Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi
recensione a «Chi sono i nostri», un’inchiesta del collettivo Clash City Workers
di Ascanio Bernardeschi (*)
In un mondo del lavoro frammentato e sconfitto come ripartire? Chi e dove sono i nostri referenti di classe? Chi e dove sono i nostri nemici e come riunificare le mille lotte che attualmente non comunicano fra loro? La borghesia sa che le condizioni strutturali inevitabilmente vanno omogeneizzando il mondo del lavoro e cerca perciò di introdurre elementi di divisione sovrastrutturali. Un’inchiesta del collettivo Clash City Workers ci aiuta a capire
La crisi generale del capitalismo aggrava pesantemente le condizioni del mondo del lavoro. Qua e là assistiamo a momenti di ribellione e di lotta che nessuna forza della sinistra è stata in grado di unificare. Nello scoramento generale stanno facendo breccia le semplificazioni populiste e la peggiore destra xenofoba, mentre la “sinistra” si aggrappa alle mode culturali del momento, dimostrandosi incapace di un’analisi della fase all’altezza delle necessità.
Per cambiare il mondo deve essere posto al centro il nodo della contraddizione capitale/lavoro, ma cos’è oggi il lavoro? Non tutti i proletari sono uguali davanti al capitale. In una realtà volutamente frammentata bisogna capire “dove sono i nostri”.
Clash City Workers, un collettivo “di lavoratrici e lavoratori, disoccupate e disoccupati, e di precari”, si è cimentata in questa impresa e ci offre un prezioso contributo, una sorta di inchiesta sul mondo del lavoro e alcune deduzioni politiche conseguenti.
La lettura di questa indagine è raccomandata a tutti coloro che sono impegnati nelle lotte del mondo del lavoro. In questa sede cerchiamo di riferirne alcuni punti principali.
La cosiddetta deindustrializzazione
Per prima cosa, in maniera documentata, attingendo alle stesse fonti prodotte dagli economisti borghesi, viene spazzato via il luogo comune sulla fine del lavoro, la deindustrializzazione e la tendenza alla terziarizzazione. Se corrisponde al vero la netta diminuzione del peso dell’industria nel sistema economico italiano e il contemporaneo aumento di peso del settore dei servizi, sia in termini di prodotto che di addetti, i capitalisti per primi non credono a questa favola e dispongono di analisi più attente in cui tale diminuzione viene spiegata sia con l’esternalizzazione di molti servizi (in pratica quelli che si prestavano all’interno delle imprese industriali, oggi vengono prevalentemente prodotti da aziende specializzate classificate come “terziario”), sia con la dislocazione verso altre aree del mondo di lavori a bassa intensità tecnologica, quando, per motivi tecnici stringenti, sono difficilmente dislocabili una serie di servizi, sia, infine, con l’incremento del settore dei trasporti conseguente allo sviluppo degli scambi internazionali. Risultato: la domanda dell’industria traina la metà delle attività di servizio e resta un fattore strategico fondamentale.
Dimensioni aziendali
Se il sistema economico italiano è eccessivamente frammentato e, contrariamente al motto “piccolo è bello”, scarsamente competitivo, la tendenza generale è alla concentrazione dei capitali, grazie anche alla crisi, e pertanto è in crescita la già notevole quota di coloro che lavorano in imprese con più di 20 addetti. Oltre il 65 per cento dei lavoratori dipendenti, all’epoca dell’indagine era coperto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Cosa resterà di questa protezione quando la maggior parte della forza lavoro sarà assunta con i contratti “a tutele crescenti”? Ci sono comunque gli spazi per organizzare una buona parte dei lavoratori dipendenti.
Giovani, donne e immigrati
In conseguenza del fatto che la maggior parte degli inserimenti lavorativi avviene con contratti precari, i giovani sono meno tutelati e guadagnano molto meno dei lavoratori più anziani. Con il procedere del turn over questa condizione si estenderà gradualmente alla quasi totalità del mondo del lavoro.
Anche le donne sono maggiormente colpite: il numero delle occupate è minore di 10 punti percentuali rispetto a quello degli uomini, la paga oraria e le prospettive di carriera sono inferiori.
