La strategia del caos
di Laura Ruggeri
Le risposte alla prima crisi dell’egemonia statunitense hanno scatenato forze che hanno finito per erodere il potere degli Stati Uniti.
Gene Sharp, considerato il padrino delle rivoluzioni colorate, pubblica il suo primo libro, The Politics of Nonviolent Action, nel 1973, in un momento in cui gli Stati Uniti attraversavano una serie di crisi — economiche, politiche, militari — che stavano erodendo la fiducia nel governo e costituivano un serio ostacolo alle ambizioni geopolitiche di Washington. Le risposte a queste crisi — espansione dell’egemonia attraverso guerre convenzionali e ibride spesso affidate ad attori non statali, la finanziarizzazione dell’economia e l’utilizzo del dollaro come arma — segneranno il corso dei decenni successivi. Ma a distanza di cinquant’anni è evidente che queste risposte, pur avendo sconvolto l’ordine globale del dopoguerra per aprire le porte al ‘momento unipolare’ degli Stati Uniti, non hanno fatto nulla per risolvere problemi di natura sistemica e strutturale. Semmai, queste “soluzioni” hanno creato ulteriori e più intrattabili problemi per l’egemone, culminati nella crisi di legittimità che gli Stati Uniti stanno attualmente affrontando.
The Politics of Nonviolent Action si basava su una ricerca, finanziata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che Sharp aveva condotto ad Harvard alla fine degli anni ’60, quando l’università era l’epicentro dell’establishment intellettuale della Guerra Fredda — vi insegnavano infatti Henry Kissinger, Samuel Huntington e Zbigniew Brzezenski. A prima vista potrebbe sembrare contraddittorio che il soggetto della ricerca di Gene Sharp attirasse l’interesse del Pentagono e della CIA. In realtà, non è affatto sorprendente: la sconfitta e le perdite subite in Vietnam avevano lasciato una profonda ferita nella psiche americana e a livello internazionale questa brutale aggressione imperialista aveva alimentato un forte sentimento antiamericano. Inoltre, mentre l’egemonia statunitense iniziava a perdere colpi, crescevano i timori per i costi economici della corsa agli armamenti con Mosca. La ricetta di Sharp prometteva di fornire la soluzione che Washington stava cercando per rafforzare il proprio potere minando quello dell’Unione Sovietica, suo principale rivale geopolitico, ideologico e militare. Sharp, che in seguito sarebbe stato definito il “Clausewitz della guerra non violenta”, offriva un’alternativa alla visione fino ad allora dominante secondo cui sicurezza e difesa devono essere fornite dallo Stato. Già negli anni ’60 il potere esecutivo aveva incoraggiato l’esternalizzazione di funzioni non intrinsecamente di governo a imprese private. Questa pratica sarebbe aumentata gradualmente, fino ad estendersi alla sfera militare — alla fine della Guerra Fredda assistiamo ad una vera esplosione dell’utilizzo dei contractors, al punto che il New York Times li definirà addirittura il quarto organo del governo.(1)
La strategia e le tattiche delineate da Sharp avrebbero consentito agli Stati Uniti di trasformare in un’arma le forze sociali dietro la cortina di ferro senza scatenare un conflitto militare, opzione ritenuta troppo pericolosa dal momento che l’Unione Sovietica disponeva di migliaia di testate nucleari. Ma soprattutto, la cooptazione delle élite intellettuali, l’infiltrazione ideologica, il lento lavorio per creare o approfondire fratture etniche e sociali avrebbero potuto essere affidati ad attori non statali come ONG, media, lobbies, associazioni religiose, agenzie umanitarie ecc. Ma con l’aumento del numero degli attori coinvolti e dei loro interessi, aumenta anche il loro peso nella definizione della politica nazionale ed estera degli Stati Uniti.
