La versione di Jean
di Francesco Migliaccio (*)
La Stura scorre accanto all’estrema periferia settentrionale di Torino e poi confluisce nel Po. Lungo le sue sponde c’era un campo di baraccati: cittadini stranieri, poveri e marginali, per quindici anni hanno vissuto accanto al fiume.
Le istituzioni cittadine non offrivano alternative.
Nel 2013 il governo urbano ha promosso un progetto di sgombero, “La città possibile”, che ha impegnato funzionari del comune e assistenti sociali, ruspe e poliziotti.
Lo sgombero e la distruzione del campo sul lungofiume sono avvenuti nel 2015 e la maggior parte degli abitanti ha dovuto trovare nuove dimore di fortuna: altri insediamenti nascosti per la città, angoli precari dove parcheggiare un camper, appartamenti di case popolari lasciati vuoti e senza assegnazione.
La versione di Jean di Manuela Cencetti, Jean Diaconescu e Stella Iannitto racconta i giorni dello sgombero, quando funzionari comunali e agenti di polizia giungevano all’alba fra le baracche, accompagnando lo scempio delle ruspe.
La versione di Jeanè un archivio di procedure governative e forme di vita durante un periodo di sgomberi. La macchina da presa mostra la distruzione delle case e il dolore degli sfrattati, le proteste, la vita quotidiana di persone destinate all’allontanamento, i racconti di vita dei baraccati.
Le autrici non appartengono ad alcuna istituzione e godono della fiducia degli abitanti, il loro sguardo è dotato di coscienza politica e sensibilità solidale. L’assetto del punto di vista inscrive il film nel genere del documentario critico e militante.
La versione di Jean, tuttavia, eccede questa etichetta: al suo interno ci sono immagini straordinarie, forti di una genealogia originale. Sono le immagini di Jean.
Jean, abitante del campo e protagonista del film, riprendeva con il suo telefono, e riprende tuttora, comportamenti, gesti arroganti, frasi stupide e soprusi dei poliziotti e dei funzionari impegnati nel quotidiano conflitto contro i poveri.
Queste immagini sono state montate insieme alle riprese delle due autrici.
Non credo che, almeno all’inizio, Jean avviasse il video del telefono nell’intento di realizzare un film.
Il suo gesto è più concreto ancora: la presenza di un telefono che riprende le forze dell’ordine è una difesa in più per chi è oppresso.
Il funzionario o il poliziotto s’irrigidisce, perde la baldanza e più accorto segue la camera con la coda dell’occhio; così la violenza non può più essere quel normale, inconscio gesto routinario.
Una funzionaria del comune, attiva nelle procedure di sgombero, è nervosa, sente l’occhio meccanico addosso e inizia a rimproverare una famiglia di baraccati: «Non parlare male dello stato italiano perché ti ha aiutato! Io sono calmissima…Io non faccio foto a voi e voi non fate foto a me. C’è anche la privacy, mi spiace. Se no vengo a chiederti quanto costa quel telefonino e come l’hai comprato, eh?».
La funzionaria avrebbe osato rivolgere la stessa domanda a un cittadino che ancora gode dei propri diritti?
La società dei consumi difesa dai governi consente a un baraccato di avere un telefono dotato di telecamera: questo è lo scandalo del film e il gesto di Jean è un atto rivelatore.
Jean riprende l’interno di una baracca che sta per essere buttata giù, si vedono un tavolino, i giacigli, un piattino. Poi l’inquadratura si sposta verso l’ingresso e compaiono, all’esterno, i vigili accigliati.
Una di loro sta filmando Jean con una piccola videocamera.
Dice Jean: «Aspetta che anche loro ci stanno filmando. Loro filmano noi e noi filmiamo loro».
Jean ha la forza di rovesciare una procedura, rivolgendo contro il potere i suoi stessi strumenti di controllo. Torino è una città, come tante altre, ossessionata dalla sicurezza e dalla necessità di vedere, registrare le infrazioni; qui i sindaci gioiscono quando riescono a installare avveniristici sistemi di videocamere di sorveglianza dotate di software intelligenti per il riconoscimento facciale. Il rovesciamento operato da Jean è tanto semplice quanto paradossale e apre possibilità ancora inesplorate.
Dice la voce di Jean fuori campo: «Io ho detto [agli altri abitanti] che dovete filmare tutto quello che succede in campo».
Il film recupera il video realizzato da una ragazzina: si vede un’agente della polizia municipale in borghese estrarre la pistola e puntarla contro i volti dei baraccati che protestano.
Poco dopo la scena appare da un’altra angolazione, ora è Jean che riprende: gli stessi agenti hanno arrestato un uomo, lo tengono schiacciato a terra dopo aver diffuso del liquido urticante.
L’uomo ha gli occhi irritati e un’abitante si avvicina con una bottiglia d’acqua, vuole alleviare il dolore. Un’agente con il braccio tira una botta alla bottiglia, l’acqua cade a terra.
Le riprese di Jean forniscono una prima, rudimentale galleria di usi, costumi, comportamenti delle forze dell’ordine impiegate nella repressione urbana.
Se per secoli l’etnografia ha reso gli oppressi oggetto di ricerca, obiettivi dello sguardo, Jean mostra un secondo rovesciamento: che siano i poveri, i baraccati, i rom a realizzare un archivio etnografico della polizia e di altri funzionari della generale amministrazione. Allora La versione di Jean suggerisce alla fantasia d’immaginare momenti di formazione collettiva nei luoghi sotto la minaccia di sgombero: lezioni di uso della camera, allenamenti sulle inquadrature, percorsi di sperimentazione cinematografica nel tempo libero fra le baracche.
Nel sogno il cinema diviene strumento di lotta diffuso fra chi non ha voce.
(*) Da Napoli Monitor.