«La strada» di McCarthy, il fuoco, il virus e noi
Nella 170esima puntata di «Ci manca(va) un Venerdì» essendo un «astrofilosofo» Fabrizio Melodia sposta il discorso fra Eraclito e Bauman
«Ce la caveremo, vero, papà?».
Sí. Ce la caveremo.
«Perché noi portiamo il fuoco».
Sì. Perché noi portiamo il fuoco
Così in modo struggente lo scrittore statunitense Cormac McCarthy, nel romanzo «La strada»: parabola distopica (ma nemmeno tanto?) di un padre e un figlio piccolo che ogni giorno percorrono un’America desolata, lottando ogni giorno per recuperare acqua e cibo.
Leggere adesso queste parole accapponare la pelle un po’ di più. Di recente ho scritto in “bottega” della fantascienza distopica legata alla distruzione dell’umanità a causa di agenti virali sconosciuti. Qui non si parla di virus ma forse di una guerra atomica finita come doveva inevitabilmente finire.
Non sto a sindacare sulla filosofia dell’uomo che è lupo al suo simile, come suggerisce Hobbes (*) o a discutere se sia meglio «l’ordine» di adesso – da bravi schiavetti del Leviatano di turno – piuttosto che i cannibali nella pura “anarchia” della sopravvivenza.
Eppure il finale del romanzo sembra preludere a una speranza. Senza spoilerare (cioè svelare le ultime pagine) penso a quell’acuta riflessione di Antonio Gramsci, che forse meglio di tutte andrebbe a emblematizzare il romanzo di McCarthy: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri».
È un chiaroscuro dalle tonalità cupe e violente, un po’ come quello che stiamo vivendo adesso a causa della segregazione precauzionale per il “birravirus”, con la differenza che non stiamo lottando nelle infide strade (almeno: non in questa parte del mondo; altrove siamo alle fosse comuni e peggio andrà) ma ancora coccolati dalla tecnologia e quasi al sicuro in case più o meno grandi.
Nascerà qualcosa di positivo? Sento voci di scherno, risate e proteste, ricordando sempre l’adagio pronunciato nel romanzo «Il gattopardo» dall’opportunista Tancredi nei riguardi del suo nobile zio, il principe Fabrizio Salina: «Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
In effetti siamo abituati a un mondo che muta abito e usanze a velocità della luce ma nella sostanza si regge sullo stesso manichino privo di anima, sugli stessi poteri di sempre. Eppure in un mondo sempre di corsa, teso ad accaparrare denaro e risorse, questa pausa forzata indurrà forse alcune persone (poche? privilegiate?) a riassaporare piaceri dimenticati o sconosciuti, come la lentezza, lo stare in famiglia, la riflessione, una socialità diversa. Ai tempi della «democrazia liquida» – come la definisce il filosofo contemporaneo Zygmunt Bauman – e dei rapporti sociali on line “stare a casa” comporta il confronto con una famiglia ben lontana da quella che si indicava con il termine latino familias, ovvero l’insieme della servitù dei patrizi dell’antica Roma.
Torno al fuoco e ai suoi portatori. Qui sembra venirci in aiuto il grande Eraclito: «quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dei né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne».
Il fuoco come vita, destino, speranza. E, rispetto al cammino sulla strada (così desolata) di McCarthy «il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco», per dirla con György Lukács.
Tutti dovremmo avvolgerci nella luce per essere fuoco sempre vivo? Difficile concludere (o non concludere) così lascio la parola all’ironia sapiente di Oscar Wilde: «il grande vantaggio del giocare col fuoco è che non ci si scotta mai. Sono solo coloro che non sanno giocarci che si bruciano del tutto».
(*) «La strada»: è solo homo homini lupus? si intitolava il post che ha riaperto in “bottega” la discussione su libro di McCarthy, assai lodato invece da db (Ce la caveremo papà?).