In quegli anni Washington stava affrontando un’altra formidabile sfida alle sue ambizioni egemoniche. Il disavanzo nella bilancia dei pagamenti, il crescente debito pubblico contratto durante la guerra del Vietnam e l’inflazione avevano portato ad una sopravvalutazione del dollaro. Il prosciugamento delle riserve auree statunitensi culmina con il crollo del London Gold Pool nel marzo 1968. A Washington si stampavano sempre più dollari di quanti potessero essere convertiti in oro. Il governo statunitense decide di abolire l’obbligo che imponeva alla Federal Reserve di convertire dollari in oro al rapporto fisso di 35 dollari l’oncia, rivoluzionando così il sistema monetario noto come Bretton Woods.(2)
L’accordo di Bretton Woods siglato nel 1944 per oltre due decenni aveva garantito la crescita economica e una relativa scarsità di crisi finanziarie, ma per gran parte degli anni Sessanta il dollaro aveva faticato a mantenere l’ancoraggio all’oro e contenere il crescente potere economico di Germania e Giappone. Alla riunione del G10 di Roma, nel novembre 1971, il Segretario del Tesoro statunitense John Connally aveva detto ai suoi omologhi: “Il dollaro è la nostra valuta, ma è un problema vostro”. Vale a dire, se per voi costituisce un problema, affari vostri. Questa palese espressione di arroganza descrive perfettamente quello che sarebbe diventato un privilegio esorbitante.
Nel 1973, quando il dollaro passa al regime di cambi flessibili, il suo valore scende del 10%. Qualche anno dopo, nel suo libro L’alchimia della finanza, George Soros non nasconde la sua soddisfazione per questa “rivoluzione”: “I tassi di cambio sono stati fissi fino al 1973; successivamente, sono diventati un campo fertile per la speculazione”. Per inciso, la prefazione di questo libro viene scritta da Paul Volcker, sottosegretario al Tesoro per gli affari internazionali dal 1969 al 1974, che aveva avuto un ruolo importante nella decisione del presidente Nixon di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. La decisione unilaterale di affossare l’ordine di Bretton Woods stabilisce che il dollaro statunitense diventi la valuta di riferimento per le riserve delle banche centrali e de facto eleva il debito americano a moneta internazionale. Questo nuovo regime basato sulla fluttuazione dei tassi di cambio porta ad un aumento dei movimenti di capitale, ma limita le scelte politiche dei Paesi impigliati nella sua rete — sotto l’enorme pressione dei flussi di capitale, questi Paesi sono costretti ad accettare politiche monetarie restrittive e ad abolire politiche più espansive di ispirazione keynesiana.
Grazie al nuovo regime, gli Stati Uniti, a differenza di altri paesi, possono indebitarsi massicciamente e stampare moneta per far fronte alle crisi economiche. E quando la liquidità in eccesso fa salire l’inflazione globale, la Fed alza i tassi di interesse e inasprisce la politica monetaria. Questa mossa amplia il divario dei tassi di interesse con gli altri Paesi, attirando di conseguenza i capitali internazionali a Wall Street. Dal 1973 in poi gli Stati Uniti abuseranno del privilegio di stampare la principale valuta di riserva del mondo e utilizzeranno il dollaro come un’arma. Sarà solo questione di tempo prima dell’inevitabile contraccolpo.
Gli apprendisti stregoni A causa della divisione dei campi accademici in discipline distinte, ognuna con il proprio focus di ricerca, finora nessuno ha notato la strana concomitanza di eventi che ho brevemente delineato: la pubblicazione della prima opera di Gene Sharp, un vero manuale di guerra ibrida, coincide con la fine di Bretton Woods, e l’inizio di una nuova fase di finanziarizzazione dell’economia americana. La finanza viene ‘liberata’ da qualsiasi legame funzionale con l’economia reale, diventando una fonte di enorme ricchezza (per pochi), e un elemento di destabilizzazione per l’economia nazionale e globale. Coloro che avevano un interesse personale in questa ‘liberazione dell’economia’ cominciano ad investire milioni di dollari nella ‘liberazione dal comunismo’ oltre che nella formazione di una nuova classe dirigente che avrebbe messo fine all’economia controllata e alle politiche sociali del blocco orientale, e distrutto il welfare state in occidente. La caduta del Muro di Berlino nel 1989 avrebbe condotto a quello che George Soros definirà un “periodo di crescita esplosiva” per il suo hedge fund. La demolizione dell’ordine monetario internazionale precedente, resa possibile dalla fine degli accordi di Bretton Woods, segna un punto di svolta: la struttura dell’economia, la distribuzione della ricchezza e la distribuzione del potere cambieranno radicalmente. Mentre le grandi imprese multinazionali e il capitale finanziario organizzavano la presa del potere politico, gli interessi dei lavoratori e della classe media venivano messi ai margini. Il dominio del dollaro, la deregolamentazione finanziaria e la spinta alla privatizzazione tanto care al neoliberismo avrebbero spianato la strada a un’era di iper-globalizzazione le cui regole venivano dettate da Washington.
