«La tenda. Teatro e conoscenza»
Giuliano Spagnul racconta il dialogo fra Antonio Attisani e Carlo Sini
Come nel film di J. L. Godard «Vivre sa vie» (Questa è la mia vita) il filosofo dialoga con la puttana, seduti al bar uno di fronte all’altro, a loro agio nel disquisire sul senso della vita, così il filosofo Carlo Sini discute col teatrante Antonio Attisani (attore in gioventù e in vecchiaia, con in mezzo la direzione di riviste e festival e insegnamento universitario) in un agile, quanto denso, libretto (Jaca Book, 2021) La tenda. Teatro e conoscenza, su temi altrettanto impegnativi, con lo stesso spirito di felice complicità. Si sa, in fondo, che nel passato fra guitti e puttane non si faceva gran differenza: utili per il sollazzo altrui, ma poco rispettabili per essere ben accetti in una società rispettosa del decoro morale. E se vogliamo poi essere sinceri anche il filosofo che non sia servo – o, per i nostri tempi, non serva a creare profitto – non può certo ritenersi del tutto al sicuro dalla stessa stigmatizzazione che le altre due categorie di individui hanno subìto nella storia.
Dietro la tenda, come quella da cui Pitagora nascosto «teneva il suo insegnamento ai discepoli» o dietro un sipario che non si sa più se aprire, a chi e perché, si svolge un dialogo che farebbe assai rumore se solo qualcuno ne avvertisse la portata scandalosa nel suo voler accomunare il teatro, messinscena di tutte le finzioni, con la luminosa impresa della conoscenza, l’umana avventura di idee.
Teatro è finzione o, come meglio dice Attisani «finzione consapevole, una creazione di realtà verosimili attraverso le quali lo spettatore ri-conosce qualcosa che lo riguarda». E volgendo lo sguardo alla «grande svolta significata dal teatro del Novecento – la regia e il ripensamento della sua economia, la distinzione fra teatro d’arte e teatro commerciale, le prove, il teatro-laboratorio, la nuova idea di ensemble e così via – riguardano anche, in modo più o meno esplicito e consapevole, la differenza tra il voler dire e l’effettivo fare generata dal transito del vivente in scena».
Differenza, parola chiave nel pensiero di Attisani (1) è metamorfosi. Come ricorda il filosofo Étienne Souriau riprendendo il testo del filosofo cinese Zhuang Zhou che «sognò di essere una farfalla svolazzante. Bruscamente si risvegliò e si accorse di essere soltanto il miserabile Zhuang Zhou. A questo punto, “non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou”. Ma – aggiunge il filosofo – “tra lui e la farfalla vi era una differenza”. Questa differenza è un divenire, un passaggio, l’atto di una metamorfosi. Non c’è nulla di più filosofico» (2). Possiamo quindi dire che Zhou non ritrova se stesso ma trova il cambiamento, la possibilità del cambiamento?
Conoscenza sarebbe allora arte dello spossessamento di ogni identità certa con cui poter riconoscere il posto che ci aspetta nel mondo e riceverne senso e significato? Sembra che Sini si vada a situare proprio sulla stessa, poco rassicurante, soglia di transito, e al posto di Zhou e la farfalla ponga «l’azione sincrona fra attore e spettatore e nel contempo la loro irriducibile estraneità». Estraneità e complicità, dove quest’ultima «non concerne però solo la relazione attore-spettatore: essa è la soglia stessa della esperienza antropologica iscritta nell’esercizio della parola, soglia nella quale siamo tutti al tempo stesso attori e spettatori, fruitori e complici, seduttori e sedotti».
Essere estranei e dover essere complici in una storia, quella umana, che è un divenire nella continua «formazione di un sé che diviene consapevole del suo transitare». E se conoscere è divenire consapevoli, allora il teatro nel suo gioco continuo di creare finzioni in modo complice sia con chi le finge, l’attore, che con chi le accetta, lo spettatore, è la più antica delle azioni capaci di generare e strutturare conoscenza. Teatro e conoscenza trionfano quando trasformano «in un tempo-ritmo condiviso, i molti in uno e l’uno in molti attraverso un artificio che al tempo stesso indica la strada e lascia liberi di scegliere dove andare». Non è un’utopia, è la realtà del nostro processo evolutivo, un’evoluzione che ha origine «grazie all’accadere di una differenza».
