi periodi su quel pianeta.

Nessuna specie di volatili era stata in grado di resistere al freddo né di migrare. Eppure, oltre il vulcano, doveva trovarsi un porto per la barca che aveva visto.

Un golfo o un’insenatura.

Quando vide gli animali sparire, capì che entravano in letargo. Immaginò che un profondo stravolgimento metereologico fosse sul punto di verificarsi.

Le stesse piante si richiudevano, mutando le foglie larghe in aculei verdi indigesti.

Allora, in fretta, al montare della brezza del mattino, caricò di zavorra la slitta di lancio e la spinse verso il dirupo a cui era scampato al suo arrivo. Sui binari di legno l’aliante si mosse, Wolf, seduto, aspettava l’accelerazione indotta dalla caduta del carrello.

Quest’ultimo, superato il burrone, si trascinava una lunga corda di liane intrecciate. L’aliante cominciò a prendere velocità, dopo un breve strattone.

L’aria pungente gli annebbiava la vista, Wolf si maledisse, ognuno di quei dettagli poteva fare la differenza.

«Morire per un paio di occhiali!», ruggì, ma era tardi per fermarsi, con la mano sganciò la fune che teneva ancorata la fusoliera al contrappeso della slitta. Terminata la sua funzione, la zavorra e la slitta di lancio precipitavano tra le coste ed erano ormai diventate un puntino tra le acque.

Wolf aveva appena superato il ciglio dello strapiombo, le correnti calde si sommarono alla velocità e dettero un poderoso slancio all’aliante. La struttura resse, rimbalzando come una fionda verso il blu intenso della mattina.

L’aliante riusciva a volare, ma Wolf non riusciva a trattenere le lacrime dovute alla polvere e al vento. Poi si accorse che un occhio, quello artificiale, non risentiva del gelo.

Si coprì col cappuccio di pelle l’altro occhio, “Godetevi lo spettacolo, bastardi”, pensando che quello era lo strumento con cui tutti i condannati erano controllati.

La sua scelta si era rivelata giusta. Sarebbero trascorsi anni prima che il commento di Wolf fosse arrivato a destinazione, trasportato alla velocità della luce nello spazio, ma aver lasciato l’impianto ottico al suo posto ora gli stava salvando la vita.

Impiegò un sol per superare il vulcano e un altro per lambire il picco.

Sentiva il peso della stanchezza infuocare le tempie: non aveva più cibo e l’acqua era quasi finita.

Sotto i raggi caldi della stella più grande “Ho”, che stava sorgendo, fu commosso dallo spettacolo di un’alba aliena, divenuta usuale e comunque poetica, vissuta dall’alto.

Pareva che quella terra gli appartenesse.

Lo spettacolo si completava in un lasso di tempo inusuale, portando con sé un’immensa bellezza mista alla terrificante violenza che stava per scatenarsi. Il vulcano stava entrando nel ciclo violento del lungo inverno.

Un feroce boato fece tremare la terra e un rigurgito nero fu lanciato nel cielo, dietro l’aliante. In aria l’effetto fu tremendo.

Wolf dovette alzarsi di quota e vorticare in ampie spirali per ridurre gli effetti della spinta.

Molto provato dalle manovre, disegnava cerchi intorno al picco, che in parte gli faceva da scudo.

«Il campo di Skafloc», osservò dopo qualche istante di silenzio Wolf.

Si era rianimato, recuperando energie nascoste. In basso, in un angolo più riparato del picco di granito e cristallo scorse la chiglia di una barca capovolta.

Non aveva alcun senso una barca lassù, se non quella di utilizzarla come riparo.

Il fumo di un fuoco saliva fino al cielo, Wolf sembrò sentire gli occhi addosso dei suoi vecchi compagni.

Aveva fatto strani sogni nelle ultime notti.

Ora le immagini di battaglia diventavano più nitide nei suoi ricordi.

Avevano fatto prigionieri, volevano muovere un attacco.

Avrebbero pensato all’aliante come a un veicolo degli Hoth, gli stessi che avevano costruito una nave, potevano benissimo realizzare un aereo di legno e pelli.

Stava chiedendosi dove viveva quel popolo, quando cabrò di lato e vide in lontananza il golfo, con al centro un’isola, dominata da un cuneo di roccia con mulini in movimento.

Scoprì la rocca del vento e, a fatica, governò in quella direzione.

Fu necessario quasi un sol, poi superata un’altissima barriera di rocce, la stanchezza lo colse di schianto. Le mani lasciarono il ramo levigato che formava la cloche e si addormentò.