Infine i lavoratori stranieri (più del 10 per cento della forza-lavoro dell’industria) sono molto più colpiti dalla crisi sia in termini di retribuzione e di qualifiche – nettamente più basse rispetto al titolo di studio posseduto – che di livelli di disoccupazione. Capito fascioleghisti?
Settori lavorativi
L’analisi differenziata dei diversi settori avviene incrociando i dati statistici ufficiali con le conoscenze dirette e le esperienza di lotta del collettivo. Per ogni settore vengono esposti dati anche disaggregati: numero di addetti, loro suddivisione per sesso, età, nazionalità dei lavoratori, tipologia contrattuale, dimensione aziendale, retribuzione, concentrazione territoriale e mutamenti intervenuti su queste grandezze per effetto della crisi. Viene inoltre riferito della diversa incidenza del lavoro sommerso e di alcune delle vertenze più significative intervenute negli ultimi anni. Seguire questa analisi, anche sinteticamente, ci porterebbe oltre le dimensioni possibili di questo articolo. Ci concentreremo invece sulle deduzioni politiche che possiamo trarne.
Salta agli occhi un elemento: grazie alle modificazioni intervenute nel processo lavorativo e nell’organizzazione aziendale, perde sempre più senso la distinzione tra operai e impiegati in quanto il lavoro operaio diventa sempre più un lavoro intellettuale e quello degli impiegati sempre più meccanico e alienante. La cosa si traduce anche in una minore differenziazione delle rispettive retribuzioni.
Nelle imprese più grandi dell’industria si trova la parte più combattiva del proletariato che ha inventato anche nuove forme di lotta per acquistare visibilità negli stabilimenti chiusi. Molto più problematico è il coinvolgimento degli addetti alle piccole imprese, che può avvenire più su vertenze di un dato distretto produttivo che su vertenze aziendali. Anche le lavoratrici, forse perché più esposte ai ricatti aziendali, sono più difficilmente mobilitabili.
Il comparto delle costruzioni è quello maggiormente colpito dalla crisi e i problemi più sentiti dai lavoratori sono l’occupazione e la regolarizzazione dei rapporti di lavoro. Una loro mobilitazione è pertanto possibile su questo terreno e sulla rivendicazione di un piano nazionale di edilizia pubblica residenziale.
Nel commercio le capacità di mobilitazione, ridotte nelle piccolissime imprese, crescono notevolmente nelle grandi catene di distribuzione, in cui è possibile indire forme di lotta assai incisive e collegare le problematiche di intere filiere, dalla produzione delle merci (industria) al loro trasporto (logistica) e alla distribuzione (commercio). Un discorso abbastanza simile vale per il settore alberghiero e della ristorazione.
Nel settore del trasporto l’impatto della crisi è stato assai modesto, ma numerose e radicali sono state le vertenze, soprattutto nelle imprese che gestiscono il trasporto pubblico, oggetto di processi di privatizzazione, con conseguente peggioramento delle condizioni di lavoro (orari, contratti, sicurezza, retribuzioni). Le possibilità di organizzare lotte sono quindi assai elevate. Altrettanto si può dire per il settore della logistica che è strategico per la movimentazione delle merci nell’epoca della produzione snella, del just in time e della mondializzazione. Qui un terzo di lavoratori sono stranieri e intenso è il ricorso al lavoro nero. Elevatissimi sono i livelli di sfruttamento, anche tramite cooperative fasulle, spesso gestite da gruppi criminali, che incessantemente aprono, falliscono ed evadono il fisco. I successi delle vertenze in questo settore si sono verificati quando la controparte è stata individuata non nella piccola impresa ma nei grandi committenti della produzione e della distribuzione.
Poco consistente è il settore dei servizi di informazione e comunicazione, presente soprattutto nei grandi poli urbani che 40 anni fa ospitavano l’industria “culturale” e che si avvale di molti collaboratori esterni. Elevata è la preoccupazione di perdere il posto di lavoro, anche a causa dei processi di privatizzazione (vedi il caso Telecom).