L’animale parlante, recitante è apparso sulla scena del mondo ma per poter agire ed esistere deve sempre, ogni volta, ripercorrere il filo delle sue origini, per ri-conoscersi e ri-cominciare. Origini che però, come quelle del linguaggio, non esistono se non come racconto in cui «la memoria celebra sia la sua indispensabile, vivente presenza, sia lo strutturale fallimento della sua impresa, della sua ingenua pretesa di catturare nella verità del sapere la vita che è stata. Nel contempo non vi è scelta: il racconto deve darsi un passato per avere, nel presente, un futuro, deve cantare la sua favola».
La continua favola del teatro, come della vita, può esistere solo a condizione di produrre quelle continue differenze grazie alle quali si può dire che si «è fatta esperienza. È successo qualcosa, rispetto a ‘prima’», Senza di questo non vi sarebbe esperienza, e senza esperienza non potrebbe succedere nulla».
Fin qui abbiamo cercato di tirare uno dei tanti fili possibili di questo dialogo a due: quello della differenza. Ma se ne potrebbero scegliere altri: il filo che ci fa ripercorrere la storia della conoscenza, con i rischi della «parcellizzazione dei saperi» e della «mentalità ideologica e superstiziosa» con cui si è soliti raccontare, al di là dell’effettivo lavoro, l’operare degli scienziati, per esempio. Oppure quello della relazionalità come prodotto evolutivo legato alla struttura dei nostri corpi: «corpi “‘adattati’ a relazionarsi positivamente col mondo ambiente che li contiene, che li modella e che essi stessi modellano a proprio vantaggio». E così ancora innumerevoli altri possibili fili che si intrecciano fra di loro.
Ma è bene evidenziare che non si trovano qui solo fili da percorrere con il piacere della scoperta di accostamenti inediti e intuizioni feconde di altri modi di pensare. Vi sono anche, ahinoi, alcuni nodi lasciati irrisolti, molto più che pietre d’inciampo, veri e propri gnommeri, garbugli che ci piacerebbe tanto poter ignorare. Scegliendone uno per tutti ci troviamo di fronte all’interrogativo sul «come immaginare la nostra azione in questo mondo della cultura di massa, in forme che siano al tempo stesso comprensive, accoglienti, ma non conformisticamente arrese o del tutto irrilevanti». Il che equivale a riscrivere in termini affatto altri dal leninismo l’urtante quesito del “che fare”. E se la cultura di massa viene presentata come «enigma», quel “che fare” non può presentarsi come programma, progetto di un percorso rivoluzionario poiché non si può combattere o prendere, come fosse un palazzo d’inverno, qualcosa che enigmaticamente persiste a noi come oscuro.
Rispetto alla cultura di massa di oggi, da non confondere con quella popolare di un tempo (cultura di una classe subalterna in conflitto ma, al contempo, in rapporto di scambio con quella della classe egemone) non c’è possibilità di una comprensione esterna «non ci sono, non esistono da nessuna parte reali “viste esterne” (visioni non di massa della cultura di massa)» per stabilire chi sia «l’attuale uomo-massa consumatore compulsivo e turista devastatore inarrestabile». E non ci sono vie di fuga praticabili verso luoghi alternativi all’Occidente e al suo pensiero che domina oggi il mondo; un Occidente che sembra sempre più capace solo di occidere.
Ci si può opporre a questo con un generico fare cultura senza che questa divenga, sempre più un fenomeno d’élite da un lato, perché «null’altro può fare chi non governa il mondo se non cercare di formare, oltre se stesso, i futuri formatori» e dall’altro un ulteriore incrementare «la domanda di culture di massa consolatorie, con funzione di svago e adattamento modulare continuo»?
Carlo Sini e Antonio Attisani non danno risposte certe, ma indicano alcune vie per «una nuova mentalità, (…) uno scatto di pensiero» che si potrebbe, sottovoce, definire “quantistico”, soggiacente un mondo fatto di relazioni in cui «tutto ciò che si manifesta in un sistema si accerta in relazione a un altro sistema» Non è una risposta la loro, né un principiare un progetto ma la costruzione di un mattoncino per una nuova utopia che possa contenere più utopie: in cui l’utopia di uno debba sempre relazionarsi con l’utopia di qualcun altro, negoziando la possibilità di una possibile coesistenza.
Nota 1: Teatro della differenza è un testo di Attisani del 1978; cfr https://www.labottegadelbarbieri.org/teatro-come-differenza-di-antonioattisani/
Nota 2: Étienne Souriau, I differenti modi dell’esistenza, Mimesis, Milano, 2017, pag 187