Si era allacciato al sedile di pelle imbottito di foglie, il capo riverso all’indietro. Disidratato, stremato e dimagrito dalla navigazione, tra turbolenze e vuoti d’aria, pensò che sarebbe precipitato.

Invece la dolce nenia della voce di sua moglie lo cullava, «È l’ultima volta che ti appaio in sogno Wolf, per me è tempo di partire, per te di rinascere, il tuo popolo è fiero di te…».

Allo stesso modo una carezza di vento, più mite nella baia, lo faceva planare con delicatezza fino alla spiaggia di ciottoli bianchi.

Gli Hoth, che non avevano mai visto un uccello, videro una strana canoa di legno scendere dal cielo e, con trepidazione, si avvicinarono.

«Ferito e moribondo, mi uccideranno o mi soccorreranno?», chiese l’anima di Wolf, ma il suo cuore sapeva che lo avrebbero accolto.

La voce di Sharon lo ammonì. «…mantieni questa forma anche quando combatterai con Skafloc!», poi il fantasma si sgretolò, si dissolsero in nebbia i dolci lineamenti, si confusero negli scintillanti riflessi azzurri del pomeriggio le iridi dei suoi occhi.

Wolf sentì una fiamma bianca sulla bocca, dopo il bacio di Sharon tutto svanì, sia il mondo dei vivi che quello dei morti si cancellò nel sonno più pesante.

 

Liya

«Com’è lo straniero?».

«Simile a noi Liya, di aspetto gradevole».

«Bello come uno straniero che cade dal cielo», sussurrò tra sé la giovane figlia di Raven, il capo degli Hoth.

La notizia si era diffusa velocemente nelle cinque città-fattoria della valle, ed era arrivata fino alla rocca, dove risiedeva Raven, nella cittadella dei cacciatori.

Gli Hoth si dividevano in agricoltori, la maggior parte, quasi ventimila in tutto, dediti alla cura della terra e all’allevamento, ed erano capeggiati da un migliaio di cacciatori, che si occupavano della difesa, dell’esplorazione, e delle scorte di selvaggina per affrontare il grande inverno.

Quest’ultimo era mitigato dalla protezione naturale della cordigliera del golfo, ma non impediva che si coprissero di neve i pascoli e le foreste, portando temperature rigide e alzando un candido mantello di nebbia nella valle.

Grazie ai possenti mulini dei cacciatori, di cui Raven e la sua famiglia erano custodi, il moto perenne delle pale dava energia per molti sol a strane pietre, chiamate le “pietre del fuoco”, che per sfregamento, divenivano calde e di un arancione brillante. Mantenevano a lungo il loro potere, ma poi dovevano essere trasportate ai mulini e qui, disposte in intercapedini rotanti, erano scosse e ricaricate.

A ogni Hoth era assegnata la sua scorta di pietre incandescenti, utilizzate come moneta di scambio: definivano lo status sociale, ma avevano anche funzioni fondamentali: utili per riscaldare, illuminare, accendere fuochi e domare i difensori più potenti della comunità.

Nelle grotte a ovest del golfo, vivevano infatti i dinosauripaguro. Lucertole nuotatrici, affamate di pesci e di molluschi, raggiungevano gli undici metri di lunghezza, e in apnea potevano resistere per ore.

Quando sopraggiungeva l’inverno, annunciato dalla brezza marina e dalle nubi plumbee che solcavano il cielo, le acque si addensavano, divenendo anche in superficie del blu scuro della notte. I venti si alzavano scostanti, le onde spumeggiavano di burrasca e negli abissi bui dell’oceano diveniva più difficile pescare. Quelle grosse creature che assomigliavano a enormi lucertole infilate nel guscio di tartarughe giganti, avevano apprezzato il bagliore arancione dei collari, forgiati per loro dagli Hoth, che li facilitavano a procurarsi il cibo. Cacciavano e divoravano la polpa di conchiglie giganti, a forma di cunei. Le strappavano dalle acque più profonde, attorcigliandosi a loro e si appropriavano di questi involucri ossei vuoti, utilizzandoli come riparo sulla terra ferma.

I dinosauripaguro difendevano la spiaggia. Da lontano rendevano il paesaggio surreale. Massicci scogli sembravano muoversi, in realtà erano questi anfibi che si trascinavano dietro le loro case, alzando zaffate di polvere tra i ciottoli.

I dinosauripaguro non si allontanavano dalla riva di ghiaia bianca, attaccando ogni cosa attraversasse il loro territorio, ma consentivano il passaggio a chi portava al collo una delle pietre del fuoco.

Attratti e comunque timorosi di queste pietre che gli Hoth indossavano con orgoglio, si piegavano al loro potere, e ne accettavano i collari lucenti in una simbiotica associazione.