Se lasciato senza controllo, il capitale per sua natura tende al superamento dei propri limiti e cerca sempre di massimizzare il profitto. Una volta liberato da vincoli è andato alla ricerca di opportunità di investimento all’estero, ha delocalizzato la produzione e le catene di approvvigionamento, lasciandosi dietro una lunga scia di devastazione socio-economica. Come sottolineava Vladimir Lenin più di un secolo fa, “La sovrastruttura extraeconomica, che sorge sulla base del capitale finanziario, la sua politica e la sua ideologia, acuiscono l’impulso verso le conquiste coloniali. Il capitale finanziario non si accontenta della libertà, vuole l’egemonia. Quando si tratta della politica coloniale dell’imperialismo capitalista deve notarsi che il capitale finanziario e la relativa politica internazionale, che si riduce alla lotta tra le grandi potenze per la ripartizione economica e politica nel mondo, creano tutta una serie di forme transitorie della dipendenza statale. Tale epoca è caratterizzata non soltanto da due gruppi di paesi, cioè paesi possessori di colonie e colonie, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti che formalmente sono indipendenti dal punto di vista politico, ma che in realtà sono avviluppati da una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica. (…) L’esportazione di capitale, una delle basi economiche più essenziali dell’imperialismo, isola ancora di più i rentiers dalla produzione e pone il sigillo del parassitismo sul Paese che vive sfruttando il lavoro di altri Paesi”. (3)
Giovanni Arrighi, analizzando la teoria leninista dell’imperialismo, ne chiarisce alcune ambiguità, osservando che è praticamente l’unica teoria di Lenin che gli economisti non marxisti prendono in seria considerazione. Arrighi (4) spiega che ogni volta che una precedente fase di espansione del capitalismo commerciale/industriale raggiunge un plateau, un fenomeno ricorrente è proprio il predominio del capitalismo finanziario. Mentre a metà del secolo le grandi società industriali (corporations) avevano soppiantato il sistema bancario come primo simbolo del successo economico, la crescita dei derivati e di un nuovo modello bancario alla fine del XX secolo inaugura una nuova fase di capitalismo finanziario.
Il relativo declino dell’egemonia statunitense e della sua economia negli anni Settanta aveva ovviamente allarmato le élite americane. La produzione di profitto derivante dalla speculazione ed espansione globale del capitale finanziario prometteva di risolvere sia la crisi dello Stato che del capitale, rafforzando l’egemonia americana. Ma, diventando il settore più redditizio dell’economia, il capitale finanziario avrebbe tenuto il governo in ostaggio dei suoi interessi particolari. Il successo della politica monetaria fa sì che essa diventi il metodo principale con cui i politici cercano di affrontare i problemi economici. La crescente finanziarizzazione dell’economia statunitense a sua volta avrebbe favorito il movimento dei capitali americani all’estero, insieme ad un’inesorabile deindustrializzazione in patria.
Ma torniamo a Gene Sharp. Dieci anni dopo aver pubblicato il suo studio sulla “disobbedienza civile”, Gene Sharp insieme a Peter Ackerman fonda l’Albert Einstein Institution (AEI), che nonostante il nome non aveva nulla a che fare con il fisico. Ackerman era un banchiere che aveva accumulato una fortuna con i titoli spazzatura (junk bonds) quando si occupava di mercati internazionali alla Drexel Burnham Lambert, una banca d’investimento americana che a metà degli anni Ottanta spadroneggiava a Wall Street, e che poi sarebbe fallita. (5) L’Albert Einstein Institution (AEI) viene presto integrata in quella rete di apparati clandestini e non con cui gli USA interferiscono negli affari interni degli Stati alleati, e orchestrano cambi di regime e rivoluzioni colorate in qualsiasi Paese ritenuto un ostacolo all’espansione globale del capitale anglo-americano e della sua ideologia neoliberista. (6) Pur affermando di essere un’organizzazione no-profit indipendente, AEI ha legami significativi con la difesa e l’intelligence degli Stati Uniti. Un importante consulente dell’AEI è stato il colonnello Robert Helvey, ex preside del National Defense Intelligence College. Tra i donatori regolari dell’AEI figurano organizzazioni finanziate dal governo statunitense come l’Institute for Peace, l’International Republican Institute e il National Endowment for Democracy (NED), guarda caso fondato nel 1983, lo stesso anno dell’AEI.
