«Le donne del millennio»: un’antologia con…
… Ursula Le Guin e altre
di Giulia Abbate – Libri da recuperare: dodicesima puntata (*)
«Le donne del millennio» ovvero Millennial Women: è strano pensare che la definizione contenuta in questo titolo antologico del 1978 oggi si usa correntemente per le donne della mia generazione, definita appunto la generazione millennial.
Dietro al dato cronologico che è ora usato come primo significato (nel senso di “coloro che diventano maggiorenni con il cambio di millennio”: quindi è un nuovo significato) questo anglo-latinismo contiene un riferimento più antico, emblematico e affascinante. E doppio: millennial come millenaristico, legato a visioni apocalittiche e di palingenesi; e come millenario, cioè qualcosa che dura millenni o risale a millenni addietro. Niente male!
L’antologia «Donne del millennio» curata da Virginia Kidd (fu tradotta in italiano nel 1982) racchiude un po’ tutto questo: le autrici spaziano da un domani prossimo a ere spaziali lontanissime, e affrontano a viso aperto grandi e piccoli cataclismi, dove il rinnovamento sta nella forza di personagge che pensano, combattono, studiano e amano.
Nella prefazione la curatrice Virginia Kidd dichiara apertamente la presenza dell’amore nelle storie lì presenti e include questo aspetto fra quelli più rilevanti della fantascienza selezionata: non perché “al femminile”, ma perché “umana”.
L’amore, come la scienza, la tecnica, il vivere sociale, la politica e così via, appartiene alla sfera della nostra vita, e ne è spesso una componente importantissima. I racconti dell’antologia non hanno paura di ricordarcelo e di passare attraverso le questioni dell’amore con storie emblematiche che anche oggi sono in grado di parlarci di tutto, con efficacia e stile.
La raccolta si apre con la prefazione illustrativa di Kidd, che dedica qualche parola a ogni testo e a una introduzione generale.
Il primo contributo è un componimento in versi, cosa non inusuale nelle antologie, specialmente in quelle dove le donne hanno la prevalenza e dove trovo più spesso questa mescolanza – mi baso sulla mia esperienza personale, quindi non pretendo di tirarci fuori un principio generale.
Non pretendo nemmeno di poter recensire una poesia, campo che non mi appartiene: «Preghiera per mia figlia» di Marilyn Hacker è un percorso urbano raccontato alla seconda persona singolare – «Tu tornerai / a casa sola sull’AA / locale…» – nel quale incontriamo donne diversissime, di ogni colore e atteggiamento, tese nell’ascolto di una notizia che sarà rivelata solo alla fine. Torno a leggerla spesso, come mi capita per le poesie che sento in qualche modo riguardarmi, e mi soffermo sul senso di meraviglia generale, e sulle rapide descrizioni delle donne incontrate «sull’AA locale».
«Nessuno dice per sempre» di Cynthia Felice mette in scena un conflitto familiare abbastanza tipico, ma a parti rovesciate. La protagonista lavora, ha una carriera e deve prendere una decisione impegnativa. Il suo compagno, meno vincolato, deve quindi decidere cosa fare, se prestarsi a un qualche tipo di sacrificio, se “aspettare”, se rompere la storia: dipende tutto dal valore condiviso che entrambi danno al loro percorso insieme.
È una storia che oggi potremmo sentire vicina e che ciò nonostante è ancora poco comune. In uno scenario futuristico, i problemi appaiono comunque molto vicini a noi, e questo a mio avviso è un pregio della narrativa speculativa: quello di “isolare” questioni molto importanti e replicarle in contesti stranianti, arrivando a suggerirci che non importa quando andiamo “avanti”, se poi siamo sempre lì. Discuterei anche su questo “sempre lì”: ora in realtà siamo più indietro, il contesto pandemico ha rivelato quanto fragile sia lo status professionale delle donne, e una moglie in carriera che chiede sacrifici al marito è oggi più che mai qualcosa di veramente “fantascientifico”.
«Il canto di N’Sardi-El» di Diana L. Paxson cambia decisamente tono, stile e scenario: è una space opera di poche pagine che ricorda i racconti di Mary, in «Memorie di una astronauta» di Naomi Mitchison. Una spedizione commerciale si imbatte in una sorta di transfuga: una bambina umana che è stata salvata da un disastro astronautico da una specie diversa, e che ora, di nuovo tra gli umani, ha difficoltà a relazionarsi. Ma la protagonista è una esperta di lingua e comunicazione interspecie, e cercherà di comporre i contrasti creati dalla presenza della bambina nella trattativa commerciale in essere. Gli esiti della vicenda non sono affatto scontati, e l’epica aliena alla quale appartiene il canto del titolo ha un risvolto decisamente amaro, per i suoi stessi seguaci.