L’aliante di Wolf fu distrutto rapidamente dai denti e dalle zampe di alcune lucertole giganti. Lui fu tratto in salvo da alcuni agricoltori e portato in una delle città più vicine alla costa.

Riprese i sensi in un letto di paglia, una specie di stalla era stata adattata per ospitarlo. Aveva un tetto di rami e lunghe sbarre di legno. Due cacciatori vigilavano. Una ressa di voci incuriosite si sentivano in lontananza, ma non vide nessun altro da vicino.

Wolf fu sempre sorvegliato e nutrito. Nelle settimane che seguirono aveva imparato le frasi essenziali della lingua degli Hoth. Semplice e funzionale.

Spiegando di essere uno straniero, l’ultimo della sua gente, chiedeva di vedere il loro capo. Aveva un’importante notizia da dare. Ma solo a lui l’avrebbe rivelata.

Raven arrivò con la figlia e altri dieci cacciatori di scorta.

«Dunque lo spirito del cielo sa parlare», chiese alle guardie fuori dalla cella.

«Me la cavo», rispose direttamente Wolf. Per non sembrare scortese eseguì con grande precisione un inchino che aveva visto fare ad alcuni agricoltori, quando avevano incontrato i cacciatori di guardia.

Il segno di sottomissione fu considerato positivamente dal capo degli Hoth, contornato dai cacciatori. Wolf poté osservare bene le caratteristiche somatiche della razza aliena. Segni blu artificiali sulle guance glabre. Una pelliccia bianca copriva la pelle abbronzata. Le orecchie a punta rivelavano una lontana discendenza felina.

Terminata una rapida presentazione, Raven ordinò di aprire la cella. Non avevano mai conosciuto uno straniero, ma i suoi antenati avevano addomesticato enormi lucertole e vagato a lungo prima di trovare la rocca del vento. Non era gente timorosa delle novità.

«Il tuo popolo cavalca le nuvole, Wolf cosa ti porta nella terra degli Hoth?».

Wolf iniziò a seguire Raven, gli fu concessa la libertà, ma ai fianchi e alle spalle, a coppie, lo seguivano i cacciatori. Armati di efficaci balestre si tenevano lontani, ma sempre a portata di tiro.

In prima fila c’erano altri sei cacciatori, salutavano e facevano strada, attraversando una folla di curiosi. Lungo la via sterrata gli agricoltori si radunavano per salutare il loro capo e sbirciare i tratti dello straniero. Raven e la figlia erano davanti, Wolf li seguiva distanziato di un paio di passi, non si avvicinò.

«Vengo da lontano, sono l’ultimo del mio popolo, cerco asilo».

«Volare è un prodigio portentoso, io non ti ho visto, potresti ripeterlo?».

«Con un po’ di esercizio, potrei insegnarlo a tutti voi».

Un bagliore di interesse rischiarò il viso dei cacciatori, ma Wolf notò, tra tutti, la curiosità di Liya, si voltò e le sorrise.

Nelle venti o trenta razze aliene che Wolf aveva conosciuto, l’intelligenza, la bontà, o la rabbia si leggevano sempre al primo sguardo. Prima ancora delle parole.

Un clangore di metallo si rafforzò in concitazione di passi e trambusto.

Era un ragazzino inseguito da altri della sua età che irruppe di lato, evitando la presa dei due cacciatori, si avvinghiò come un gatto alla gamba di Wolf.

Con la voce ansiosa disse: «Non vogliono credermi, io ti ho visto volare». Wolf sentiva i deboli artigli che spuntavano dalle mani del giovane Hoth penetrare nella carne. La stretta era appassionata.

«Oppure nella tenerezza dei bambini si capisce la dignità di un popolo», pensava Wolf. Per un istante dimenticò le tenebre che avvelenavano il suo cuore e afferrò il piccolo Hoth. Lo tirò su, era così leggero, lo lanciò in aria e lo afferrò al volo, accarezzandogli il capo: «E noi gli faremo vedere che si sbagliano».

Prima uno, poi dieci, infine cento Hoth sibilarono uno strano mugghio, era un saluto di approvazione.

La folla si aprì, il viso di Raven era solenne, gli occhi gialli di Liya brillanti, Wolf era invitato a entrare nel luogo più sacro, una pietra rossa scintillante era lì per lui. Lo stavano accettando nella comunità.

Il luogo più caro del mondo degli Hoth era un ampio giardino, che si apriva davanti a lui.

