UK. L’acqua privatizzata in bancarotta: storia di un fallimento annunciato

di Martina Ferlisi (*)

A 35 anni dalla privatizzazione voluta dal Governo Thatcher con la promessa di maggior efficienza, la Thames water di Londra si ritrova oggi con un debito di 15 miliardi di sterline, un servizio pessimo e le infrastrutture ridotte a un colabrodo. Pur avendo paradossalmente riconosciuto lauti dividendi agli azionisti. Un’amara lezione per chi propina ancora la falsa soluzione della finanza per “gestire” i beni comuni.

“Sarebbe stato tutto molto più bello se non ci fosse stata così tanta merda nell’acqua”. Leonard Jenkins, capitano dell’equipaggio di canottaggio dell’Università di Oxford, ha commentato così la tradizionale regata di canottaggio, la “Boat Race 2024”, che ogni anno tra marzo e aprile vede gareggiare i due atenei più prestigiosi del Regno Unito, Oxford e Cambridge, lungo il Tamigi.

Dopo la competizione alcuni canottieri si sono infatti sentiti male e hanno vomitato a causa dell’alta quantità del batterio Escherichia coli presente nell’acqua. La colpa è di alcune aziende che gestiscono i servizi idrici che hanno riversato nel fiume grandi quantità di liquami. Tra queste c’è la Thames water, la più grande del Regno Unito, che fornisce acqua e servizi fognari a Londra e nella valle del Tamigi, raggiungendo un totale di circa 16 milioni di persone.

Nel 2021 L’Environment Agency e l’Office of Water Service hanno avviato un’indagine, la più estesa fino ad ora condotta su duemila impianti di trattamento delle acque reflue, terminata a settembre di quest’anno con una multa di 168 milioni di sterline per scarichi fognari illegali nei fiumi e nel mare alla Yorkshire, Northumbrian e alla Thames water. Andando ad aggravare una situazione finanziaria sempre più complicata.

Oggi Thames water si trova infatti sull’orlo della bancarotta con un debito di 15 miliardi di sterline e liquidità sufficiente a gestire operazioni ancora fino a maggio-giugno 2025, secondo alcune fonti citate dal Guardian.

Oltre agli effetti funesti sui canottieri, le prove del decadimento dell’azienda sono molte ed evidenti: fiumi intorbiditi dalle acque reflue quando piove e minacce di carenza idrica in estate, tubature e condutture scoppiate e fatiscenti e una perdita di 570,4 milioni di litri al giorno, più di 200 miliardi di litri all’anno, equivalenti a poco meno di un quarto dell’intera fornitura idrica.

Per l’azienda, privatizzata insieme ad altre dieci nel 1989, è stato proposto un regime di amministrazione speciale, una sorta di “ri-nazionalizzazione temporanea”, di cui si sta discutendo, cercando in tutti i modi di evitarla.

Il caso della Thames water è forse il più rilevante ma non l’unico. Il settore idrico inglese in generale è oggi diventato sinonimo di cattiva gestione e autentica avidità aziendale. Clive Lewis, deputato laburista, ha denunciato la situazione nel maggio di quest’anno, lanciando una petizione per riportare l’acqua sotto la proprietà pubblica. Nel testo si legge che le aziende idriche hanno accumulato qualcosa come 64 miliardi di sterline di debiti e allo stesso tempo distribuito dividendi per 78 miliardi da quando sono state privatizzate, e che hanno pagato 1,4 miliardi di dividendi solo nel 2022.

Tutto è iniziato come detto 35 anni fa, quando per adattarsi ai nuovi standard sull’inquinamento dell’allora Comunità europea, l’amministrazione di Margaret Thatcher si convinse e raccontò all’opinione pubblica che solo il capitale privato e il mercato azionario avrebbero permesso di apportare i miglioramenti necessari.

D’altronde in quegli anni erano state già privatizzate la British Telecom (1984) e la British Gas (1986) e, per dare un’idea dello spirito del tempo, nelle memorie della prima ministra, si possono leggere alcune delle “sciocchezze emotive” diffuse tre le persone: “Guarda, sta privatizzando persino la pioggia che cade dal cielo”. “Ribattevo che la pioggia poteva venire dall’onnipotente, ma lui non ha inviato i tubi, l’impianto idraulico e l’ingegneria per accompagnarla”.

Inoltre la spesa per la revisione delle tubazioni e per i lavori di trattamento delle acque reflue era continuata a diminuire dalla metà degli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta, tanto che il Regno Unito si era guadagnato l’appellativo di “uomo sporco d’Europa” per l’inquinamento delle spiagge e dei fiumi.

Le aziende idriche furono quindi vendute per un totale di 7,6 miliardi di sterline che si tradussero però in proventi netti per il Tesoro pari a zero. Il governo cancellò infatti tutto il debito a lungo termine dovuto alle precedenti autorità idriche e iniettò denaro pubblico nelle nuove società definendolo “dote verde”. Incoraggiate dallo slogan “You could be an H2Owner”, furono 2,5 milioni le persone che comprarono le azioni dell’acqua. Contemporaneamente fu istituita un’autorità indipendente di regolazione e controllo di quello che di fatto diventava un monopolio privato, l’Office of water service (Ofwat), responsabile della supervisione finanziaria del settore.

A partire da quel periodo ebbe inizio un decennio durante il quale il settore fu completamente trasformato fino a diventare irriconoscibile. Un articolo del Guardian del 1999 rifletteva proprio sugli “effetti contrastanti della privatizzazione dell’acqua”, riconoscendo che da un lato era stato investito molto nel miglioramento delle infrastrutture, “tanto che ora disponiamo di un’acqua potabile decisamente migliore”. Dall’altro però una parte degli extra-profitti era già stata “dissipata in diversificazioni sconsiderate, dividendi eccessivi e aumenti immeritati delle retribuzioni dei consigli di amministrazione”.

