di Simone Villani (*)
La questione del lavoro è scomparsa dalle agende politiche di quella che ancora ostinatamente continua a chiamarsi sinistra, la sinistra istituzionale dei grossi partiti nazionali. I timidi riferimenti allo sfruttamento, alle miserabili condizioni di lavoro, al lavoro nero, mancano di una radicale interrogazione sulle trasformazioni attuali del lavoro, di un discorso nuovo che sia capace di stare al passo coi tempi e i suoi nuovi modi di produrre e di sfruttare.
Non è possibile infatti comprendere in profondità la direzione e le strategie di questo governo neofascista, nonché la sua stessa ascesa al potere, se non nel quadro di una ristrutturazione del modo di produzione capitalista in senso neoliberale.
Ah, l’antico capitalismo! Non ne sentiamo più parlare se non come una vuota parola! Eppure, è ancora qui, insieme a noi, e ha cambiato la sua forma per assumerne una più subdola, mascherato dall’apparente assenza, come diceva Thatcher, di un’alternativa.
Facciamo un attimo di chiarezza.
In che cosa consiste il disegno dell’Autonomia differenziata (AD) recentemente approvato? Lo spiega l’economista barese Gianfranco Viesti, in Verso una secessione dei ricchi?.
Ma perché “dei ricchi”, e perché proprio una “secessione”?
Non si tratta dopotutto del sacrosanto diritto delle regioni di avere più autonomia nelle decisioni regionali?
Di sburocratizzare lenti processi decisionali statali?
Di essere sovrani nel proprio territorio, per dio!
Per lo meno, è questa la retorica che da anni, da più di tre decenni, infiamma gli animi della Lega (ieri Lega Nord, ricordiamolo), una retorica che mal si confà al centralismo dichiarato della destra sociale di Fratelli d’Italia (e che infatti è stata subito rimodulata dalla Premier).
L’Autonomia differenziata era una proposta di legge, ora legge, di gestione regionalizzata di alcune materie sociali sinora di competenza statale.
In altre parole, se lo Stato ha storicamente assunto la vocazione di gestione sul territorio italiano di elementi strutturali della tenuta del paese, in assolvimento dei principi di solidarietà e collaborazione politica, con l’Autonomia differenziata questo ruolo verrà più facilmente svolto dalle Regioni, che avranno la facoltà di istituire proprie politiche pubbliche – a livello regionale – di gestione di importanti ambiti come la sanità (come già fanno), l’istruzione, le infrastrutture, l’ambiente, i beni culturali.
Da un punto di vista di potestà statale, si tratterebbe di una sottrazione al potere statale di una fetta decisionale importante di autorità nella presa delle decisioni che riguardano l’interesse generale.
Ma il decentramento politico e amministrativo non è un male in sé, laddove accuratamente pensato per rispettare il pluralismo interno di una realtà complessa sul piano territoriale e sociale. Dov’è invece l’inghippo?
Che l’accentramento delle decisioni nelle mani delle regioni – e nello specifico dei presidenti di regioni, carica che negli ultimi anni ha visto un sempre più progressivo accentramento di potere – non solo aumenterebbe la complessità del percorso legislativo generale, rendendolo così sottoposto ad una continua negoziazione Stato-regione tramite delle trasmissioni lontane dal controllo dei cittadini; ma anche che ingenti risorse economiche scaturite dal prelievo fiscale finirebbero per essere distribuite in modo diseguale sul territorio nazionale.
Antimeridionalismo significa razzismo e classismo
Questo è un punto importante che merita la nostra attenzione: i territori, come spiega il costituzionalista torinese Francesco Pallante, non sono soggetti al prelievo fiscale.
La propaganda leghista si è dimenticata che a pagare le tasse sono gli individui, e non le regioni. Una volta prelevate le tasse, queste vengono redistribuite sui territori in servizi utili a tutti i cittadini e le cittadine, secondo dei parametri di utilità sociale che cercano di garantire il benessere socio-economico di chi si ritrova – non per propria scelta – in condizioni di marginalità.
Al contrario, il regionalismo differenziato ha fatto leva sul concetto di “residuo fiscale”, ovvero alla quantità di denaro che si ottiene sottraendo il gettito fiscale generato da un territorio (invece generato, appunto, dalle singole persone) dalla spesa pubblica effettuata in quello stesso territorio.
Si tratterebbe quindi di una quantità di denaro che la regione, diciamo il Veneto, dà allo Stato senza che questo ricontribuisca la regione con una corrispondente somma di spesa pubblica. Soldi trattenuti!
Peccato che i criteri di redistribuzione della ricchezza dipendano dal reddito, dal patrimonio, l’età, lo stato di salute, le condizioni personali e familiari, ecc. e nulla hanno a che vedere con la regione di residenza!
