«L’arcano senza nome» di Clelia Farris
Una favola, uno sguardo sul tempo immobile nel quale viviamo? Ho conosciuto la scrittura di Clelia Farris da poco (vedi la mia recensione a «Nessun uomo è mio fratello» su questo blog) e me ne sono innamorato. Le ho chiesto se mi regalava un racconto. E’ stata gentile e sollecita. Eccolo.
Molti anni fa, su un’isola in mezzo all’oceano, c’era una grande ricca casa e nella casa un vecchio che non si decideva a morire.
Questo vecchio aveva quattro figli, ansiosi di ereditare, cosicché una volta alla settimana ognuno di loro telefonava per conoscere le condizioni del padre, e ogni volta l’infermiera rispondeva che il poverino si era agitato, durante la notte, scuotendo le gambe e la testa, aveva invocato soccorso, chiamato ora questo ora quel nome, ma per fortuna era riuscito a vedere l’alba.
«Per fortuna» concludevano i figli dall’altra parte del filo, e chiudevano la conversazione.
La donna dava la notizia col più grande sollievo, perché se il suo paziente fosse morto, lei non avrebbe saputo dove andare.
L’infermiera era stata convocata quando il vecchio si era ammalato e i due anziani servitori non bastavano più per accudirlo.
Era una donna di mezza età, né bionda né bruna, indossava sempre un camice turchese e aveva un occhiale diverso per qualunque ora del giorno e della notte, a seconda di ciò che voleva osservare, perciò ne portava diversi appesi al collo, in tasca e sulla testa, ma quando cercava le lenti giuste le trovava al primo colpo.
Non c’è molto da fare nella grande casa, perché i domestici provvedono a tutto e il vecchio di giorno sonnecchia quieto. Così l’infermiera trascorre il tempo accoccolata su una sedia, a vegliare il malato, oppure in cucina a sbucciare fagioli per la cuoca, facendosi ipnotizzare con lei dalla serie di Le avventure di Sindbad il seduttore, che la televisione manda in onda ogni pomeriggio.
«Non puoi lasciarmi, Harun. Aspetto un figlio. Un figlio tuo».
«Non è possibile. Sai che non è possibile».
La cuoca annuisce, conosce segreti ignorati da Harun.
L’infermiera sorride tra sé e si chiede come proseguirà, se l’infida Dalila riuscirà a portar via Harun alla sorella Zainab.
Dopo pranzo passeggia nel giardino, fra le ginestre bianche in fiore, i mirti e i melograni. La macchia di rose è in boccio, centinaia di piccole bocche rosa attendono il sole per schiudersi in un fiato odoroso di paradiso.
Una mattina, dopo aver lavato il vecchio e avergli dato il latte e miele, che costituisce tutta la sua alimentazione, l’infermiera scende allegramente i gradini che portano al roseto e con grande sorpresa vede che i boccioli sono chiusi.
«Forse il tempo è ancora troppo freddo» considera.
In cucina la cuoca tira la pasta guardando la tv.
«Non puoi lasciarmi, Harun. Aspetto un figlio. Un figlio tuo».
«Non è possibile. Sai che non è possibile».
L’infermiera aggrotta la fronte Sarà una replica, pensa, e si prende dal frigo una crema alla vaniglia. Entra il giardiniere, il marito della cuoca, portando fra le braccia una coperta sporca sulla quale ha adagiato un cucciolo di cane.
«Non ho fatto in tempo a frenare» si giustifica, posandolo con delicatezza sul pavimento.
Il cane ha il bacino e le zampe posteriori insanguinati, respira a fatica.
L’infermiera lo esamina e conclude: «Bisogna sopprimerlo».
«Una creatura viva» si scandalizza il giardiniere.
«Un cucciolo innocente» gli fa eco la cuoca.
«Fate come volete. Non arriverà a domani».
Una settimana dopo, nell’entrare in cucina, l’infermiera sente il battere fiacco della coda del cane sul pavimento. È ancora nel suo angolo, sopra una vecchia giacca, acciambellato, contorto, immobile ma con gli occhi lucenti.
«Non puoi lasciarmi, Harun. Aspetto un figlio. Un figlio tuo».
Ancora? pensa la donna. Con i ritmi televisivi, a quest’ora Dalila dovrebbe essere quasi al termine della gravidanza. Il cucciolo le lambisce la mano, riesce a malapena a sollevare la testa, dal collo in giù è nero, marmoreo. Nel sollevare gli occhi l’infermiera ritrova la tazza con la crema di vaniglia che ha dimenticato sulla credenza il giorno dell’arrivo del cane.