Alcune aziende, grazie all’aumento dei prezzi delle azioni e all’accesso a capitali a basso costo, cominciarono infatti un processo di diversificazione. La Thames water firmò contratti per gestire reti idriche in Indonesia e in Cile. La Welsh water acquistò hotel e country club e la Anglian water addirittura una società di costruzioni.

Quando nel 1995 il governo cancellò le sue azioni nelle dieci società iniziarono invece “i giochi di acquisizione”. La Northumbrian water, ad esempio, fu acquistata dalla francese Lyonnaise des eaux. Scottish power acquistò Southern water. Nel 2000 la Thames water venne acquistata dall’utility tedesca Rwe che sborsò 4,3 miliardi di sterline in contanti e si fece carico di 2,5 miliardi di sterline di debito.

Il capitale straniero “inseguiva” i servizi pubblici del Regno Unito e questa era considerata una cosa molto positiva, finché, nei primi anni del Duemila, due eventi segnarono un punto di svolta e aprirono a una nuova fase.

Nel 2002 Railtrack, il gruppo di società proprietario dei binari e delle stazioni del sistema ferroviario britannico, dopo una serie di incidenti mortali fu costretta all’amministrazione controllata e trasformata in Network Rail. Allo stesso tempo, fu necessario il salvataggio della British Energy, proprietaria della maggior parte degli impianti nucleari del Paese. Questi due fatti causarono il panico politico e il timore che il capitale straniero sarebbe presto evaporato, spingendo l’Ofwat a prendere delle decisioni che, con il senno di poi, hanno accelerato l’assunzione di rischi finanziari.

Nel 2002, Ofwat ha deciso infatti di estendere a 25 anni le licenze d’esercizio delle società idriche che sarebbero dovute scadere nel 2014. Secondo l’autorità il periodo di preavviso più lungo avrebbe consentito alle aziende e ai loro investitori di pianificare in anticipo e in modo più sicuro. In realtà la riforma finì per proteggere le aziende con performance inferiori da qualsiasi minaccia a medio termine di essere sostituite. Nel 2004, poi, la revisione quinquennale dei prezzi fu vista come un regalo alle aziende: le fatture aumentarono del 20%.

L’acqua divenne quindi ancora più attraente per gli investitori. Fu infatti in quegli anni che cambiarono veramente le regole del gioco, grazie all’ingresso di nuovi acquirenti che questa volta però erano perlopiù di tipo finanziario come banche di investimento, fondi infrastrutturali, fondi pensione.

Tornando al caso della Thames water, esemplificativo di quanto è accaduto nel settore, nel 2006 venne acquistata per otto miliardi di sterline dalla più grande banca di investimento australiana, la Macquarie, che l’ha gestita fino al 2017.

Poco dopo l’acquisto, nel 2007, Thames water si imbarcò in una cartolarizzazione dell’intero business. L’attività di tubazioni e impianti di trattamento delle acque reflue fu quindi impacchettata in una complessa struttura aziendale, con otto livelli di proprietà, inclusa una filiale nelle Isole Cayman. Ciò le permise di sovrapporre debito a debito, “come gli strati di una torta nuziale”, si legge sul Guardian.

All’improvviso, i rapporti di leva finanziaria nel settore idrico del 50% o del 60% salirono oltre l’80%. I debiti di Thames water, che al momento della privatizzazione erano pari a zero, aumentarono da 3,4 miliardi di sterline nel 2006, anno precedente all’acquisto da parte di Macquarie fino a 10,8 miliardi di sterline nel 2017.

Il denaro nel frattempo andava altrove. Un dividendo di 656 milioni di sterline è stato distribuito nel primo anno di gestione di Macquarie, nel 2007, a fronte di un profitto di 241 milioni di sterline. Thames water ha poi spartito dividendi per oltre 200 milioni di sterline in ciascuno dei sette anni successivi. Solo lo scorso anno, però, Ofwat ha introdotto il potere di sospendere il pagamento dei dividendi qualora metta a rischio la resilienza finanziaria della società.

Dopo Macquaire, nel 2017, è subentrata la holding Kemble water, dietro la quale ci sono diversi investitori istituzionali stranieri, tra cui un fondo pensione canadese e operatori statunitensi, australiani, cinesi e arabi. La situazione è rimasta più o meno la stessa.

L’estate scorsa l’azienda ha evitato il fallimento grazie agli investimenti dei finanziatori. Oggi, l’unica differenza con l’anno passato è che da una parte questi non vogliono più iniettare denaro nell’azienda, dall’altra Owfat si oppone al rincaro delle bollette come soluzione alla crisi. Thames water ha infatti richiesto per sopravvivere un aumento delle bollette nei prossimi cinque anni del 59% (tariffe che sono già aumentate di almeno il 40% dalla privatizzazione) mentre Ofwat ha ne provvisoriamente consentito uno del 22%.

Il caso del Regno Unito sembra quindi essere l’esempio concreto del fallimento della privatizzazione di un bene primario come l’acqua. E dell’incompatibilità tra la necessità di garantire l’accesso a un “diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani” -come riportato dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010- e l’obiettivo tipico della gestione privatistica e finanziarizzata, anche nelle vesti di una formale proprietà pubblica, di fare profitti. Tredici anni fa oltre 26 milioni di cittadini italiani lo hanno ribadito.

(*) Tratto da Altreconomia.

alexik

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