Fiori di ogni genere e forma lo rendevano palpitante di colori. Nonostante l’inverno fosse alle porte, aromi inebrianti e dolci fragranze solleticavano l’olfatto; molte pietre erano disposte a intervalli regolari tra ghiaia e prato, assicurando una temperatura più mite, che bilanciava le temperature polari.

La spiritualità di questi leggiadri umanoidi risiedeva tutta nella bellezza della natura. Alti circa un metro e sessanta, agili come gatti, fieri come leoni della foresta.

Wolf si sentiva a proprio agio, meno scattante ma più robusto, avrebbe facilmente avuto la meglio in un combattimento con almeno due di quei cacciatori, figurarsi nella forma di Fenris.

Deglutì un boccone di saliva. Pensando molto bene a quanto avrebbe dovuto dire.

Davanti ai suoi occhi il giardino, ornato di gemme arancioni, gli ricordava vagamente un quadro vivente. Più che quadro era una rappresentazione in cui le stagioni ricomponevano più frammenti di un tutto.

Il giardino fioriva in momenti separati, non era un insieme morto di colori, ma un equilibrio pulsante di vita.

Sol dopo sol moriva e rinasceva in nuove dimensioni.

Alcuni alberi fiorivano, altri invece si preparavano alla fioritura, arrivava poi un momento in cui tutte le sue anime esprimevano il loro massimo splendore.

Wolf ebbe la sua pietra del fuoco. Bagnato da un fulgore di luci liquide la indossò.

Disse a Raven, «Una oscura minaccia arriverà dal mare, più gelida e mortale del lungo inverno».

La verità è come la racconti, pensò Wolf, in fondo non era lui una minaccia più terribile di Skafloc? e intanto descriveva la barca che aveva visto smembrata sul picco.

 

Wolf

Due metà eternamente divise, due metà opposte, ma fuse in un solo essere. Il feroce lupo nero, celato in sembianze umane si nutriva della rabbia di Wolf e, traendo forza dagli spiriti degli antenati, generava la forma selvaggia dei Fenris.

La battaglia infuriava. Wolf dovette trasformarsi.

I capelli si inspessirono nei peli di una folta pelliccia, i denti mutarono in zanne, le unghie in artigli, la sua stazza raddoppiò e l’altezza sfiorò i due metri. Il colore della pupilla passò dal ghiaccio all’oro, ravvivato da lampi fiammeggianti.

Il suo nuovo aliante era stato abbattuto, insieme ad altri due pilotati da cacciatori, precipitati in un bosco di rovi e di alti alberi a forma di coni verdognoli. Sette belve avevano mosso il loro attacco ed entravano nella leggenda degli Hoth.

La nebbia copriva la valle, le cime degli alberi, lunghe e strette, si ergevano come sentinelle sulle nude colline, avvolte dai vapori in movimento. Gli invasori erano arrivati al sorgere di “Ho”, subito dopo la grande eruzione che apriva la stagione degli uragani.

Dal vulcano un banco compatto di nubi viaggiava sulle acque dell’oceano, correndo e oscurando l’orizzonte, fino a infrangersi sulle alte mura della cordigliera.

L’osservazione aerea era compromessa. Un manto scuro aveva nascosto il mare, la mattina di nebbia, grigia e livida, si stendeva sul resto della valle. Esposti al bagliore azzurro di Ho e Th, brillavano solo le pale dei mulini con il loro perpetuo ruotare.

Sotto una coperta di cenere vulcanica, oltre la barriera del golfo, e sotto il vapore bianco della piana, si svolgeva da ore la lotta accanita per difendere o conquistare la rocca del vento.

Una spietata idra a tre teste aveva distrutto tre alianti, lanciando scaglie di pietra, divelte dalla corazza dei dinosauripaguro, che giacevano sulla spiaggia. Ora quel mostro faceva scempio dei corpi inermi dei due piloti.

«Fa meno freddo qui», sibilò nella lingua del sistema una delle teste.

«È la valle», disse quella di centro «Poi queste pietre sono calde», replicò l’ultima.

Afferrò con un artiglio un ciondolo brillante, strappato a un cacciatore, lo stesso fece la seconda; «Dammelo», grugnì la testa rimasta senza.

Una zuffa interna tra sei braccia era iniziata quando la voce al centro osservò, «Ma gli aerei non erano tre?».

Un’ombra azzurra, curva sotto un fascio di sterpi, apparve al limitare del cespuglio e subito si dileguò. Wolf scattò e con balzi silenziosi e fulminei fece scivolare il suo pugnale di ferro sotto le gole di due teste dell’idra.

Queste, rivoltando gli occhi all’indietro, caddero a terra; zampilli di sangue verde fluivano dai colli accasciati sul petto di squame.