«La storia di Jubilee» di Elyzabeth A. Lynn è quello che mi pare di poter definire il primo racconto dichiaratamente femminista della raccolta. Elspeth, Ruth e Jubilee, un gruppo di “sorelle” che vivono in un territorio proprio, seguendo le proprie leggi di sapienza e parità, vanno ad aiutare una donna nel pieno di un parto. La donna abita a Miseria Superiore, e il nome non è casuale: le sorelle si trovano infatti in un incubo patriarcale, fra uno spregevole nonno padrone, un marito tirannico e un cognato infame. Emerge una brutta storia familiare, figlia di un profondo squallore morale prima che materiale; squallore che non è un brutto incidente o una degenerazione, ma un aspetto intimamente legato alle forme di dominio maschile, tant’è che (oggi, 2021) leggiamo di storie del tutto simili in continuazione, ovunque le donne siano oppresse.
Di nuovo la voce narrante è di una personaggia, Jubilee; e la storia non si chiude nel modo in ci potremmo (e vorremmo) aspettarci, ma con un insegnamento che chiunque faccia attivismo sociale conosce bene: non si può “salvare” nessuno per forza, il cambiamento deve arrivare dalla persona in difficoltà, e qualsiasi insistenza o iniziativa non condivisa è inutile più spesso che no.
«Il richiamo di Mab Gallen» di Cherry Wilder richiama pure in modo abbastanza scoperto «Memorie di una astronauta» di Mitchison, questa volta più che altro per il tono. La protagonista, che di nuovo è anche voce narrante alla prima persona, è una ufficiale medica esperta e ormai anziana, e rievoca in tono riflessivo un episodio della sua lunga carriera: un incidente nello spazio, che chiama in causa il concetto personale di fede in qualcosa di più grande. Anche qui il genere è la space opera, il grilletto narrativo un problema estremo e inaspettato che costringe alcune persone molto diverse a stare insieme e a confrontare i rispettivi atteggiamenti di fronte alla possibilità della fine.
«La fenice delle ceneri» di Joan D. Vinge è una bella storia d’amore, sullo sfondo di una California pesantemente arcaicizzata, nella quale la tecnologia è in gran parte dimenticata e la ruralizzazione dell’economia riporta in auge il “caro” vecchio patriarcato delle tradizioni contadine, che naturalmente si porta appresso un solido legame di stampo mafioso tra potere “spirituale” della Chiesa e controllo sociale degli uomini ricchi sul resto della popolazione – le donne, come ovvio, sono in fondo a tutti gli altri. È il mondo di Amanda Montoya, figlia ribelle di un possidente, che però un giorno conosce un uomo completamente diverso. Cristoval Hoffman arriva in volo dal Sudamerica avanzato scientificamente, ma a causa di un incidente del suo velivolo si schianta dove Amanda lo trova, e soprattutto perde la memoria. Deve quindi rimettere a posto i suoi pezzi (anche letteralmente) in un mondo che diffida di lui (uno straniero arrivato su un aggeggio satanico), ma che lo mette comunque al di sopra della donna che lo cura. È un racconto avvincente, delicato, gradevole, perché l’autrice riesce a comunicarci il fatto che Amanda è una ragazza con molta paura ma anche con molte risorse, e che Cristoval è un brav’uomo. Il patriarcato schiaccia le donne, costrette a sviluppare capacità di sopravvivenza in situazioni estreme… ma anche i bravi uomini, ci dice Joan D. Vinge, patiscono la situazione però, se abbastanza coraggiosi, possono rinunciare al privilegio e fare un favore anche a sé stessi.
«L’occhio dell’airone» di Ursula K. Le Guin è la “star” dell’antologia: sia perché l’autrice era già molto nota all’uscita della raccolta, sia perché questo lungo racconto – che occupa da solo lo stesso spazio degli altri messi insieme, quindi la metà del volume – è poi stato ristampato anche da solo, e costituisce a mio avviso una perla da recuperare assolutamente, qui e ora.
