Lampedusa: andata e ritorno
di Lucia Pepe (*)
Sono tornata il 21 febbraio da Lampedusa, ero lì come mediatrice dell’Asp. Nei giorni in cui sono stata sull’isola non ci sono stati sbarchi, dunque la situazione era abbastanza gestibile: io e la mia collega svolgevamo il nostro ruolo in supporto a medici e personale sanitario del poliambulatorio con i pazienti stranieri inviati dal centro di prima accoglienza.
Era la mia prima volta a Lampedusa, e non intendo lavorativa ma la prima volta in assoluto. Arrivare nell’isola, tanto cantata per le sue spiagge e il suo mare, in pieno inverno, camminare per la via principale dove tutti quelli che hanno macchine fotografiche in mano non sono turisti ma giornalisti, ha un che di surreale. A Lampedusa dal punto di vista del mio lavoro, ogni sensazione è ingigantita e, allo stesso tempo, è come se sentissi una sorta di “isolanità” in ogni gesto ed emozione, nel senso che tutto ciò che fai e senti pare rimanere confinato nello spazio e nel tempo dell’isola.
Pensavo che una volta tornata a casa, elaborate e digerite le sensazioni, le parole, gli occhi incontrati in questi giorni, avrei voluto scrivere di questa esperienza; e infatti avrei da dire sensazioni e riflessioni su tutto il sistema accoglienza/emergenza. Non ora però; adesso voglio parlare del ritorno.
Ho visto diversi ragazzi al poliambulatorio di Lampedusa che avevano necessità di essere curati e altrettanti per le strade dell’isola, in qualche modo bisognosi di cure anche loro. Tornata a Palermo, ho rivisto i miei ragazzi, utenti dello Sprar¹ presso il quale lavoro, e ho pensato di essere fortunata ad avere la possibilità di seguirli per mesi, di vedere il loro progetto prendere forma, vederli parlare l’italiano ogni giorno di più, conquistare pian piano la loro fiducia e rendermi conto di dargli la mia. Ho riscoperto l’importanza del lavoro al di là della porta del poliambulatorio o al centro di prima accoglienza. Penso di essere fortunata a poter lavorare oltre l’emergenza (mi sembra superfluo aggiungere che il lavoro in emergenza è assolutamente necessario, difficoltoso e lodevole, ed io per prima ci tornerei se mi fosse richiesto) perché così c’è la possibilità di costruire, di porre le basi per modelli virtuosi in cui chi arriva non è soggetto passivo di assistenzialismo, bensì parte attiva in un continuo scambio di conoscenze ed esperienze.
Il caso ha voluto che proprio in questi giorni si tenesse presso Comunità Urbane Solidali, progetto all’interno del quale è presente lo Sprar, un laboratorio sull’uso dei trampoli. Così utenti e operatori ci siamo ritrovati tutti nelle sicure mani degli Artisti Aquilani² a provare questa fantastica esperienza. Al di là del bel clima che si è creato – fra risate, qualche timore e la voglia di mettersi in gioco – ciò che mi ha fatto davvero riflettere sono i princìpi base per stare su: è necessario cambiare prospettiva e bisogna trovare un equilibrio nuovo, inoltre se ti fermi caschi giù… A meno che non ci sia qualcuno a sorreggerti. Eravamo in tanti a cercare un equilibrio, sicuri che, in caso di caduta, ci sarebbe stato qualcuno a sorreggerci.
Info:
Comunità urbane solidali: https://www.facebook.com/comunita.urbane?fref=ts http://www.comunitaurbanesolidali.org/
Artisti Aquilani: http://www.artistiaquilani.it/
NOTE
1 – Centro del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
2 – Associazione di teatro e promozione culturale presente in questi giorni a Palermo per la prima del loro spettacolo «Zugzwang»: se vi capitasse di incrociarli consiglio di andare a vedere il lavoro di questi straordinari artisti.
(*) Lucia Pepe è operatrice presso lo Sprar CRESM, Comunità Urbane Solidali, mediatrice culturale per Asp Palermo (Asp sta per Azienda sanitaria provinciale; vale ricordarlo perchè in altre Regioni la stessa sigla indica invece Azienda servizi persona…). La foto è di Massimo Golfieri che molto e molto ringrazio. (db)