Il terribile ululato di Wolf attraversò la foresta della rocca del vento. L’ultima delle teste oscillava impazzita, torcendosi ai lati disperata, in cerca delle compagne.

«Dov’è Skafloc?», tuonò nella lingua del sistema la sagoma massiccia di un uomo lupo che emergeva tra i vapori chiari della nebbia.

«Wolf!», balbettò l’idra, ma si tradì, fissando i mulini.

«Raven e Liya», pensò Wolf mentre correva già oltre un campo di stoppie, dileguandosi come un sogno.

Non passò molto, il grosso drago ancora interdetto, riusciva solo parzialmente a muoversi.

Prima un giavellotto, poi molti altri piovvero sulla sua carcassa, aprendo ferite tra le squame, da cui colava sangue verde.

Una punta trafisse la pupilla elettronica dell’impianto ottico, negando gli ultimi istanti di raccapricciante spettacolo ai carcerieri delle stelle.

«Raven è caduto!», annunciò trafelato un cacciatore a Wolf.

Non poteva assumere la forma di lupo, avrebbe svelato un potere troppo difficile da comprendere. Anche da lupo le possibilità di sconfiggere Skafloc erano incerte. Si concentrò.

Aveva rivissuto negli incubi molte volte quel momento. Fissò la folta criniera bianca che fluttuava nell’aria nebbiosa e le corna di ariete.

La foschia, la stazza, la minacciosa ombra facevano sembrare Skafloc un demone.

Aveva sradicato a testate due dinosauripaguro sulla spiaggia, aveva ucciso Raven e la sua scorta, gli Hoth erano vinti.

Wolf tirò un profondo respiro. Fissò Liya e con una carezza del dito le tolse una lacrima dalle guance. La mano di Wolf era pallida e senza pelliccia, ma parve dolce e sincera alla giovane.

Poi andò da solo contro il suo destino. Mentre affondava nella bruma in uno dei suoi occhi si accesero pagliuzze d’oro, il riverbero di braci che attuarono solo un cenno di trasformazione, invisibile da lontano, ma rendendolo capace di resistere a un paio di assalti: «Eccomi Skafloc».

«Wolf, l’uomo?», rise divertito «Non sei ancora morto, è ora che mi mostri il potere del lupo».

«Non servono forza o armi per uccidere un montone», Wolf mostrò i pugni serrati, invitandolo a una improbabile lotta.

Skafloc serrò la mandibola, sbuffando, caricò verso Wolf, fu rapido, violento, deviava leggermente la corsa per non dare riferimenti: prima a destra, poi un passo a sinistra, di nuovo a destra. I suoi occhi rossi tenevano di mira Wolf, penetrando la coltre di fumo bianco.

Fece un balzo per colpire la fronte ed evitare la lama di un’arma nascosta.

Nei pressi del mulino la foschia si era diradata, la luce di Ho brillò dietro le spalle di Wolf che, scansandosi, lasciò che accecasse per un attimo il Principe dei reietti dello spazio.

Uno dei due corni tranciò di netto l’occhio sinistro di Wolf, che aveva solo in parte evitato il colpo. «5,4,3…», Wolf contava, come se la ferita non fosse nulla.

Skafloc inciampò, andando a scontrarsi con tutta la sua forza contro la pesante roccia di granito della base del mulino.

Qui, si sentì sollevato per il petto da due mani ardenti. «come fa a sorreggermi questo debole…», non ebbe il tempo di pensare Skafloc, sentì «…2,1». poi fu investito in pieno da una pesante pala, a cui restò appeso.

Un corno si spezzò, il colpo aveva la forza di una montagna. Lungo i fianchi aveva profonde bruciature. Il fuoco aveva attraversato gli spessi strati della pelliccia, tracciando sul costato strisce gonfie e rosse, lunghe trenta centimetri.

Wolf aveva le mani cinte da anelli rovesciati con pietre sfolgoranti. La salita della pala con sopra Skafloc sfiorò il suo massimo. Al limitare della cima del mulino Skafloc, liberandosi a fatica, si accasciò sul tetto di travi. Fu visto dal basso. Wolf si aggrappò all’altra pala per raggiungerlo in cima.

Liya e una ventina di cacciatori si erano avvicinati. I loro ciondoli brillavano sotto il chiarore pallido dei due soli che stavano già nascondendosi dietro il picco.

Appena vide Wolf, Skafloc si rialzò con un fremente impeto e centrò col corno il petto dell’avversario, il flebile gemito di Wolf fu appena accennato, poi, mentre cadeva nel vuoto, fu sovrastato dal grido di Skafloc: «Muori!».