Lo scopo del NED era quello di coordinare e finanziare una rete di ONG di promozione della democrazia come il National Democratic Institute (NDI), l’International Republican Institute (IRI), il Centre for International Private Enterprise (CIPE), il Centre for International Media Assistance (CIMA) e altri. Tutte queste organizzzioni, e molte altre sorte in seguito, hanno molto in comune. Sono talmente organiche all’imperialismo americano che nel 2001 il capo dello Stato Maggiore Colin Powell avrebbe definito le ONG “moltiplicatori di forza e una parte importante del nostro team di combattimento”. Esse operano nella zona grigia tra Hard e Soft Power e ricevono donazioni deducibili dalle tasse da parte di gruppi industriali e finanziari (spesso indirettamente attraverso i think tank da essi controllati) oltre ovviamente a finanziamenti statali. Essendo il confine tra ONG e governo molto labile grazie ad un collaudato sistema di “porte girevoli”, i loro membri hanno il potere di influenzare la politica interna ed estera.
George Soros sale sul carro delle rivoluzioni colorate non solo a causa del suo odio viscerale verso il comunismo e l’Unione Sovietica. Nel 1973, approfittando della fine del sistema di Bretton Woods, fonda il Soros Fund Management (poi rinominato Quantum Fund). Dal 1973 al 1980, il portafoglio del fondo guadagna il 4.200%, mentre l’S&P avanza di circa il 47%. In un libro pubblicato nel 1987, The Alchemy of Finance, in cui Soros illustra la sua ‘teoria della riflessività’, viene sottolineato che chi opera sui mercati finanziari non risponde solo a delle informazioni, ma può anche influenzare la ‘realtà’ del mercato: le sue convinzioni, preferenze e pregiudizi creano dei feedback loop che spingono i mercati in una o un’altra direzione. “I mercati finanziari reagiscono alle previsioni. Le opinioni e le percezioni di chi vi opera influenzano non solo i prezzi, ma anche i fondamentali del mercato che dovrebbero determinare i prezzi (…) Il pensiero dei partecipanti, proprio perché non è governato dalla realtà, è facilmente influenzato dalle teorie. Nel campo dei fenomeni naturali, il metodo scientifico è efficace solo quando le sue teorie sono valide; ma nelle questioni sociali, politiche ed economiche, le teorie possono essere efficaci senza essere valide. Mentre l’alchimia ha fallito come scienza naturale, la scienza sociale può avere successo come alchimia. Il processo storico, a mio avviso, è aperto. La sua principale forza motrice è il bias dei partecipanti.” (7)
Sebbene sia noto che i movimenti di mercato riflettono (o sono influenzati da) bias emotivi e cognitivi, Soros non si è accontentato di far leva su questi bias per manipolare i mercati, la sua ambizione è quella di manipolare i processi storici attraverso una ‘alchimia sociale’. In diverse interviste Soros ha spiegato di essere guidato esattamente dallo stesso approccio nelle sue ‘attività filantropiche’ nell’Europa orientale come sui mercati finanziari. A questo scopo la sua fondazione finanzia un esercito di attivisti che negli anni hanno giocato un ruolo importante nelle varie rivoluzioni colorate che si sono susseguite, finanzia partiti, media e istituti accademici, infiltra e fa pressione su governi e organizzazioni sovranazionali attraverso le ONG che controlla. La strumentalizzazione dei diritti umani e civili, e il sostegno alle forze ultraliberali e progressiste, hanno aggravato fratture nella società e favorito quel tipo di polarizzazione ideologica che avrebbe scatenato il caos non solo nei Paesi in cui Washington cercava un cambio di regime, ma anche negli Stati Uniti stessi. I risultati dell’alchimia sociale di questo apprendista stregone sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, per i finanzieri parassiti come Soros le crisi sono solo un’opportunità per aumentare il loro potere e riempirsi le tasche. Gli hedge fund traggono profitto dall’instabilità geopolitica e dalla volatilità dei mercati azionari. Il caos e i cicli di boom e bust sono il loro pane quotidiano.