E soprattutto così ci dimentichiamo che il principio di progressività fiscale si applica ai e alle concittadine, e non alle regioni, i quali concorrono alle spese pubbliche progressivamente in ragione della loro capacità contributiva.
Mascherando questo punto sotto l’idea che “le regioni più produttive” siano quelle “del Nord”, la Lega ha reso omogeneo il territorio regionale, nascondendo le differenze di classe al suo interno e proiettandole invece sul piano nazionale.
Infatti, dobbiamo ricordare che le regioni non sono territori omogenei, e che al loro interno la ricchezza è distribuita in modo diseguale, così come sul territorio nazionale: questo vale sia per l’Emilia-Romagna, il Veneto e la Lombardia che per la Sicilia, la Calabria, e la Puglia.
Invece, rappresentando la regione come unità produttiva, la retorica leghista ha potuto agganciare la tassazione e il suo malcontento all’identità regionale: ha unito in una rappresentazione fintamente unitaria (la regione) il destino di classe di persone diverse (imprenditori e lavoratori ad esempio), fomentando l’idea che i soldi prelevati dalle tasse siano “i soldi del Nord”, ovvero i soldi di una omogenea e compatta realtà sociale.
Questo ha permesso a chi disponeva di maggiore capitale da un lato di confondersi e nascondersi in questa rappresentazione, e dall’altra di affiancarsi a chi disponeva meno capitale nel conflitto verso un nemico comune, individuato nel “Mezzogiorno”.
Cavalcando l’idea di Mezzogiorno come realtà arretrata, nullafacente, poco istruita e retrograda, la Lega ha davvero “costruito” un nemico, un Altro, riproducendo quel meccanismo di esclusione interna, razzista e classista, del discorso liberale post-unitario che, come ci ricorda Carmine Conelli, è alla base della costruzione coloniale del Sud come terre e corpi da sfruttare.
Attraverso l’analogia Mezzogiorno-Africa è stato possibile per le élite politiche ottocentesche che guardavano con favore all’industrializzazione europea, auto-rappresentarsi come zavorrati da una parte di territorio improduttivo, che altro non era se non una classe popolare esclusa e repressa dal processo unitario.
Oggi, allo stesso modo, le élite politiche sostenitrici dell’Autonomia differenziata, intrecciate negli interessi del capitale globale, si auto-rappresentano come zavorrate dalla tassazione progressiva, da un Sud che non riesce stare al passo, ladro e criminale, accuse che sono rivolte anche alla componente razzializzata di questo paese (ricordiamo che il promotore del ddl di Autonomia differenziata è lo stesso uomo, Calderoli, che ha rivolto insulti razzisti alla ministra Kyenge).
L’accumulazione di capitale e il progetto neoliberista dell’Autonomia
Arriviamo quindi al punto centrale di questa questione.
L’Autonomia differenziata si presenta come un progetto di auto-affermazione, apparentemente innocuo e legittimo, di decentramento politico nella gestione di materie sociali, culturali, fiscali, amministrative che fanno carico alle esigenze specifiche di realtà locali, che si considerano avanguardia nello sviluppo del Paese.
Questa è la retorica di Veneto e Lombardia, a trazione leghista, ma anche dell’Emilia-Romagna, a trazione PD. Ciò può apparire strano ad un primo sguardo, ma dobbiamo ricordare che la retorica antimeridionalista è trasversale ai partiti politici istituzionali, e in alcuni casi più subdola. Abbiamo infatti visto come la costruzione di una realtà omogenea identitaria e l’esclusione di una realtà altra tramite la sua delegittimazione siano parte integrante della strategia retorica di questo progetto politico. Tuttavia, intrecciata in modo indissolubile a questa retorica c’è una strategia economica invisibilizzata e pervasiva.
L’Autonomia differenziata non è un processo di negoziazione di indipendenza dall’Italia, o dall’Europa, è un processo di autonomia interna che mira a mantenere intatta la forma dello stato-nazione – semmai a complicarla – per rimodellarne il tessuto economico e sociale. Dobbiamo quindi andare a vedere di che cosa si tratta a questo livello trasformativo.
Questo processo di attribuzione propria di competenze statali, nonché il trattenimento a livello regionale di una serie di risorse ottenute tramite la tassazione a livello individuale su scala nazionale, costituisce un vero e proprio processo di accumulazione capitalistica. Riportando il caro vecchio Marx sulla scrivania, leggiamo ne Il Capitale che un processo di accumulazione è un processo attraverso il quale delle risorse comuni (territori, denaro, ma anche potere) sono accaparrate per fini privati da una classe di persone.
