La vita in Iran fra Covid19 e sanzioni USA
di Marina Forti (*)
Il 29 dicembre l’Iran ha avviato la sperimentazione clinica del primo vaccino anti Covid-19 sviluppato nel Paese. L’annuncio è stato ripreso dai media ufficiali; il vaccino è stato sviluppato dalla Shifa Pharmed, azienda farmaceutica appartenente al gruppo statale Setad. L’azienda annuncia che nel giro di sei mesi da quando sarà conclusa la sperimentazione sarà in grado di produrre 12 milioni di dosi al mese. Ma questo significa che mancano ancora parecchi mesi prima che l’Iran abbia un proprio vaccino.
La Mezzaluna rossa iraniana intanto ha annunciato che nelle prossime tre settimane riceverà un primo stock di 150 mila dosi del vaccino prodotto da Pfizer e BioNTech, grazie alla «collaborazione con un gruppo di filantropi negli Stati Uniti». La notizia è poco più che simbolica, considerato che 150 mila dosi sono una goccia in un Paese di 80 milioni di abitanti.
Il 25 dicembre il governatore della Banca centrale iraniana, Abdolnaser Hemmati aveva annunciato invece che l’Iran riuscirà ad acquistare quasi 17 milioni di dosi del vaccino attraverso il programma Covax, quello istituito dall’OMS (Organizzazione mondiale sanità) per garantire un’equa distribuzione dei vaccini anti Covid-19 anche nei Paesi più deboli e a basso reddito. Grazie al programma Covax, Tehran potrà trasferire i 200 milioni di euro necessari all’acquisto delle dosi tramite una banca europea, una turca e una iraniana. Il governatore Hemmati ha precisato alla televisione iraniana che questo sarà possibile perché «sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale» l’ufficio di controllo del ministero del Tesoro degli Stati Uniti ha approvato la transazione.
Tutto questo illustra come la geopolitica stia rendendo molto difficile per Tehran la gestione dell’emergenza sanitaria. Infatti per acquistare vaccini l’Iran deve riuscire ad aggirare la barriera di sanzioni imposte dagli Stati uniti benché in teoria i prodotti farmaceutici non siano sottoposti a restrizioni.
L’Iran è stato fra i primi Paesi raggiunti dalla pandemia di Covid-19 fuori dalla Cina, nel febbraio scorso, e resta fra i più colpiti. Secondo il ministero della Sanità il virus ha ucciso 55 mila persone (al 29 dicembre 2020) e ne ha infettate 1,2 milioni. Ma i dati ufficiali sono contestati. Fra dichiarazioni semiufficiali e stime degli operatori sanitari si capisce che il bilancio è molto più pesante: si parla di qualcosa come 150 mila morti (circolano anche stime più catastrofiche, fino a 400 mila vittime). Del resto, lo stesso presidente Hasan Rohani aveva dichiarato in luglio che probabilmente 25 milioni di iraniani sono stati in qualche momento infettati dal Covid-19.
Di certo l’Iran sta registrando una terza ondata di pandemia, dopo la prima di marzo-aprile e una seconda in giugno-luglio. E il Covid-19 aggrava una serie di altre crisi: a cominciare da quella economica che è in parte legata alle sanzioni internazionali e a sua volta alimenta una profonda crisi sociale, la disoccupazione dilagante in particolare tra i giovani, ricorrenti ondate di scioperi e proteste di lavoratori che non vedono arrivare gli stipendi, un’ondata di sfratti e sgomberi di case. Già prima della pandemia il potere d’acquisto degli iraniani era crollato.
Prendiamo ad esempio i farmaci. Sino a un paio d’anni fa l’Iran importava circa il 15 per cento dei farmaci consumati nel Paese (in termini di valore); il resto è prodotto all’interno, importando quasi tutti gli ingredienti necessari. Lo Stato ha sempre sovvenzionato l’import sia di prodotti finiti che di ingredienti, e ha anche calmierato i prezzi di vendita dei medicinali al pubblico. Questo sistema però è saltato quando nel maggio 2018 Donald Trump ha deciso di ritirarsi dal Joint Comprehensive Plan of Action, meglio noto come accordo sul nucleare sottoscritto dall’Iran e altre cinque potenze mondiali, e di imporre invece una nuova serie di sanzioni economiche. A partire dal 5 novembre 2018 le sanzioni Usa hanno colpito le banche iraniane, l’industria petrolifera, quella automobilistica, e poi via via tutto il possibile: è quella che il segretario di stato Usa Mike Pompeo ha definito strategia della «massima pressione».
Da allora l’Iran ha visto crollare l’export di petrolio, che resta la sua principale fonte di valuta: dai 2,6 milioni di barili al giorno (bpd) nel maggio 2018, a 6 o 700 mila bpd quest’anno. Il mancato reddito dell’industria petrolifera è stato solo in minima parte compensato dall’export di prodotti manifatturieri iraniani (l’Iran in effetti ha un sistema produttivo molto più differenziato di altri grandi produttori di idrocarburi ed esporta beni di consumo nei Paesi vicini).
Inoltre negli ultimi tre anni la valuta iraniana, il rial, si è deprezzata del 450 per cento, un crollo mai visto nella storia recente: nel gennaio 2018 si comprava un dollaro con 41mila rial, all’inizio di ottobre 2020 ne servivano 318mila; in novembre (dopo l’elezione di Joe Biden) il cambio era intorno ai 290mila. Uno degli effetti delle sanzioni è che per l’Iran è sempre più difficile fare pagamenti e “rimpatriare” il ricavato delle sue esportazioni, dato che è escluso dal sistema bancario internazionale (controllato dai Paesi occidentali con il meccanismo Swift). Così ogni transazione finanziaria è diventata estremamente costosa, visto che deve cercare vie traverse. Ovviamente anche le importazioni sono sempre più difficili e costose. Così l’Iran è entrato in recessione, già prima della pandemia. Questo spiega anche perché oggi le autorità siano riluttanti a imporre lockdown generalizzati per contenere i contagi, in particolare nelle grandi città: perché per milioni di iraniani degli strati più bassi ogni giornata senza lavoro è una giornata senza reddito. E il governo non ha le riserve di bilancio necessarie a garantire compensi e “ristori”.
Così torniamo ai farmaci. In teoria medicinali e forniture mediche sono esenti da sanzioni ma di fatto ben poche aziende al mondo sono disposte a sfidare gli Stati uniti vendendo materiale all’Iran e in ogni caso resta la difficoltà di effettuare i pagamenti. Così, già prima del Covid-19 il Paese soffriva di acuta penuria di farmaci; benché sia stata aumentata la produzione interna, anche l’importazione di ingredienti è difficile. Lo stesso vale per macchinari diagnostici e altre attrezzature. A Teheran si racconta di lunghe code presso le farmacie e di pazienti di malattie croniche che non riescono a curarsi con regolarità. «Poche cose fanno infuriare i medici in Iran, di questi tempi, quanto le sanzioni» scrive il giornalista Ahmad Jalalpour (su The Nation) e osserva: le sanzioni attentano direttamente alla salute pubblica, ma «la politica di infliggere deliberatamente sofferenze alla popolazione civile si chiama punizione collettiva, cosa vietata dalle Convenzioni di Ginevra».
(*) ripreso da «ANBAMED, notizie dal Sud Est del Mediterraneo»