Lancia un’occhiata alla cuoca, intenta a mescolare una pastella, rapita dal battibecco fra Harun e Dalila, prende la tazza e sta per gettarne il contenuto nella spazzatura quando l’odore intenso della vaniglia la ferma.
Ficca il naso dentro la scodella e annusa un buon odore dolce di panna fresca, vi intinge un dito, assaggia: la crema non è acida. Inforca allora gli occhiali per vedere da vicino e scrutando nella crema vede che il grasso è bianco, soffice, non ci sono né batteri né muffe. Con un’alzata di spalle getta via tutto.
Un’altra notte accanto al letto del vecchio. Mentre le sue mani sgualciscono il lenzuolo e la bocca sdentata biascica parole incomprensibili, l’infermiera spia il roseto dalla finestra della stanza. Con le lenti per osservare da lontano distingue i boccioli, eretti sugli steli, promessa di rosa che non sorgerà col sole del mattino.
«Quest’anno le rose sono pigre» esclama il giardiniere, la mattina seguente, vedendola arrivare.
«Forse hanno bisogno di più fertilizzante».
«Metterò altro sangue di bue».
I giorni passano, piogge intense si alternano a cieli limpidi e sole caldo, ma il roseto continua a essere una moltitudine di sepali sigillati, il cagnolino scodinzola, Harun si ritrova padre senza capire come mai.
Una notte, dopo essere scesa in cucina a farsi un caffè, l’infermiera lascia di proposito un bicchiere di latte fuori dal frigo, nascondendolo dentro la credenza. Trascorsi quindici giorni ne assaggia una goccia e constata che è ancora fresco e bevibile. Allora taglia una fetta di manzo crudo e la getta fra le rose. Dopo tre giorni si china sotto i cespugli e la vede appesa a un ramo spinoso, lucida, sanguigna come se fosse stata appena tagliata, nessuna formica ha tentato di suggerne i liquidi, nessuna vespa le ronza intorno, nessun verme spunta dalle striature di grasso.
Con un coltellaccio affilato reseca un pezzetto di zampa posteriore del cucciolo e benda la ferita con molti giri di garza. Il mattino dopo la garza è candida, il cane muove la coda al solito modo.
La notte è lunga per chi è sveglio, fatta di molte gradazioni di buio, dal blu scuro alla pece intensa; in quelle ore l’infermiera veglia, sdraiata sulla dormeuse accanto al letto del vecchio, in compagnia di se stessa, senza un pensiero del passato e del futuro.
Il tormento del malato ogni tanto richiama la sua attenzione e, mentre gli tampona la fronte con un panno fresco di lavanda, ha l’impressione di trattare con un assurdo suicida che, gettatosi dalla finestra, si trattenga da sé per il bavero della giacca, penzolando fra il davanzale e il grande nulla.
Quando poi il sopore la vince, un colossale toro col volto di Harun entra nella stanza, posa il collo sulle ginocchia di Dalila, che prontamente lo sgozza e dall’incisione sgorgano latte e petali di rosa.
Il viola dell’alba schiarisce in un tiepido lilla, l’infermiera sbadiglia, si pettina i capelli con le dita e si alza. Le rose si ostinano sul limitare della fioritura e se mette gli occhiali giusti può vedere la carne cruda ancora sana, sotto le foglie scure dei cespugli.
Si volta verso il letto, non ha bisogno di nessuna lente per vedere il vecchio. Lo percepisce distintamente, per intero e in ogni dettaglio, e finalmente sa qual è il suo compito, perché proprio lei, perché proprio quell’isola. Appoggia un cuscino sulla faccia del malato, non c’è bisogno di premere troppo, l’ultimo fiocco di neve cade sull’uomo addormentato nella tundra, ecco, è scivolato giù nell’imbuto, cosa troverà dall’altra parte non è affar suo.
L’infermiera raccoglie in una borsa le sue poche cose, infila gli occhiali per guardare lontano e si avvia di buon passo verso la baia; le rose, alle sue spalle, sono una fiammata di rosa acceso, ma lei ha fretta di prendere il traghetto.
Hai colto perfettamente la metafora, neppure troppo metaforica, del racconto. Non so gli altri, io ho la sensazione di vivere un momento in cui le idee, la fantasia, la libertà, sono immobili. Una pericolosa eternità.
Ciao.
Clelia