In questo caso, si tratta di un processo che una classe di persone residenti nelle regioni a trazione imprenditoriale più spinta del Nord Italia vogliono intraprendere sottraendo al resto della comunità una serie di risorse che spettano loro per il principio di redistribuzione della ricchezza.
Dobbiamo rovesciare il ragionamento leghista e piddino: non si tratta delle regioni che “producono di più” a cui va riconosciuto questo “merito” dando “quanto gli spetta”; si tratta invece delle regioni che, a causa di una trazione differenziale dell’economia nazionale mai davvero sanata dall’Unità d’Italia, producono una ricchezza che, nel rispetto del principio della solidarietà tra concittadini e concittadine che appartengono alla stessa comunità, va redistribuita verso chi ne ha più bisogno.
Se il progetto politico di una comunità sostenuta da relazioni materiali, sociali e culturali, nel pluralismo e nella solidarietà fosse un obiettivo reale, come del resto la Costituzione stessa sancisce, il trattenimento di una parte della ricchezza (ri)prodotta da questa comunità da parte di alcuni costituirebbe una sottrazione vera e propria di risorse, a discapito della riuscita stessa del progetto della comunità.
Ed è infatti allo smantellamento di progetti di solidarietà che le trasformazioni neoliberali della società stanno guardando.
Frammentazione neoliberale e reazione neofascista
Neoliberismo e regionalismo a là autonomia differenziata sono correlati.
Essi, potremmo dire, sono due facce della stessa infame medaglia.
Sfruttano la disparità di condizione delle soggettività come occasione per fomentare un meccanismo competitivo a cui solo i più meritevoli, dicono, potranno sopravvivere.
È la retorica liberale, a destra come a sinistra.
Neoliberismo e regionalismo, così facendo, producono individualismo e frammentazione, ed è proprio la frammentazione, secondo la fortunata formula di Quinn Slobodian, che assume il nuovo capitalismo: scomponendo il welfare, destituendo i meccanismi di tassazione progressiva, rompendo il potere contrattuale sindacale (pensiamo a come sarà complicato gestire i rapporti di forza su scala nazionale se i sindacati e le scuole saranno regionalizzati) questo nuovo capitalismo destruttura i legami sociali ricomponendoli in legami di produzione di profitto.
Lo fa creando zone di “secessione” al suo interno, buchi nella trama degli Stati-nazioni che sono veri e propri luoghi d’eccezione, con leggi diverse e senza controllo democratico (paradisi fiscali, porti franchi, distretti extradoganali, ecc.).
Il capitalismo adopera un meccanismo differenziale di produzione del “fuori”: modulando i rapporti di valore tra le sfere della (ri)produzione, circolazione, consumo, abbassa i costi e alza i profitti. Lo ha fatto con le colonie, la sfera domestica, le periferie; lo vediamo ora più che mai per la circolazione del capitale finanziario.
L’Autonomia differenziata s’inserisce perfettamente in questo meccanismo di frammentazione. Essa può essere intesa sia come suo risultato che come sua rinnovata direzione.
Da un lato, è il risultato ideologico di una risposta reazionaria alle crisi del capitale, secondo una convulsione sociale, già denunciata da Karl Polanyi, per cui di fronte alle grandi crisi, il ritorno rassicurante alla ricomposizione identitaria (fittizia) è cavalcato e prodotto dai fascismi più insidiosi.
È quanto possiamo leggere nella vittoria di FdI alle elezioni del 2022, dopo la crisi del 2019, ma che vedevamo nelle destre già dai tempi di Berlusconi e attraverso la crisi del 2008; sebbene non si tratti di una reazione di massa identica a quella del fascismo storico, questo nuovo fascismo, cavalcando la spoliticizzazione e l’inaccessibilità della politica, ha raccolto un sentimento revanscista di unità di fronte alla frammentazione.
Dall’altro, l’Autonomia differenziata è la direzione di un processo di accaparramento delle risorse nel quale gli interessi del capitale e del mercato sono facilitati dall’intervento statale, disegnando un futuro nel quale i ricchi continuano ad arricchirsi, e i poveri si impoveriscono, e i più complessi fenomeni sociali sono guidati non dallo spirito di solidarietà e comunità, ma da quello di individualismo, profitto e razzismo.
Un futuro nel quale il capitalismo vuole esistere senza la democrazia.
Come comporre un nuovo fronte politico, antifascista e antirazzista, capace di nuovi programmi e nuove pratiche all’altezza delle crisi neoliberali, sembra essere il programma politico dei prossimi tempi.
Immagine di copertina: simonecasadei via Flickr, foto nell’articolo di Wikicommons.
(*) Tratto da Dinamopress.
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