Le Guin mette a confronto due società, come nella migliore tradizione utopista: su Victoria, pianeta periferico e abbandonato dalla “madrepatria”, sono stati scaricati gli indesiderati, che però si dividono in due gruppi ben distinti. Ci sono i veri e propri galeotti, che non tardano a fondare una colonia di stampo patriarcale e commerciale, dal sapore praticamente realistico, la Città; e c’è una comunità di dissidenti, riunita nella vicina comunità rurale di Shanti, che basa la propria vita e la propria organizzazione sulla nonviolenza gandhiana, quella che lo stesso Mahatma chiamava Ahimsa. Le Guin dimostra di conoscerla bene e di averne capito profondamente i princìpi, dando vita a una storia sorprendente che alla semplicità dell’intreccio e del conflitto sovrappone la potenza eversiva della nonviolenza pratica.
Il breve romanzo prende le mosse da un conflitto fra le due comunità: alcuni abitanti di Shanti, con il giovane Lev alla guida, vogliono fondare un’altra comune nell’entroterra; ma i padroni della Città intendono impedirlo, e impossessarsi di terre e foreste usando quelli di Shanti come manodopera… soprattutto i padroni vogliono avere il controllo dei contadini e non tollerano la possibilità di una loro iniziativa personale. Ecco quindi che si delinea una guerra, combattuta ad armi impari: la Città prepara squadracce e ricorre alla violenza diretta, Shanti mette in atto la propria forza interiore per rispondere in modo gandhiano.
Se questo conflitto vi sembra impossibile, e siete certə che finirà con il trionfo sanguinoso della Città, significa che non conoscete l’Ahimsa e che dovreste recuperare «L’occhio dell’airone» ma anche gli scritti di Gandhi, di Aldo Capitini, di Marco Pannella, di Marshall Rosenberg e di Etty Hillesum: tutto il potere sta nello spirito, e Ursula K. Le Guin trasforma un potenziale romanzino a tesi in una storia forte della forza dei suoi personaggi. C’è anche una storia d’amore: un amore che libera la giovane Luz Marina non tanto e non solo dalla schiavitù paterna ma dalla mentalità nella quale è cresciuta, che le negava ogni potere: la ragazza di quel potere si fa responsabile e “coltivatrice diretta”.
Come si è capito, considero questo breve romanzo una perla. Oggi – in questo tempo nel quale non abbiamo mai avuto tante possibilità di libertà, eppure siamo annichiliti e più sprovveduti verso il potere di un qualsiasi contadino medievale – è importante che recuperiamo la sapienza nonviolenta,e soprattutto la consapevolezza che noi possiamo coltivare il potere del nostro spirito e infonderlo nelle lotte politiche di cui la vita su questo pianeta ha bisogno.
Ma tutte le storie di questa raccolta sono belle e in qualche modo preziose. Perché brilla la convinzione che il meglio può accadere. Perché parlano di amore non “al femminile” ma umanamente. Perché creano voci di donne che stanno con le oppresse, ma vedono anche gli oppressori e la sofferenza connaturata all’essere carnefici. Perché sono storie semplici e ben condotte, senza tante manfrine e con buona inventiva. Si leggono con piacere, aprono possibilità e lasciano dentro un sentimento positivo verso il futuro. Penso che alla buona fantascienza non si possa chiedere di meglio.
Go, millennial women! 😀
(*) L’idea di questa rubrica è di Giuliano Spagnul: «… una serie di recensioni per spingere alla ristampa (o verso una nuova casa editrice) di libri fuori catalogo, preziosi, da recuperare». Siamo partiti il 2 aprile (con Giuliano ovviamente) a raccontare Gunther Anders: «Essere o non essere». Poi L’epica latina: Daniel Chavarrìa (14 aprile) di Pierluigi Pedretti, «Poema pedagogico» di Anton Makarenko (30 aprile) di Raffele Mantegazza, «Il signore della fattoria» di Tristan Egolf (12 maggio) di Francesco Masala, «Chiese e rivoluzione in America latina» (26 maggio) di David Lifodi, «Teatro come differenza» di Antonio Attisani (9 giugno) ancora di Giuliano Spagnul, «Dizionario della paura»e di Marcello Venturoli e Ruggero Zangrandi (23 giugno) di Giorgio Ferrari, «Arrivano i nostri» di Dario Paccino (il 7 luglio) di Giorgio Stern , «Un debole per quasi tutto» di Aldo Buzzi (21 luglio) di Pierluigi Pedretti, «Protesta e integrazione nella Roma antica» (4 agosto) di Giuliano Spagnul e Athos Lisa: «Memorie» (18 agosto) di Gian Marco Martignoni) e Giulia Abate.
Ci siamo dati una scadenza quattordicinale, all’incirca. Se qualcuna/o vuole fare proposte e/o inserirsi troverà le porte aperte. [db per la “bottega”]