Chi semina vento raccoglie tempesta La destabilizzazione dell’ordine monetario e la destabilizzazione attraverso le rivoluzioni colorate dell’ordine mondiale che era emerso dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale hanno posto le basi per la globalizzazione a guida americana e hanno dato impulso alla finanziarizzazione dell’economia non solo statunitense. Negli anni ’70 e ’80 si assiste alla crescente rimozione dei controlli sui capitali da parte dei governi nazionali di tutto il mondo e, negli Stati Uniti, alla graduale erosione della legge Glass-Steagall (1933) che, in risposta alle crisi bancarie, aveva imposto la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento. La legge viene abrogata nel 1999. La svolta neoliberista ha prodotto il decentramento dello Stato che Sharp, Soros e altri della loro risma auspicavano. In una società capitalista, quando si trasferiscono l’autorità e la responsabilità delle principali funzioni governative ad una fumosa ‘società civile’ e al settore privato, non si rafforza la democrazia, ma si trasferisce il potere alle multinazionali, ai vari clan oligarchici sovranazionali e alle lobby.
Sotto la pressione delle relazioni capitalistiche tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, tutto ciò che è sacro viene profanato, per parafrasare Marx. La riduzione di tutte le relazioni umane a transazione economica in una società sempre più commercializzata e mercificata significa che le pratiche e le istituzioni su cui le persone facevano affidamento, o che valutavano in termini non commerciali, cessano di esistere o rimangono solo come parodie di se stesse o vuote astrazioni. In breve tempo, il sistema genera una nuova specie: Marx la definisce “una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova varietà di parassiti sotto forma di promotori e speculatori, un intero sistema di truffa basato sulla promozione di società, emissione di azioni e speculazione azionaria”. Già nel XIX secolo Marx aveva compreso che la legge generale dell’accumulazione capitalistica può essere modificata da varie circostanze, ma che in ogni caso la situazione dei lavoratori peggiora in proporzione all’accumulazione del capitale. (8).
Il nuovo Dollar-Wall Street Regime, per riprendere la definizione di Peter Gowan (9), ha dato vita a una classe di rentier parassitari che trae vantaggio dal caos in quanto ben posizionata per approfittare di qualsiasi crisi per aumentare il proprio potere. Questa classe aveva tutto l’interesse a destabilizzare e rovesciare i governi che resistevano alla lunga marcia del neoliberismo e al suo fondamento ideologico. A questo scopo ha unito le forze con gli apparati di intelligence anglo-americani, ha creato una rete impressionante di ONG e think tank per promuovere i propri obiettivi, creare clientele e distribuire favori. Una volta crollata l’Unione Sovietica, il Dollar-Wall Street Regime ha individuato negli Stati-nazione il nuovo ostacolo ad un impero capitalista con gli Stati Uniti al comando e ha imposto le proprie regole, aggirandole quando non si adattano ai propri interessi. Alimentati dalla stampa incessante di dollari e da un debito pubblico fuori controllo, a prima vista gli Stati Uniti sembrano un paese ricco, quando in realtà stanno sprofondando. Il ciclo continuo di “boom and bust” che arricchisce gli speculatori ha indebolito il paese, ampliato il divario economico tra le classi, generando declino, disperazione e povertà. Certo, gli Stati Uniti stanno ancora cercando di proiettare un’immagine di forza, ma a livello globale l’equilibrio di potere si è già spostato. Il fatto che gli Stati Uniti ignorino e violino le convenzioni internazionali ogni volta che esse interferiscono con i loro interessi è un indicatore di debolezza, non di forza. I doppi standard e la palese ipocrisia hanno eroso la legittimità americana. Le imprese, gli istituti finanziari, le ONG e i media americani sono diventati la punta della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti, hanno sviluppato un paradigma di governance sfaccettato che si è esteso a tutti i settori della società. Più di cento anni fa, basandosi sull’analisi del capitalismo rentier fornita da economisti marxisti e liberali, Lenin giunse alle seguenti conclusioni: “Il monopolio nel capitalismo non può mai eliminare completamente, e a lungo, la concorrenza sul mercato mondiale. La tendenza alla stagnazione e alla decadenza, che è caratteristica del monopolio, continua a operare e in alcuni rami dell’industria, in alcuni Paesi, per un certo periodo, prende il sopravvento. L’esportazione di capitali, una delle basi economiche essenziali dell’imperialismo, isola ancora di più i rentiers dalla produzione e pone il sigillo del parassitismo sul Paese che vive sfruttando il lavoro delle colonie”.