Una raffica di frecce sibilò dalla nebbia in basso, scintillarono incontrando la luce del tramonto di Th: sei affondarono nel petto, una nel collo.

Skafloc sentì la vita abbandonarlo. Si accasciò sulla cima del mondo che lo stava ingoiando con la sua lunga notte. Erano trascorse appena sette ore dall’alba di quel sol così breve, e tutti i suoi compagni erano morti.

Tristezza e gioia si fecero largo nel silenzio, rotto da grida e lamenti di feriti. Liya e due cacciatori erano saliti, aggrappati alla pala e si accostarono al corpo di Skafloc.

Liya stava per dire qualcosa. Ma dietro la nuca di Skaflock, Wolf, invisibile, le fece segno di non parlare. Il suo pugnale, penetrando nelle tempie di Skafloc, produsse un suono meccanico, i microcircuiti dell’impianto ottico crepitarono con un click.

Dall’altra parte della galassia lo spettacolo terminò. Wolf ebbe l’impressione di essere tornato libero, passando dalle luci della ribalta a un’oasi privata; perché la presenza di occhi indiscreti, i ronzii di voci palpitanti che commentavano guardando, erano ormai lontani, come lontane erano le ombre del passato, cancellate dai pianti per i caduti, lavati dalle lacrime di quel popolo fiero.

La pupilla di Wolf tornò color ghiaccio. Si bendò l’occhio ferito. Il suo pugnale era impigliato della lunga chioma della testa di Skafloc. Crini spessi, bianchi, erano allacciati fino al suo polso.

Lì ebbe un’illuminazione, sentì un flebile sentimento di pace nel battito rallentato del suo cuore. Pensò al giardino degli Hoth, pensò a come un popolo devastato potesse essere riunito.

Quella razza combattente e ingenua. In tutto solo ottanta cacciatori di mille erano sopravvissuti.

Raven, il loro capo, era morto, Liya rimasta sola. Tra le piante lussureggianti del giardino riposarono le salme degli eroi. Se Hoth gli donava la libertà Wolf avrebbe ricambiato con un dono altrettanto prezioso.

Era trascorsa una settimana. Wolf era sparito.

Poi lo videro arrivare, accompagnato da uno strano vibrare. Tra le mani stringeva un bizzarro strumento. Il corno spezzato del principe ariete era alla sommità di una scatola, cava, di legno.

La criniera saldata in sei corde armoniche, tese. Gli abitanti del pianeta non conoscevano che suoni distanti, solitari, dissonanti. Tutto era funzionale per gli Hoth, eppure quei suoni potevano essere legati insieme da una magia.

Non avevano mai provato a fischiare, non avevano mai udito il cinguettio di un uccello, né il frinire di una cicala, o lo squillo di un gallo.

Wolf aveva portato le ali in un mondo terrestre, ma ancora più forte fu per gli Hoth la rivoluzione della musica. Le sue mani si muovevano, la sinistra più salda nei pizzichi, la destra veloce, sicura.

La sua esecuzione fu ascoltata da tutti. Gli agricoltori lasciarono i campi attratti da un rumore diverso, che non aveva un significato, non era un tintinnio di metallo, non richiamava un bisogno concreto. Iniziarono a seguirlo, muti, lungo il sentiero sterrato che conduceva al giardino.

Ne intuivano la complessità, non afferrando al primo ascolto le impercettibili variazioni. Era solo piacevole. Rimasero attratti, incantati.

Una folla di curiosi, in silenzio, curava che i passi non infrangessero quel genere di armonia che sembrava schiudersi da dentro i loro animi.

Alcuni cacciatori provarono a modulare un suono acuto, vocale, ma ne uscì solo un verso monco, soffocato.

Subito tornarono ad ascoltare. Quando il silenzio tornò i visi erano in cerchio dinanzi a Wolf, stupiti, confusi. Lui ricominciò la sua sonata.

Era triste, era allegra, proveniva da un mondo lontano. Alla seconda esecuzione le orecchie di felini, ritte, cominciarono a compiacersi, afferrando meglio il virtuosismo, i cenni, la fuggevole sensibilità della musica, il suo linguaggio così universale e superiore a ogni civiltà.

Da queste note una nuova Hoth stava sorgendo. La luce era quasi svanita, il cielo si colorava del blu più intenso, profondo, serale. La sonata di Wolf vibrò per la terza volta, formando accordi, modulando progressioni, legature, pause e aumenti nei sopratoni, concavità e convessità.