Di consistenza modesta è pure il comparto della attività finanziarie e assicurative. L’attività, fortemente concentrata al Nord, è bilanciata fra i generi. Tuttavia le donne accedono in misura inferiore ai ruoli apicali e sono interessate da consistenti e crescenti rapporti a part-time. Oltre il 27 per cento degli addetti è costituito da “quadri” e quasi tutto il resto da impiegati. Questo fatto, e le condizioni relativamente privilegiate dei lavori nei decenni passati, spiega la tradizionale coscienza piccolo-borghese e corporativa della categoria. Tuttavia l’evoluzione tende verso una equiparazione delle condizioni dei lavoratori a quelle degli altri comparti. I processi di privatizzazione iniziati con la legge Amato-Carli hanno ridotto gli organici, incrementato la produttività e peggiorato le condizioni di lavoro e le retribuzioni. Anche l’occupazione e le prospettive di carriera si vanno riducendo a causa di questi processi e della crisi. Vanno quindi aumentando le possibilità di arruolare anche questi lavoratori nel proletariato vero e proprio.
Il settore degli “Altri servizi alle imprese” comprende attività assai variegate. In parte si tratta delle funzioni che prima venivano svolte all’interno delle imprese produttive, sia di contenuto tecnico-specialistico che manuale o strumentale (noleggio di macchinari). Contrariamente alla retorica sul lavoro “cognitivo” tra le attività di “supporto” alle imprese prevalgono le mansioni di tipo manuale spesso con rapporti di tipo interinale e retribuzioni bassissime. Quando i servizi sono in favore di enti pubblici compare lo spettro della perdita del lavoro a ogni rinnovo dell’appalto tramite gara.
Gli orari di lavoro sono pesanti e la sindacalizzazione quasi inesistente. I giovani laureati con contratti flessibili, soggetti a un intenso sfruttamento, spesso sono costretti a emigrare all’estero. Qui sono possibili lotte per superare i contratti flessibili e falsamente autonomi ed è auspicabile un raccordo tra lavoratori relativamente stabili, interinali e dipendenti delle cooperative.
Anche nel pubblico impiego si è assistito a processi di riorganizzazione con criteri vicini a quelli privatistici e con conseguente abbattimento di molti “privilegi”. I tagli alla spesa pubblica e il blocco delle assunzioni ha ridotto notevolmente il numero degli addetti. Questo snellimento ha corrisposto agli interessi del padronato, tanto da dare luogo alla battaglia ideologica sui cosiddetti fannulloni. Col pretesto della produttività e della lotta agli sprechi si è dato luogo a un netto peggioramento delle retribuzioni, dei diritti e dei ritmi di lavoro, ponendo anche forti limiti alla contrattazione e al diritto di sciopero. La scarsa predisposizione al conflitto, anche per il ruolo frenante e corporativo dei sindacati, va riducendosi in quanto le condizioni oggettive stanno uniformandosi a quelle dei lavoratori dei settori privati.
I precari nella pubblica amministrazione sono l’avanguardia di una condizione che gradualmente potrebbe estendersi a tutto il settore e hanno già portato avanti lotte importanti, consentendo la loro unificazione con quelle del personale stabile. Più in generale occorre realizzare una connessione strutturata del pubblico impiego con il resto del mondo del lavoro.
Nel settore della pubblica istruzione vi sono state importanti lotte contro la riforma Gelmini. I tagli alla spesa hanno reso gli edifici scolastici e le strumentazioni inadeguati e insicuri, le classi sempre più numerose, con la conseguente crescita dei carichi di lavoro e di responsabilità. I livelli retributivi sono bassi, così come la considerazione per la categoria, sempre più oppressa dal ruolo autoritario dei presidi. Forte è la presenza di sindacati autonomi, accanto a quelli confederali e a quelli di base.
Anche la sanità è stata fortemente colpita dai tagli alla spesa pubblica (31 miliardi in 4 anni, secondo la Corte dei Conti!), con conseguenti disagi degli utenti e dei lavoratori. Le lotte all’Ospedale San Raffaele, all’azienda ospedaliera di Careggi (FI), quelle dei dipendenti della cooperative che gestiscono i servizi di supporto, hanno dimostrato che è possibile e necessario un protagonismo dei lavoratori di questo settore e l’unificazione delle lotte con quelle in altri settori per combattere le logiche di profitto e di sottrazione di risorse che si stanno imponendo nei servizi più delicati.