Ironia della sorte, ciò che sembrava un’espressione di potere, monopolio e dominio del dollaro, ha portato all’erosione di quello stesso potere. A lobby private e ai loro interessi è stato permesso di plasmare la politica nazionale ed estera, ma esse non sono in grado di sviluppare una grand strategy che permetta agli Stati Uniti di puntellare la loro traballante egemonia. Gli Stati Uniti stanno attraversando un’altra crisi dopo aver superato quella degli anni ’70 attraverso la finanziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione della produzione industriale, l’espansione geopolitica attraverso guerre convenzionali e ibride e la militarizzazione del dollaro. I limiti di questa strategia sono stati raggiunti e le potenze in ascesa stanno dimostrando una capacità di resistenza e di attrazione più forte di quanto gli Stati Uniti immaginino. La crisi finanziaria globale del 2008 non solo ha rivelato la debolezza dell’egemonia statunitense, ma ha anche mostrato la forza acquisita dall’economia cinese. Questa forza, unita alla coesione sociale, all’enfasi sulla cooperazione win-win con i partner stranieri invece che sul controllo e sul dominio, sull’imposizione di regole arbitrarie e diktat ideologici, si è rivelata particolarmente attraente.
Nell’anno successivo alla crisi finanziaria del 2008, Brasile, Russia, India e Cina organizzano in Russia il primo vertice presidenziale con il nome di BRIC, a cui si unisce il Sudafrica nel 2010. L’obiettivo iniziale dei BRICS era quello di trovare risposte comuni per affrontare la crisi economica globale e riformare le istituzioni finanziarie. Poiché questi cinque Paesi condividono il principio della non interferenza e un impegno verso una vera forma di multilateralismo in cui i Paesi siano partner alla pari, hanno gradualmente aumentato la loro cooperazione e attirato quei Paesi emergenti che parimenti sostenevano una riforma della governance globale e un ordine mondiale più equo.
Questa nuova realtà di Paesi sovrani determinati a difendere i propri interessi nazionali contrasta con la fallace tesi neoliberista del capitalismo transnazionale, secondo cui l’interdipendenza globale spazzerebbe via la rivalità tra gli Stati nazionali, la cui sovranità andrebbe diluita in quanto considerata d’ostacolo.
I Paesi del Sud Globale rifiutano questa tesi perché capiscono che la diluizione della loro sovranità non porta alla pace, ma di fatto al neocolonialismo — vale a dire alla loro subordinazione agli interessi della finanza occidentale e delle multinazionali. Poiché il neoliberismo ha mostrato la sua vera natura totalitaria e la potenza egemone si è data la zappa sui piedi strumentalizzando il dollaro, affidandosi ai doppi standard, alla coercizione, alla guerra e al caos per imporre le sue regole e i suoi anti-valori, è difficile immaginare come gli Stati Uniti possano continuare a rivendicare la leadership mondiale. L’attuale crisi di legittimità è molto più grave di quelle che gli Stati Uniti hanno affrontato in passato: la de-dollarizzazione sta scuotendo uno dei principali pilastri del suo potere e sta rimodellando l’economia globale. L’impatto sarà molto sentito negli Stati Uniti, dove la de-dollarizzazione porterà probabilmente ad un deprezzamento e a una sottoperformance degli asset finanziari statunitensi rispetto al resto del mondo.
Referimenti bibliografici
- 1. Martha L. Phelps, A History of Military Contracting in the United States, in The Routledge Research Companion to Outsourcing Security, 2016
- 2. Creation of the Bretton Woods System | Federal Reserve History
- 3. Vladimir Lenin, Imperialism, the Highest Stage of Capitalism, 1916
- 4. Giovanni Arrighi, The Long Twentieth Century: Money, Power and the Origins of Our Time, 2010
- 5. The Collapse of Drexel Burnham Lambert; Key Events for drexel Burnham Lambert — The New York Times (nytimes.com).
- 6. The Albert Einstein Institution: non-violence according to the CIA, by Thierry Meyssan (voltairenet.org)
- 7. George Soros, The Alchemy of Finance, 1987
- 8. Karl Marx. Capital Vol.1
- 9. Peter Gowan, The Global Gamble: Washington’s Faustian Bid for World Dominance, 1999
* La versione inglese dell’articolo è stata pubblicata il 4 novembre da “Strategic Culture”