Le due metà di Wolf erano una, gli Hoth e Wolf erano un unico popolo nella musica. Se entro nove anni le navi spaziali non avessero fatto ritorno l’inganno sarebbe riuscito, la vendetta della sua vera razza, gli uomini, si sarebbe compiuta, sopravvivendo in una nuova casa.

Terminò la melodia, staccando le dita dalla chitarra che aveva costruito nella foresta. La sonata di Wolf faceva rinascere la speranza in un punto bianco tra le stelle.

 

Teseo

Teseo, figlio di Wolf e Liya, aveva compiuto da poco quattordici anni.

I due soli sorgevano molto vicini in quella stagione, quasi si toccavano all’orizzonte e bagnavano la foresta con una luce cerulea. Il lungo inverno era di nuovo alle porte ed era giunto il momento dell’ultima caccia.

Molti gruppi di cacciatori si dedicavano a questa prova, i più coraggiosi andavano soli. Wolf era partito dalla rocca del vento con una barca, accompagnava suo figlio, nessuno doveva conoscere il loro segreto, se c’era un segreto da nascondere.

I novemila sol trascorsi, da quando Wolf era stato imbarcato nello spazio, si riavvolgevano nella sua mente. Fotogramma dopo fotogramma, percepiva il dolore aspro dell’ultima parte della vita, dalla morte di Sharon passò al viaggio sull’incrociatore, fino alla conquista del rispetto del popolo di Hoth.

Non provava nulla, non c’era amarezza nemmeno quando rivisse il dramma della morte di Skafloc, quando le sue mani erano ancora bagnate del suo sangue. Ora doveva capire se fosse giunto il momento di uccidere anche suo figlio.

Questo era il primo sentimento a turbarlo. Affondò gli stivali nel punto in cui si interrompeva il sentiero di neve, davanti a loro il fitto della foresta. Teseo si voltò.

Aveva un passamontagna che lasciava scoperti solo gli occhi. Le iridi erano del colore del ghiaccio, come quelle di Wolf. Taciturno, schivo, aveva sino ad allora subito la presenza del padre. Avrebbe voluto cacciare da solo, dimostrare di cosa fosse capace.

Wolf si avvicinò e gli chiese: «Hai avuto incubi di recente?».

Wolf provò a carezzare il capo di Teseo, che si ritrasse. «Non sono un bambino!», fu la risposta.

Sbuffando nella neve, Wolf prese la balestra con le frecce e le passò a Teseo. «E sia. Va da solo».

Il figlio non credette a quelle parole. «Dimmi. Hai fatto strani sogni?».

Teseo ansimò, «Ho visto un’ombra, qualcosa che si muoveva dentro di me, era rovente, poi tante voci che non capivo, familiari, un grido senza parole, come un tormento».

«Hai avuto paura?».

«Era strano e confuso, mi sono sentito più forte».

«Ti è piaciuto?».

«Non può piacermi la rabbia, è stato strano».

«Forse c’è una speranza», pensò Wolf. Se la mutazione fosse avvenuta, Teseo sarebbe sopravvissuto. Tuttavia se la sua volontà fosse stata troppo debole da consentirgli di riassumere poi la forma umana, Wolf avrebbe dovuto uccidere il figlio come imponeva la legge dei Fenris, il suo popolo.

«Va’ Teseo, rendimi orgoglioso».

Teseo strinse forte a sé la faretra con le frecce e la balestra. Le avevano costruite insieme lui e il padre. Prima di addentrarsi tra i rami fitti e coperti di neve ascoltò le parole di Wolf:

«Quando sentirai la rabbia montare dentro di te lasciala libera, ma qualunque cosa accada ricordati sempre chi sei».

«Il figlio di Wolf?».

«No! Teseo, figlio di Hoth».

Il ragazzo sparì tra i cespugli. Si lasciò guidare dai suoi sensi.

Dopo un’ora Wolf lo trovò. Nudo, seduto nella neve con la schiena poggiata alla corteccia di un albero, gli occhi sbarrati, freddi. Tre carcasse: due di leoni della foresta, e una di quegli strani struzzi con la cui pelle Wolf aveva costruito il suo primo aliante. Le frecce sparse. Una sola ferita sulla spalla.

«Chi sono?», urlò Teseo tra le lacrime di rabbia.

«Sei un uomo».

Immensi banchi di nebbia filiformi, lunghi milioni di miliardi di chilometri, fluttuavano sopra le loro teste, nel silenzio quasi perfetto dello spazio. Era l’occhio del ciclone, che apriva una voragine nell’atmosfera di Hoth e rendeva le nebulose più vicine e brillanti.

Si muovevano a decine di migliaia di chilometri l’ora. Abbracciando stelle e pianeti senza perturbare la loro esistenza. Si incuneavano sinuose tra le maglie del Braccio di Orione, minacciando con un velo di oscurità tutto quello che incontravano.