Del variegatissimo settore “altri servizi collettivi e personali”, fatto di aziende mediamente piccolissime e di funzioni sia impiegatizie che operaie, con bassi livelli retributivi e instabilità occupazionale, fanno parte anche le collaboratrici domestiche e le badanti, in prevalenza straniere con buon livello di istruzione e con contratti di facciata che nascondono la reale consistenza degli orari di lavoro. Si tratta di un fenomeno in crescita per effetto del cattivo funzionamento del welfare e pertanto, pur essendo difficile intercettare queste lavoratrici isolate, sono opportune iniziative per la denuncia delle situazioni di sfruttamento, per l’emersione del nero, per la formazione linguistica e professionale, anche attraverso un’alleanza con i dipendenti della sanità e dell’assistenza pubblica.
Rapporti parasubordinati e partite IVA
Il sistema capitalistico ha teso a ridurre sempre più le figure dei lavoratori autonomi e a sussumerli in massa sotto il controllo capitalistico. Tuttavia l’Italia conosce ancora un tasso di lavoro indipendente ben al di sopra di quello di altri paesi europei, pur nell’ambito di una tendenza storica alla diminuzione. Infatti da noi tali figure rappresentano oltre il 25 per cento degli addetti contro una media del 15 per cento dei paesi OCSE e Ue. Si tratta del risultato di un patto sociale che tende a separare gli autonomi dalla classe operaia, patto che prevede anche la tolleranza verso l’evasione fiscale.
Questa “galassia” comporta notevolissime differenze di status. Dai liberi professionisti e dagli imprenditori più o meno piccoli dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio, fino ai lavoratori autonomi fasulli, alle false partite IVA, ai Co.co.co. e ad altri prestatori d’opera in posizione formalmente autonoma ma di fatto dipendente dal capitale, i cosiddetti parasubordinati, in gran parte sottratti alle rilevazioni statistiche.
Un elemento che consente di discriminare tra queste diverse realtà è il rapporto con i mezzi di produzione. Chi non ne possiede e campa solo del proprio lavoro, ha spesso interesse a diventare dipendente, quindi condivide con i lavoratori subordinati l’aspirazione alla socializzazione dei mezzi di produzione. Sono ovviamente questi ultimi che occorre arruolare tra “i nostri”, pur nella difficoltà di organizzarli. Le possibilità di riuscirci dipendono anche dalla forza e dalla capacità egemonica dei lavoratori dipendenti.
Disoccupati
Altro importante elemento è che la crisi ha accentuato le diseguaglianze sia tra le classi che tra i territori e ha prodotto oltre un milione di nuovi disoccupati. La percentuale dei disoccupati nel 2013 era del 12,7%, ma del 18% nel Mezzogiorno e del 41,6% tra i giovani, cui vanno aggiunti gli “inattivi”, cioè i disoccupati che nemmeno cercano lavoro. Vi appartengono quasi ¾ dei giovani.
Le esperienze di mobilitazione dei senza lavoro sono poche, prevalentemente nel Mezzogiorno, con rivendicazioni di assunzioni in servizi socialmente utili e un elevato livello di combattività, anche in presenza di risposte repressive. Le possibilità di lotta si vanno però riducendo anche a causa della ridotta forza delle classi lavoratrici nel loro insieme.
Visto che gli occupati sono sempre più sottoposti a orari e intensità di lavoro massacranti, la parola d’ordine “lavorare meno, lavorare tutti” potrebbe essere utile a connettere due diverse esperienze di lotta.
Tra i non occupati ci sono anche i giovani che è di moda denominare Neet (non occupati e non in istruzione). Nonostante si cerchi di fare di ogni erba un fascio, sono inclusi in questa categoria sia i figli di papà, che non hanno bisogno di lavorare, che i disoccupati e gli emarginati sociali. Essi sono aumentati di 914mla unità rispetto a cinque anni prima e la consueta concentrazione nel Mezzogiorno, si è attenuata, dato il forte aumento al Nord. Anche il divario fra maschi e femmine si è ridotto, a dimostrazione che la crisi ha teso a uniformare al peggio le condizioni del proletariato.
