La verità sulla Nakba
Intervista di Michele Giorgio a Ilan Pappè
(nel 75° anniversario della Nakba)
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Nei giorni in cui Israele celebra la sua fondazione 75 anni fa, i palestinesi sono impegnati con raduni, sit in, conferenze, dibattiti a tenere viva la memoria della Nakba, la loro «catastrofe nazionale» parallela alla nascita dello Stato ebraico nel 1948.
Una memoria fatta di esilio per centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini diventati profughi in campi allestiti nei paesi arabi vicini, di case e terre perdute e poi confiscate, di famiglie divise per sempre.
Eppure, per quanto sia sempre viva e duratura tra i palestinesi, più parti, non solo Israele, spingono per spegnerla, per impedire che sia riconosciuta e prenda il posto che merita nella storia. Ne abbiamo parlato con lo storico Ilan Pappè, docente all’Università di Exeter, autore di saggi sulla storia di Israele e della Palestina tradotti in molte lingue.
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Professor Pappè perché la Nakba viene oscurata, perché è sempre più difficile parlarne in pubblico?
Prima di spiegarne le ragioni chiariamo che le ricerche storiche fatte con professionalità a partire dagli anni ’80 da alcuni storici israeliani e stranieri e quelle realizzate prima di allora dagli storici palestinesi, hanno ottenuto risultati incontestabili sulla Nakba e le sue conseguenze. Studi e ricerche hanno documentato anche la pulizia etnica fatta da Israele nel 1948 (a danno dei palestinesi, ndr).
Questi risultati, e rispondo alla domanda, contraddicono completamente la narrazione ufficiale israeliana ad uso interno ed internazionale.
Mi riferisco alla versione che vuole l’esercito «più morale al mondo» impegnato nel 1948 a difendere Israele contro l’intero mondo arabo, alla tesi secondo cui gli arabi avrebbero chiesto ai palestinesi di abbandonare la loro terra mentre gli israeliani avevano chiesto loro di rimanere.
E all’idea che Israele non ha avuto alcuna responsabilità nelle vicende del 1948 di cui sono stati vittime i palestinesi. In sostanza per questa narrazione, non c’è stata la Nakba.
Le ricerche storiche ci hanno detto che tutto ciò è una pura fabbricazione. E che l’espulsione dei palestinesi, allora come oggi, è un crimine contro l’umanità. La preoccupazione delle autorità israeliane è che diffondendo, discutendo e analizzando gli esiti degli studi fatti dagli storici si ponga una questione morale sulla fondazione dello Stato di Israele. Se si comincia con questi interrogativi si arriva a sollevare una questione morale sull’intera impresa sionista (in Palestina, ndr) e a chiedersi perché il mondo ha permesso l’espulsione dei palestinesi.
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Come spiega l’atteggiamento di varie istituzioni internazionali nonché di governi e partiti politici occidentali, di ferma opposizione, oggi più che in passato, al riconoscimento della Nakba?
Credo che tutte queste parti internazionali, occidentali, non intendano entrare in conflitto con Israele ed esporsi al rischio di accuse di antisemitismo che sempre più spesso sono rivolte a chi critica e solleva dubbi. Vanno considerati inoltre i rapporti economici, le vendite di armi, le relazioni di sicurezza con Israele.
Quindi è molto più semplice ignorare la Nakba, zittire i palestinesi e negare la loro narrazione oltre che le loro aspirazioni.
Allo stesso tempo la società civile occidentale è sempre più consapevole della Nakba e di quanto accade oggi nei Territori palestinesi occupati e si aspetta che i governi adottino delle politiche concrete contro la negazione dei diritti e di condanna di abusi e violazioni.
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A livello accademico qual è oggi la consapevolezza della Nakba.
In termini generali si osserva da tempo un progresso un po’ ovunque. Tante università importanti, negli Usa e in Gb, nell’ambito di corsi di studi e seminari su Israele e palestinesi, hanno svolto ricerche sulla Nakba in modo corretto e professionale.
Questo vale anche per l’Italia, la Spagna e la Scandinavia.
All’Istituto Orientale di Napoli, ad esempio, ho apprezzato l’accuratezza del programma di studi su questi temi. Non mancano però all’interno delle università le attività di docenti che cercano boicottare questi lavori e di imporre la versione tradizionale degli avvenimenti del 1948 pur sapendo che contraddice la storia accertata in modo professionale dai loro colleghi.
Da questo punto di vista penso che Francia e Germania siano i paesi più problematici.
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Come giudica la linea fortemente pro-Israele dei partiti di destra che oggi governano in diversi paesi europei.
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Per questi partiti accettare la narrazione ufficiale del 1948 e la versione di Israele di quanto accade oggi, vuol dire lavare e rendere bianco il proprio passato nero.
Impressiona come alcuni di questi partiti che erano antisemiti e hanno sostenuto, persino partecipato, al genocidio degli ebrei, siano oggi i più accaniti sostenitori di Israele.
Più hanno collaborato con il Nazismo e più appoggiano le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi.
Questi partiti, peraltro, sono islamofobici e per Israele è facile convincerli che non sta impedendo a un popolo di liberarsi dall’occupazione militare e che invece sta combattendo contro organizzazioni islamiche fanatiche.
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Israele ha festeggiato qualche settimana fa, sulla base del calendario ebraico, il suo 75esimo compleanno mentre è nel pieno di una frattura interna alla sua maggioranza ebraica a causa della riforma giudiziaria avviata dal governo Netanyahu. Come legge le manifestazioni di massa a difesa della separazione dei poteri e della Corte suprema che vanno avanti da mesi.
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È in atto uno scontro tra due modelli di nazionalismo.
Le differenza è questa. Il primo, quello che porta avanti le proteste contro la riforma giudiziaria, vuole conservare il modello sostanzialmente laico, fondato su ciò che definisce una democrazia ebraica, precedente alla nascita, avvenuta alla fine dello scorso anno, del governo di destra estrema ora in carica.
I suoi sostenitori accettano solo la bandiera israeliana alle manifestazioni, per affermare il carattere nazionalista della protesta contro il governo. Il secondo modello non punta alla difesa dei principi democratici, piuttosto vuole ridefinire l’Ebraismo nel 2023 e ritiene centrale dare un fondamento più religioso alla società israeliana.
Entrambi però non mettono in discussione in alcun modo l’apartheid che viene praticato contro i palestinesi sotto occupazione militare e quelli con cittadinanza israeliana. Seguendo come i media hanno riferito sino ad oggi della spaccatura in atto in Israele, sono sorpreso che tanti giornalisti stranieri, anche quelli più esperti, non abbiano colto questi elementi politici ed ideologici tanto evidenti.
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Questo è il presente, cosa vede in futuro?
Nel futuro immediato vedremo più repressione e più discriminazione nei confronti dei palestinesi e persino contro la minoranza di ebrei che si batte per la giustizia e i diritti. Si creeranno però più fratture e contraddizioni nel sistema con sviluppi significativi nella società civile locale e internazionale per la lotta all’apartheid. Ci vorrà del tempo ma non si potranno impedire i cambiamenti che da sempre attendono i palestinesi.
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(*) Tratto da: Il Manifesto e da Pagine Esteri.
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