«Da dove vengono tutte queste voci che sento urlare nella mia testa?».

«Da altri tempi, da altri mondi».

Teseo fissò il cielo. Nel ventre dello spazio brillava un disco di argento, era la luna di Hoth. La sua luce riflessa si sommava a quella dei soli, trafiggendo ammassi di nebbia cosmica.

Non sembravano luoghi inospitali, oscuri, sinistri e inquietanti. Era la voce dello spazio che stava ascoltando, da dove proveniva la vita e la luce del cielo. L’ululato di Wolf risuonò come un grido, sospeso tra la foschia e la notte.

«Mani», Teseo ripeté meccanicamente quanto aveva ascoltato. Fissava il disco d’argento, alto sull’orizzonte.

Wolf spiegò: «Mani è il dio della luna sul pianeta Terra, il nostro popolo ti sta parlando».

«Non ho avuto paura nella caccia, ho paura di me adesso».

«Devi mantenere il segreto, la nostra forza è la nostra condanna, esistono mondi da cui siamo scacciati come la peste. Siamo considerati dei demoni. Le mogli sono uccise, gli uomini maledetti su terre desolate, ma se riusciranno a trovare altre razze e unirsi a loro avranno la possibilità di vendicarsi. Ne esistono già altri di questi mondi, oggi è un grande momento, la fievole speranza si riaccende anche qui. È questo il segreto che devi portare con te. Diventa più forte. Ti spiegherò tutto, ti racconterò del trono di Odino, da lassù puoi vedere ogni luogo nell’universo. Puoi parlare con la morte. Porta con orgoglio il peso del destino di un rinnegato».

«Qual è la verità, sono un uomo o un lupo?».

«La verità è quella che vuoi, se sai come raccontarla».

«Non la musica, padre, quella viene dalla tua anima e dice chiaro e tondo che c’è del buono in noi».

 

Il mito

In epoche ormai dimenticate, agli albori della storia dell’umanità, quando i popoli erano primitivi e antichi, i condannati dello spazio arrivarono anche sulla Terra. Popolata da civiltà guerriere e orgogliose, le creature aliene furono combattute ed entrarono nella leggenda. Fu allora che una commistione di razze proliferò.

«Apparteniamo ai miti delle terre dove siamo stati esiliati, gli uomini ci hanno chiamato licantropi, lupi, ma loro non sanno che discendono anche da noi, dai Fenris, noti anche come Fenrir o Fenrisulfr, il nome del grande lupo che nella mitologia norrena uccise Odino», ricordò Wolf a suo figlio.

Questo è il motivo per cui i lupi ululano ancora oggi nelle notti di plenilunio, cantando alle stelle la sonata di Wolf.

Sulla Terra, stando attenti, non affidandosi solo ai nostri sensi, entriamo in sintonia con loro, riusciamo a distinguere le note che ci mettono in congiunzione con la metà istintiva della nostra anima.

Possiamo ascoltare la voce che oltrepassa le frontiere del tempo e dello spazio. Un bisbiglio fantastico, il rintocco di una nota musicale ci apre la strada dell’infinito.

Rumori e suggestioni, il fruscio delle foglie e dei rami smossi dalla brezza sembrano rispondere alla domanda: «Wolf, perché chiamasti tuo figlio Teseo?»

Ci ricordano come, sfidati gli dei, ai tempi in cui Creta era un dominio temuto e potente, il suo re, Minosse, generò un mostro, per metà uomo e per metà toro, avido di carne umana.

Minosse lo rinchiuse in un labirinto a cui donava ogni anno sette ragazzi e sette ragazze ateniesi. Un eroe entrò e uscì vincitore da quel labirinto, superando in forza e astuzia il Minotauro, il gigante crudele con la testa di toro e le corna più affilate di lance.

Quell’eroe si chiamava Teseo. Il nome scelto da Wolf per suo figlio, come fu per te, Wolf, che porti l’astuzia di Ulisse nella testa di un lupo. In questo mito si accende anche il ricordo del principe tuo rivale, del possente Principe Skafloc, legati insieme per sempre nei canti delle stelle.

Dedicato a Poul Anderson, autore di:
The broken sword”, 1954.

(*) ripreso da www.nuove-vie.it

ecco il link aggiornato al blog di Francesco de Stena: https://francescodestena.wixsite.com/portfolio?fbclid=IwAR3Ksha0xxwFoH9SfqnvtWsI-Rgxujy8rfTUTw1xru4_6dz4t-MdtpqXokk

 

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