Due opposte impostazioni della propaganda borghese convergono a fare confusione sulle responsabilità di queste situazioni. Da un lato si individuano nei privilegi dei padri, lavoratori o pensionati, le colpe dei disagi dei figli, fomentando una sorta di guerra tra generazioni. Dall’altra si accusano i giovani che, in attesa del miraggio del posto fisso, non si impegnano a costruire il loro futuro, i cosiddetti bamboccioni.
Permane invece la concentrazione al Sud del 70% delle forze-lavoro potenziali, cioè delle persone in età di lavorativa che risultano inattive e non in cerca di lavoro, cosa che in parte si spiega con l’elevato livello di sommerso e in parte con il diverso modo di reclutamento dei lavoratori, che al Sud avviene maggiormente attraverso amicizie, clientele e altri canali infornali.
In calo invece, soprattutto tra le donne la sotto-categoria di coloro che non cercano e lavoro perché indisponibili a lavorare. Evidentemente la perdita di lavoro da parte dei maschi adulti ha costretto i loro familiari femmine e giovani a cercare lavoro.
Quindi il complesso panorama dei disoccupati, Neet, ecc. non ha molto a che vedere con scelte individuali, ma con oggettive caratteristiche del mercato del lavoro e della crisi. Il proletariato giovanile, che lavori regolarmente, o al nero, o non lavori, deve essere intercettato in base alle contraddizioni che effettivamente patisce, con mobilitazioni su un piano politico generale più che vertenziale.
Conclusioni politiche
“Non solo nell’Ipad, ma dentro l’oggetto più comune urla il fantasma di tutta la forza-lavoro consumata per produrlo” (pag. 179). C’è chi lo progetta, chi estrae la materia prima, chi la trasforma in più fasi fino all’assemblaggio, chi lo confeziona, chi lo trasporta, chi svolge mansioni di supporto, come la pulizia o le manutenzioni della fabbrica, chi ha prodotto il software del robot azionato dall’operaio. Intanto i capitali si vanno sempre più centralizzando o integrando fra di loro.
Dal punto di vista materiale, quindi, la classe è già unita, ma è stata artificiosamente divisa sul piano sindacale e politico. Ed è qui, nella ricomposizione di un’unità politica, che occorre agire. Non solo con le consuete enunciazioni ma con la presenza nelle lotte che continuano a esserci, pur separate tra di loro e spesso in assenza della consapevolezza che la controparte non è solo la singola azienda che svolge una frazione del processo di produzione complessivo, ma il capitale che comanda l’intera filiera. Ricostruire l’alleanza tra i lavoratori coinvolti nella filiera, non limitandoci alle tute blu ma includendo le figure sociali “nuove”, ugualmente produttive, questo è il compito principale. A cui va aggiunta un’attenzione verso altri settori della classe (statali, insegnanti, badanti, studenti, disoccupati ecc.) e verso le rispettive contraddizioni, cercando di mantenere però la connessione alla sfera strategica della produzione, a coloro che sono in grado di mettere le mani sui mezzi di produzione.
L’altro aspetto da considerare è che la filiera si è andata internazionalizzando e che l’elemento di divisione del mondo del lavoro è stato la competizione al ribasso del costo del lavoro. Quindi ancor più di prima l’esigenza è che i “proletari di tutti i Paesi” si uniscano. Il che non è altro che un ulteriore aspetto della necessità di connettere le lotte e di allargare il fronte di classe. Anche se in alcuni momenti può apparire che gli interessi degli operai di diversi paesi siano in contraddizione tra di loro, “l’internazionalismo conviene sempre”; la lotta per migliori condizioni di lavoro in Italia amplia gli spazi per una simile lotta in Cina e viceversa.
Sono necessarie perciò l’organizzazione di campagne comuni e di forme di coordinamento, la messa in rete di informazioni sulle lotte in ogni angolo del mondo, favorendo la presa di coscienza che l’interesse del lavoratore italiano è più vicino a quello del lavoratore cinese di quanto lo sia a quello del suo padrone italiano.
Il libro si conclude con l’individuazione di alcune fondamentali contraddizioni; la questione femminile, quella degli immigrati e quella meridionale, da non considerare secondarie né tantomeno questioni di carattere culturale e interclassista, ma come strutturali rispetto ai processi di accumulazione, assumendo la condizione materiali dei soggetti come un paradigma della condizione universale del proletariato. Esse debbono essere agitate in ogni occasione di lotta, evidenziandone la specificità, certamente, ma anche cercando di creare una connessione fra i diversi settori del lavoro. Non si tratta di “scendere dal cielo dei diritti” ma di “innalzarsi dal fango dei rapporti materiali”.
In particolare la questione meridionale, fatta di lavoratori ancor più ricattabili, di donne maggiormente subordinate ai meccanismi familiari, della presenza diffusa di lavoro irregolare e di criminalità mafiosa, deve essere considerata non come un fenomeno patologico a parte, ma come una conseguenza dei meccanismi di accumulazione del capitale. Gramsci ci ha indicato che il peculiare sviluppo italiano post unitario, l’annessione e la colonizzazione del Sud, hanno determinato coscientemente la sua arretratezza, quale bacino reazionario per arrestare le trasformazioni sociali del paese. I Clash City Workers ne deducono che “non si può risolvere la questione meridionale senza risolvere la questione sociale nazionale, e viceversa non si può risolvere nessuna fondamentale questione nazionale senza risolvere la questione meridionale” (pag. 189). Per fare ciò occorre contrapporre al blocco borghese del Nord e del Sud, un blocco sociale di proletariato che soffre della competizione fra i lavoratori Nord e quelli del Sud, dell’evasione diffusa di imposte, del ruolo frenante della criminalità.
Il discorso si allarga dal necessario piano sindacale a un piano politico più generale.
“La classe oggi è molto più omogenea che in passato e lo sarà sempre più”, con un livellamento al ribasso. Mentre si presenta la possibilità materiale di fare la rivoluzione, la coscienza di classe è ai minimi storici. La borghesia sa che le condizioni strutturali inevitabilmente vanno omogeneizzando il mondo del lavoro e cerca perciò di introdurre elementi di divisione sovrastrutturali: dalle corporazioni fasciste all’attuale neocorporativismo, cercando da un lato di dividere il fronte del lavoro sulla base di interessi particolari e dall’altro di battere sul tasto della compatibilità con i superiori interessi nazionali. Vedi gli accordi degli anni 90 per abolire la scala mobile e progressivamente fino alla svolta di Marchionne, iniziata in modo unilaterale e poi recepita da padronato, governo e sindacati accomodanti. La violenza della controffensiva padronale fa però cadere molti elementi di ambiguità e diviene sempre più evidente la distanza tra le burocrazie sindacali e la crescente massa di esclusi da questi patti, che può farsi protagonista se riesce a darsi compattezza e adeguata organizzazione.
Non ci sono scorciatoie: né slogan che cambiano continuamente, né cartelli elettorali che dovrebbero rappresentare una classe ampiamente sconosciuta. Bisogna prima far emergere questa classe e la sua coscienza, entrare in contatto con le vertenze fornendo loro strumenti utili ma anche cercando di unire i lavoratori sul piano politico, sul terreno dei rapporti di forza complessivi, della spinta verso una trasformazione dei rapporti sociali, indipendentemente dai territori, dalle categorie, dalle aziende e dai sindacati di appartenenza.
L’affermazione del diritto a lavorare tutti, lavorare meno e a salari più alti non è una grande novità, ma rimane il terreno principale di unificazione del proletariato. Come articolare questo impegno dipende dalle condizioni reali e il libro può esserci di aiuto a comprenderle meglio.
(*) ripreso da «La città futura»: http://www.lacittafutura.it/ . Di questo libro si è già parlato in “bottega” – qui: Un indispensabile «Dove sono i nostri» – definendolo appunto «indispensabile». Per trovare Clash City Workers andate qui: clashcityworkers.org.